Oggi ho visto nel cielo azzurro di Assuan, Ra, luminoso e magnifico nella sua possanza creatrice. Sulla montagna di granito, nelle cui viscere riposa Osiride, ho sentito scalpitare e correre i cavalli alati e l’arso granito dei blocchi sembrava sfaldato e percorso dalle lotte di Horo. Ho sentito ciò nel silenzio dei secoli che il sole abbagliante ha difeso gelosamente tra gli immani blocchi che fronteggiano la nuova sede della dolce, feconda e amorosa Iside: l’isola di Algikia.
Il 22 ottobre del 1978, quasi al compimento dell’impresa più imponente e nota della sua carriera, l’architetto e archeologo Giovanni Ioppolo (1932-1999), scrisse una lettera a Flavia Di Domenico, la ragazza che poi avrebbe sposato e che oggi, nel quarantesimo anniversario del salvataggio del santuario di Iside di File, ricorrenza che l’Egitto ha appena celebrato, ci racconta di lui.
Nel 1974 l’Unesco aveva incaricato la Condotte-Mazzi Estero S.p.A. dell’esecuzione dei lavori di smontaggio delle novantacinque strutture monumentali di File, sommerse dal Nilo, e la loro ricostruzione sul vicino isolotto di Algikia. A Giovanni Ioppolo furono affidate la supervisione e la responsabilità di tutte le operazioni di competenza della consociata italiana. Un puzzle di 45.000 blocchi architettonici.
La costruzione della prima diga di Assuan nel 1902 aveva gravemente compromesso l’isola di File: il tempio dedicato all’eccelsa divinità femminile egizia era sott’acqua undici mesi all’anno con danni severi agli edifici e perdita del cromatismo delle pareti decorate. L’importanza del complesso, rinomato come Perla del Nilo, meta di studiosi e turisti, eternato nelle bellissime stampe del Roberts, romanticamente narrato nel 1909 da Pierre Loti in La Mort de Philæ, portò all’impegno speciale dei paesi membri dell’Unesco che bandirono una gara internazionale per un progetto di salvataggio.
Nel 1996, a vent’anni dall’operazione, Ioppolo pubblicò un resoconto dell’impresa sulla rivista Archeologia Viva. Nel passo qui riportato descrive il rapporto stabilito con il luogo:
[…] I monumenti non erano solo astrazioni di storia dell’architettura, ma realtà funzionali dove l’uomo si confrontava con il mito, dove il lavoro dei costruttori si evidenziava dalla lavorazione delle superfici, dalle tecniche adottate, dagli accorgimenti per fuorviare i ladri dagli accessi ai depositi votivi, dallo studio degli effetti della forte insolazione sugli uomini e sulle pietre (in una rara occasione la temperatura salì a 52° all’ombra!), dalle tecniche, ancora oggi sconosciute, adottate per eliminare durante le piene i rigonfiamenti del terreno, i rischi di lesioni alle rigide strutture lapidee. Le migliaia di raffigurazioni, snodantisi per quasi dieci chilometri di filari di blocchi, portarono la fantasia a immaginare l’alacre e continuo lavoro di scalpellini e artisti, la presenza degli scribi-sacerdoti, la ricchezza delle donazioni e l’afflusso dei fedeli.
Di seguito, invece, l’archeologo spiega come diamine aveva fatto:
[…] Al fine di un sistematico e ordinato smontaggio di tutto il complesso ho attentamente studiato ed elaborato un sistema di sigle di identificazione che per ogni blocco indicava: il monumento di appartenenza, il singolo ambiente, l’orientamento della parete rispetto a un osservatore posto al centro dell’ambiente, il numero del filare a partire dallo spiccato dei pavimenti e infine il numero d’ordine (con progressione verso destra) del blocco messo in opera sullo stesso filare.
I blocchi smontati furono disposti in un’area di stoccaggio di 96.000 metri quadrati a Shellal, nella pianura di Quarantine, dove in antichità sostavano in quarantena gli animali importati in Egitto nei secolari scambi con il Sudan. Una zona, che scrisse ancora Ioppolo, divenne “una specie di biblioteca all’aperto, utilizzata dagli studiosi che poterono controllare comodamente alcuni dei testi geroglifici ricavati nella faccia visibile dei blocchi e prima difficilmente leggibili per la loro collocazione nelle parti alte dei monumenti”.
