I libri di Domenico Dara sono carezze necessarie. Lirici nel loro incantevole assetto narrativo, lasciano il sapore di una indimenticabile poesia. Malinverno, la sua opera più recente, ci ha dato modo di scandagliare con lui le tematiche che hanno dato origine al libro. Per non dimenticare l’eterna importanza della lettura.
Partirei col chiederti qualche dettaglio sulla creazione di Malinverno. Com’è nato il connubio tra cimiteri e libri? Quali sono state le sfide rispetto ai tuoi precedenti lavori?
L’intento era quello di affrontare in maniera diretta il tema per me ossessivo della morte, presente già in maniera sotterranea anche nei lavori precedenti. È stato questo l’ostacolo più arduo: non è un argomento facile, continuando ad essere, quello della morte, un tema complesso, costellato di censure e pregiudizi. La chiave che ho scelto per affrontarla è stata quella della letteratura, riproponendo così una serie di riflessioni che mi portavo dietro da tempo sulle suggestioni che univano cimiteri e libri, certo suggestionato dalla lettura precoce dell’Antologia di Spoon River e dall’innamoramento per il romanzo di Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa. Oltre al tema della morte, un’altra sfida ha riguardato l’uso del linguaggio, che per la prima volta abbandona il dialetto e si misura con un registro diverso.
I tuoi romanzi hanno un sapore senza tempo. Come avviene la scelta dei luoghi e delle ambientazioni?
Ciò che mi interessa di una storia è, sostanzialmente, l’uomo: le dinamiche, i rapporti, le tensioni, le criticità. Per questo non ritengo indispensabile, almeno in quello che ho scritto finora, sapere quando i fatti siano accaduti. Se qualche riferimento ad accadimenti storici c’è, come accade nel Breve trattato con lo sbarco sulla Luna, è perché quell’evento è funzionale alla narrazione. L’idea di questo tempo sospeso ha conseguenze anche sullo spazio in cui sono ambientati i libri che, pur avendo un riferimento preciso e reale, Girifalco, sembra per molti aspetti un luogo astratto e simbolico. Tant’è che, a vedere bene, non ci sono differenze strutturali tra il luogo reale dei romanzi precedenti e quello immaginario di Timpamara.
Ci sono elementi apparentemente ricorrenti quali: il sogno, la visione ed il miracolo che paiono compenetrarsi fra le tue pagine? Li usi consapevolmente oppure – semplicemente - accadono?
Per quanto un autore scriva di storie e personaggi differenti, ci sono sempre alcune immagini o idee o temi che ritornano in maniera continua e che corrispondono alle ossessioni di cui l’uomo, forse anche attraverso la scrittura, vuole liberarsi. Elementi che ovviamente s’inseriscono in un coerente percorso di ricerca: il sogno e la visione come momenti consolatori della vita in quanto aprono uno squarcio su ciò che potrebbe essere e fanno intravedere l’illusoria completezza della vita; l’attesa del miracolo laico inteso come momento in cui quella completezza sembra per un attimo ricomporsi.
Pensi di aver mantenuto un legame con Cesare Pavese (al quale hai dedicato la tua tesi di laurea) nel decidere di dedicarti alla scrittura?
Il mio stile di scrittura è molto diverso da quello di Pavese. La sua opera che sento più vicina, oltre naturalmente al diario che me lo ha fatto sentire affine, l’unica che probabilmente agisce anche nella mia scrittura per un certo gusto sentenzioso e per una ricerca di senso sono i Dialoghi con Leucò: le sue domande senza risposta potrebbero uscire dalla bocca di tutti i miei personaggi.
Puoi già accennarci qualcosa sui tuoi progetti futuri?
Non scrivo molto. Passo anche alcuni mesi senza scrivere niente, soprattutto dopo aver finito un romanzo. Adesso mi trovo in quella fase. Naturalmente non scrivere non vuol dire non progettare o non pensare. È un momento preparatorio in cui cerco mentalmente di fissare le linee portanti della nuova storia e in cui leggo libri che, in un modo o nell’altro, hanno a che fare col tema prescelto. Quello che posso dire è che per la prima volta la protagonista sarà una donna.