Da diversi anni penso che il nostro mondo accelerato abbia bisogno di filosofi (e oggi più che mai) per non perdere il senso. Quando qualcuno di loro parla, però, ho la netta sensazione che nessuno li ascolti: “Perché ci sono solo filosofi accademici che hanno voce finché le istituzioni gliela danno. Non ci sono i filosofi che incarnano la filosofia nella vita. Gli ultimi? Croce, Gentile, Gramsci”, commenta Romano Madèra già professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche all'Università degli Studi di Milano Bicocca, membro delle associazioni di psicologia analitica AIPA e IAAP, uno dei fondatori della Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche Philo di cui è docente e dove, ai fini della ricerca e della cura del senso, si pratica una “analisi biografica a orientamento filosofico” (SABOF, società degli analisti filosofi). “Le istituzioni non hanno più bisogno di grandi discorsi, il consenso si ottiene con un click, un like. E allora dico: noi filosofi riportiamo la filosofia a un modo di vivere capace di integrare diverse propensioni, ispirazioni, anche religioni, per coltivare il dubbio, imparare a convivere con l’incertezza”.
L’incertezza di oggi arriva dal virus.
La pandemia è la scarnificazione di un mondo dato per scontato. Pensiamo che domani sia uguale all’oggi, se oggi le cose vanno bene. È saltato per aria l’ordine, ma è solo una percezione, perché il caos di oggi ha radici più lontane: ora ci troviamo nel potenziamento di una fase di disordine, che non è solo un male. La Storia insegna, per esempio, che dalle guerre ci sono state rinascite per certe civiltà o al contrario altre ne sono sparite.
Di una cosa è vero anche il suo contrario.
Il punto è che si fa finta di non vedere che il caos è in atto da tempo. Prendiamo appunto il virus. L’OMS e i piani di tutti gli Stati prevedono controlli, che variano periodicamente, per verificare vi siano condizioni adeguate a una risposta del sistema in caso di epidemia. Sono previste esercitazioni per testare le capacità: non sono state fatte né da noi né negli Usa. Poi però si è parlato di sorpresa, di un fatto inaspettato, cosa smentita dalla scienza. Perché le epidemie ci sono e ci saranno, anche se non è certo diventino una pandemia. Così si è ricorsi alla teoria del cigno nero.
Il colpevole.
È il classico modello usato in politica da millenni: il capro espiatorio. Vince chi scarica le colpe su uno degli attori che magari non ha colpe, perché più spesso le cause sono nei difetti di sistema. All’inizio dell’epidemia era colpevole la Cina, che sicuramente ha fatto errori. Poi è stato il turno della Lombardia, una delle regioni più ricche d’Europa, che è caduta perché il sistema sanitario non è l’eccellenza che vantava di avere.
Una rincorsa di accuse per non prendersi responsabilità.
La situazione caotica si è dimostrata nella sua totalità. Per gestire un’epidemia mondiale, serve almeno qualche linea di fondo sulla quale convergere. Non è accaduto perché non ci sono le condizioni. E potrebbero esserci solo in astratto. Ci troviamo di fronte al risultato della globalizzazione che non è un mostro, anzi, siamo a un livello di integrazione economica (merci, processi produttivi, persone) e questo rende inevitabile che una piccola cosa che accade in un luogo influenza nel bene e nel male anche all’altro capo del mondo. E anche questo si sapeva. Com’era noto che, se è vero che siamo interdipendenti economicamente, non abbiamo nessuna istituzione, né buona né cattiva, con poteri decisionali per stabilire le convergenze di cui sopra. Tutti gli organismi internazionali, OMS, ONU, FMI, Banca Mondiale, G20 sono scatole vuote. Se il Covid-19 fosse solo un’epidemia circoscritta a un’area del mondo, nessuno si sarebbe posto il problema “di una convergenza globale di linee guida”. La pandemia ci ha svegliato perché è in scala globale e questo ci impone di capire oggi com’è fatto il mondo, non solo la propria Nazione o la propria regione.
Bisogna attrezzarsi per affrontare un cambiamento epocale.
Penso che l’unica via sia un risveglio culturale, perché con l’insipienza non si va da nessuna parte. Eppure la transizione che viviamo, oggi resa esplosiva dal virus, è in atto dalla fine degli anni Ottanta.
La caduta del muro di Berlino…
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Usa hanno avuto egemonia e influenza come prima potenza sul mondo intero. Quello era un certo ordine mondiale. Un ordine che ha iniziato a frantumarsi già negli anni Settanta, con la crisi petrolifera. Poi, sì, con il crollo del muro di Berlino che, a sorpresa, anziché rafforzare la potenza Usa, ha contribuito a indebolirla e con essa anche il modello egemone post bellico. Lo slogan “Make America great again” mostra che la capacità statunitense di indicare un modello di crescita in grado di soddisfare molteplici richieste di molte altre unità del sistema, sta disintegrandosi e che la “tirannia delle piccole decisioni”, a vantaggio di qualcuno contro l’interesse sistemico generale, sta prevalendo.