Ioppolo descrive tramonti gialli e rossi che fondevano terra e cielo, notti eccezionali nelle quali splendeva fra le stelle la barca lunare di Iside, un’ora di pioggia arrivata dopo diciotto anni di siccità, e l’intuizione, nell’infinità circostante, della presenza della dea.
Tutti gli attributi di Iside sono quelli che noi recitiamo nelle litanie della Vergine Maria, un’idea antica quella della dea madre che è feconda, che è immensa. Si sia credenti o no. Mio marito Giovanni questo lo sapeva e sentiva la responsabilità che aveva nello smontare e rimontare i monumenti. Mi viene in mente che diceva sempre: bisogna pensare con logica, operare con metodo, ma vivere con emozioni. E questa è proprio la sintesi della sua personalità: era scienziato, ma anche poeta e nella lettera a me si sente questa doppia anima. Poi lo rendeva grandioso la capacità di parlare con chiunque nella stessa maniera e di ascoltare chiunque nella stessa maniera. Generoso, disponibile. Approcciava il suo lavoro con umiltà e una precisione quasi ossessiva. Aveva una capacità grafica spaventosa, tanto che riusciva a mettere cinque linee parallele in un millimetro, ma nello stesso tempo aveva tutti i dubbi di un animo tormentato.
Per placarsi, infatti, assicurava che le fondamenta di File sono ancora lì. Vedi mai, i monumenti si potrebbero un giorno rimontare nel luogo primigenio.
Era un problema che veniva dibattuto molto in quel periodo perché ogni restauro deve essere reversibile, ma a File c’era qualcosa di più. Direi l’andare alle radici della madre terra e non alterare quella che era stata la costruzione originale con la malta, composta anche del limo del Nilo, identica a millenni fa. In Giovanni, oltre alla parte scientifica, c’era il desiderio un po’ spirituale di ritornare all’essenza delle cose. Le maestranze gli riconoscevano, nella sua serietà, una forte umanità, mettendo una mano ortogonale all’altra in mezzo al palmo, e lui mi spiegava che quel gesto nel mondo arabo indica un uomo giusto.
Ricordo l’emozione di approdare a File insieme, mi pare fosse il 1984. Qualcuno aveva dato voce che sarebbe tornato e, mentre scendevamo dal battello, il gruppo degli operai che avevano lavorato con lui fece partire un applauso pazzesco, da prim’attore. Ero una ‘bimba’, ventiquattrenne: per me era tutto meraviglioso, provavo l’orgoglio d’appartenenza e l’amore infinito per un uomo che aveva dato molto al suo Paese e anche all’Egitto. Parliamoci chiaro: in questo momento nel quale i rapporti con l’Egitto sono difficili bisogna sottolineare anche che l’Italia ha donato un intervento che oggi frutta abbastanza al turismo egiziano. Ci fu una notevole collaborazione fra due Paesi impegnati in qualcosa di rilevante, ma vorrei si sapesse che Giovanni è stato il cervello dell’operazione perché, se è vero che c’era stato un concorso internazionale e che si era deciso di salvare i monumenti di File smontandoli, Giovanni ha studiato la chiave, il codice delle sigle, che ha permesso non solo di smontare, ma di rimontare alla perfezione. Diceva che questa sigla era così semplice che tutti dovevano poterla leggere, anche gli operai meno specializzati. In effetti chiunque andava a prendere un blocco sapeva esattamente dove rimetterlo e io credo questo sia stato davvero merito esclusivamente suo.
Quali altri interventi di Ioppolo sono da citare?
La lista sarebbe infinita. Mi piace ricordare la ricostruzione della scala della Galleria Borghese perché fu una vicenda, non dico simile a quella di File, ma altrettanto complessa. La scala di Flaminio Ponzio era andata perduta e al suo posto ce n’era una settecentesca, fino a quarant’anni fa l’ingresso del museo, che non c’entrava niente con l’originale. Sapevamo com’era quella di Flaminio Ponzio solo dalle stampe e quindi una ricostruzione scientifica non si poteva fare. Giovanni ebbe l’intuizione di andare a cercare nell’Archivio Segreto Vaticano. Lì trovò la fattura degli scalpellini che, per farsi pagare correttamente, erano stati, per nostra fortuna, molto precisi e da quel documento lui ricavò le misure esatte di ogni singolo pezzo della scala di Flaminio. Ci mise un anno: le misure erano in piedi quindi doveva tramutarle in metri. Nottate passate a decifrare. In un’alba di aprile mi svegliò, io dormivo da ore, e disse: ‘È fatta, ho trovato l’ultima pietra’. Ed eccola là, la scala della Galleria Borghese perfettamente ricostruita.