Per avere un ordine egemone si può comandare solo se, dall’interesse della potenza più importante, scaturiscono situazioni attraenti anche per i Paesi non egemoni. Pensiamo al piano Marshall: era conveniente anche per l’Europa. Poi lentamente e fino alla crisi del 2008 ha sempre più preso sopravvento l’interesse americano. Manca il governo del mondo. Giovanni Arrighi in Chaos and Governance in the Modern World dice: “ci troviamo dentro cambiamenti nei rapporti di potere tra civiltà occidentali e non occidentali, e in particolare la domanda è se ci stiamo avvicinando alla fine di cinque secoli di predominio occidentale nel sistema mondiale moderno”.
Il capitalismo pare finito.
È mutato nei secoli, secondo le egemonie: dal colonialismo e l’occupazione dei territori alla penetrazione delle merci. È stato una straordinaria rivoluzione che ci ha portato alla possibilità di pensare concretamente all’interdipendenza, Marx questo diceva. Così com’è oggi penso sia arrivato al capolinea: si sta passando ad altre egemonie o, come auspico, a diversi punti egemoni che potrebbero anche cooperare. La pandemia è un’occasione. Siamo arrivati, in secoli, con grandi difficoltà a fare nostra l’idea di Stati nazionali. Il passaggio oggi è guardare a una coscienza cosmopolitica, lo diceva già Kant, ma ora ce lo impone la realtà. Cosmo vuol dire natura, ambiente ma anche interdipendenza. Le grandi tradizioni, messe troppo velocemente da parte, possono aiutarci.
Religioni, scritture sacre, spiritualità laica, filosofia…
Sono tradizioni cui rivolgersi. Lì c’è, come nel cosmopolitismo laico, la risposta: l’interdipendenza è stata profetizzata da migliaia di anni, ma non siamo ancora arrivati lì. Pensiamo “a pezzetti”, invece serve ragionare sull’insieme. Anche la filosofia come modo di vivere può essere uno strumento utile, per un impegno che sia in un certo senso metapolitico, la cultura che aiuti la politica, per condurci a guardare la foresta, non solo un singolo albero.
Nell’attesa viviamo in un disagio diffuso, come lei racconta anche in Il caos del mondo e il caos degli affetti che ha scritto di recente con Gordon Cappelletty.
Viviamo già da tempo in una crisi dei quadri di identità: nessuno sa più chi è. Sul piano storico e quindi sociale e psicologico, il capitalismo globale dal secondo dopoguerra genera grande movimento e libertà, perché con la produzione di massa serve un mercato di massa. E quindi non si possono educare le persone secondo una morale repressiva, ascetica. Ecco quindi il “vietato vietare” dei movimenti rivoluzionari che hanno portato grandi libertà (da quella sessuale, a quella femminista e dei LGBT) alle quali avrebbero dovuto conseguire grandi responsabilità. Nessuno è riuscito a forgiarci in quel senso, né il sistema educativo né le diverse forme di convivenza e famiglie. Il risultato, secondo me, almeno nella parte di mondo più sviluppato è, appunto, le crisi identitaria. Bisogna mettere insieme dalla mattina alla sera ruoli diversi che però non si armonizzano. Viviamo tutti, seppure in forma lieve, il disagio del borderline: incostanza, incapacità di avere un flusso di emozioni o di relazioni, di rapporti stabili, pianificare progetti.
Mancano i modelli. Ognuno dovrebbe costruire il proprio. A Philo lo facciamo con l’analisi biografica, proprio perché non possiamo più copiare il quadro identitario: donna, studente, lavoratore tipo. È un bene che ognuno trovi la propria via fuori dai cliché. Questa è però un’impresa tremenda perché bisogna cominciare da sé ma non si può finire con sé, altrimenti si sfocia in una specie di narcisismo di massa, dove in effetti siamo finiti: siamo tra il border e il narcisismo. Di fronte alle prove collettive della vita non sappiamo reagire. Siamo incapaci di tessere relazioni, reggere la frustrazione, perché per farlo si ha bisogno di una speranza, di progettare, di correggere la via, altrimenti quando crolla qualcosa nel mio mondo immediato mi dispero, perché mi spezzetto e allora mi piango addosso, divento rivendicativo, attendendo il risarcimento da altri invece di fare la mia parte, provare a trovare una soluzione nel mio piccolo. Guarda caso in tutto il mondo sono in crisi le forme di associazionismo tradizionale: partiti, sindacati, chiesa. Una crisi che sembra finale. Regge invece l’associazionismo di volontariato, lì ci si forma alla cooperazione ad avere un progetto. Lì si trova “speranza”. Tornando alla pandemia: quando la prova diventa complessa come, per esempio, la recidiva della seconda ondata, si pensa che non se ne uscirà mai e si naviga in una serpeggiante depressione.
Forse serve prendere le distanze.
Ecco un antico esercizio spirituale per l’oggi: guardare il mondo dall’alto e se stessi in basso in mezzo agli altri. Non vedremmo frontiere ma la terra tutta e capiremmo che è a questo tutto che bisogna pensare, di cui prenderci cura; è questo tutto che dobbiamo rivoluzionare se vogliamo far vivere decentemente le generazioni di oggi e future di tutte le specie presenti in natura. Sarebbe una vergogna cosmico-storica rinunciarvi solo per qualche “tesoro” che, come quello del ricco epulone, sa già di ruggine e di morte.