Ma vorrei citare almeno anche gli scavi a Sant’Omobono a Roma, l’arco di Settimio Severo a Leptis Magna. Credo che negli anni Sessanta Giovanni sia stato l’unico esperto a livello internazionale dei beni culturali che il Ministero degli Esteri mandava nelle missioni. Tantissime. Esistono dei cataloghi dove chi è interessato può accedere. Io ho donato il suo archivio di oltre 1800 disegni al Comune di Roma, ma altrettanti ce ne sono all’Ismeo perché lui è stato in Pakistan al seguito di Giuseppe Tucci e in Afghanistan. Paesi dove all’epoca entravano davvero pochi europei.
Quando nacque la sua passione per l’archeologia?
Al liceo artistico romano di via Ripetta il professor De Vico si accorse immediatamente che Giovanni aveva una mano straordinaria, del resto, raccontava sua madre Angelica, già in prima elementare, quando gli fecero disegnare la classica bandierina, la disegnò in movimento. Talento innato.
Ho la testimonianza diretta di mia madre che era sua compagna di liceo: Giovanni aveva un banco particolare in prima fila perché l’insegnante aveva capito che era fuori dal comune e un giorno lo mandò, a nemmeno diciotto anni, alla Soprintendenza che cercava un rinnovatore al Foro Romano. Era intimidito perché c’erano due archeologi famosi, uno era Antonio Maria Colini, che litigavano su un portico. Qualcuno diceva che era esistito, qualcun altro diceva di no. Il giovane Ioppolo, studente imberbe, provò ad alzare la mano: ‘Professore, scusi, non vorrei essere indiscreto, ma mi sembra di capire che se ci fosse un portico ci dovrebbero essere anche le fondazioni delle colonne’ e questo bloccò la discussione. Si capì subito che il ragazzo sarebbe stato utile all’archeologia infatti inventò, e questo diciamolo, la materia del rilievo e analisi tecnica dei monumenti antichi. Tenne il corso a Topografia perché Ferdinando Castagnoli, altro archeologo di grande fama, si rese conto dell’utilità di un’analisi tecnica non solo basata sulle fonti, ma proprio sul campo, e gli chiese di supportarlo all’università con un corso parallelo. Giovanni non ebbe mai la cattedra.
Non sarebbe stato nel personaggio.
Infatti. La cattedra la ebbe un professore che insegnò con buone qualità, ma non quelle. Per anni tentammo di far riconoscere questa primogenitura, ma si sa che le faccende burocratiche sono lontane dal genio.
Io ricordo che faceva anche lezioni sporadiche. La mattina usciva, con i suoi libri, i disegni, le proiezioni. Quando tornava, non tornava solo, ma con cinque, sei, otto, dieci allievi, una specie di codazzo che si portava nello studio: come in una bottega del Rinascimento. Sosteneva che i ragazzi dovevano vivere con il professore. A me toccava calare spaghetti per tutti e lui era adorato da questi giovani che rimanevano con noi qualche mese. Formando una scuola.
Memorie splendide.
È importante mantenerle. Io credo che glielo dobbiamo. In cantina c’è la mostra che fece sui suoi lavori, pronta a essere riallestita in ogni momento. L’ho ripresa quattro anni fa a L’Aquila. Sono contenta che siano stati festeggiati i quarant’anni del salvataggio di File e vorrei nominare Giuseppina Capriotti Vittozzi che mi ha chiesto di Giovanni in occasione di questo anniversario per un articolo su Archeologia viva.
E ora, per il commiato, ecco la chiusa della lettera di Giovanni a Flavia che apre questo articolo:
Una triste notte di Assuan della fine dell’ottobre 1978, dalla casa di fronte alla collina delle Tombe dei Principi, immersa nel buio della notte, ma in attesa del risveglio quando all’alba il sole nascente la inonda di luce e di calore e sembra riportarla nel pigro andare dell’immenso Nilo, ormai proteso, dopo l’ultima cataratta, alla sua unione con l’immenso mare. Ciao.
Ciao, Giovanni Ioppolo.