Sono passati cinquant’anni dal tentativo di colpo di Stato che sarebbe dovuto avvenire nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. Il protagonista fu il principe Junio Valerio Borghese. Non era la prima volta che la democrazia del dopoguerra veniva minacciata da tentativi di sovvertire le istituzioni e di introdurre forme di presidenzialismo, peggio, di regimi autoritari ispirati al ventennio fascista. Si pensi al Piano Solo predisposto nel 1964 dal generale Giovanni De Lorenzo, del fu un piano di emergenza speciale a tutela dell'ordine pubblico e fatto predisporre nel 1964 da Giovanni de Lorenzo, durante il suo incarico di comandante generale dell'Arma dei Carabinieri. Il Piano ebbe il consenso dello stesso Presidente della Repubblica Antonio Segni, costretto poco tempo dopo a dare le dimissioni per motivi di salute. Altro tentativo, successivo a quello oggetto del presente articolo, fu il cosiddetto “golpe bianco” programmato dall’ambasciatore Edgardo Sogno, nel 1974, con l’obiettivo di introdurre un regime presidenziale, sul modello di quello francese, per neutralizzare il pericolo rappresentato dal partito comunista, nel contesto della guerra fredda in atto tra le due grandi potenze.
Quello messo in atto dal “principe nero” nella notte dell’Immacolata aveva un obiettivo più radicale: quello cioè di un sovvertimento violento della democrazia con l’intervento di organizzazioni eversive, della criminalità organizzata di tipo mafioso, di reparti militari e della loggia P2 di Licio Gelli. Quest’ultimo avrebbe dovuto arrestare personalmente il presidente della Repubblica Giovanni Saragat mentre era previsto anche l’assassinio del Capo della Polizia, il prefetto Vicari. Borghese avrebbe occupato la sede RAI da dove avrebbe lanciato un delirante proclama alla nazione. Un battaglione del corpo forestale mosse nella notte su Roma, mentre elementi di Avanguardia Nazionale, guidati da Stefano delle Chiaie, erano entrati all’interno del Viminale, asportando dall’armeria un buon numero di mitra.
Nel processo relativo alla strage del 1973, davanti alla Questura di Milano, i giudici della Corte d’Appello riferiscono che “il cosiddetto golpe Borghese” del 1970, era avvenuto in accordo “con i vertici delle forze armate (il comandante dell’Aeronautica Militare generale Casero, il colonnello dell’esercito Lo Vecchio, il comandante della Guardia Forestale maggiore Berti). D’altra parte, il passato di Junio Valerio Borghese, fondatore del Fronte Nazionale, che agiva in stretto rapporto con Avanguardia Nazionale, era tutto militare. Era stato comandante della X flottiglia MAS, sin dal 1° maggio del 1943; aveva aderito insieme al suo reparto alla Repubblica Sociale Italiana, nella quale svolgeva la funzione di sottocapo di Stato Maggiore della Marina Nazionale Repubblicana. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 proseguì la guerra combattendo al fianco dei tedeschi contro l'esercito anglo-americano sempre al comando del troncone della Xª Flottiglia MAS rimasto al Nord.
Nelle intenzioni iniziali il golpe sarebbe dovuto avvenire esattamente un anno prima, alla fine del 1969. Una collocazione temporale che teneva conto sull’impatto causato dalle bombe di Milano a Piazza Fontana e da quelle di Roma all’Altare della Patria. Le altre bombe collocate la prima a Milano nel cortile della Banca Commerciale e l’altra a Roma nei sotterranei della Banca Nazionale del Lavoro di Via Aurora, tuttavia, non erano esplose e dunque l’impatto terroristico fu inferiore a quello preventivato. Si contava infatti su una forte e violenta reazione da parte delle masse di comunisti e sinistra extraparlamentare, con conseguente repressione da parte del governo (compresa la messa fuori legge del Partito Comunista), il cui presidente Mariano Rumor aveva probabilmente dato assicurazioni in tal senso.
Tutto ciò non solo non avvenne ma la compostezza e il silenzio osservati dalla folla di centinaia di migliaia di persone, tra cui duecentomila operai in tuta, convenuta in piazza Duomo, tanto da scoraggiare ogni tentazione autoritaria. Che il progetto di golpe fosse a quel momento in fase di avanzata preparazione risulta evidente anche dal comizio che il 25 ottobre di quello stesso anno tentò di tenere a Reggio Calabria, annullato per la mancata autorizzazione da parte del Questore Santillo e il summit che il giorno successivo la ‘ndrangheta tenne a Montalto (alla quale è probabile che avesse preso parte lo stesso Borghese), che doveva servire a sondare la disponibilità della mafia calabrese a sostenere quel progetto, così come era avvenuto con il contatto avuto con i vertici di Cosa Nostra in Sicilia. Ne parlano sia Luciano Liggio, Tommaso Buscetta, Pippo Calderone, che riferiscono di un sostegno non del tutto convinto, ma fiducioso nella promessa di successivi benefici giudiziari. Sondaggio che, almeno per quanto riguarda la ‘ndrangheta ebbe esito positivo. Come riferirà successivamente Vincenzo Vinciguerra (ordinovista dissociato) nel suo memoriale, la notte dell’8 dicembre del 1970, quattromila ‘ndranghetisti calabresi erano in attesa di intervenire. Il tramite era rappresentato dal marchese Felice Genoese Zerbi, lo stesso che comunicò l’ordine di sciogliere le fila allorquando da Roma partì il contrordine di revoca del tentativo. Anche a Venezia, un folto gruppo di aspiranti golpisti, civili e militari, si era radunato all’Arsenale davanti al Comando della Marina Militare. Ordine Nuovo, sempre in vista del buon esito del golpe, aveva organizzato un campo di addestramento militare nel bergamasco. È rimasta oscura la fonte, sulla quale si sono fatte varie ipotesi. Quella più accreditata riconduce l’annullamento allo stesso Borghese, ma resta non chiara da chi pervenne al generale l’ordine di annullamento, posto che sia l’Ambasciata americana (che aveva dato il suo assenso, pur se condizionato), che il Comando dell’Arma dei Carabinieri, e lo stesso governo italiano, erano già a conoscenza del tentativo di golpe. Una tesi riconduce il fallimento ad una fuga di notizie all’interno dei Servizi (SIOS) che avrebbe indotto Andreotti a impartire il contrordine.
Il tentativo del golpe venne reso noto dal governo italiano soltanto il 17 marzo 1971 e in quello stesso anno Borghese si rifugiò in Spagna, ospite del governo franchista, dove morì a Cadice nel 1974, in circostanze non del tutto chiare. Un anno e mezzo dopo quella notte, il SID aveva inviato alla magistratura romana un corposo rapporto sulla vicenda, non a caso definito “malloppone”, così definito dal giornalista Mino Pecorelli che lo pubblicò anni dopo per intero sul n. 1/1979 del giornale O.P. Delle indagini si occupò il pubblico ministero Claudio Vitalone, assai vicino ad Andreotti. Ambedue furono imputati quali mandanti dell’omicidio di Pecorelli, dalla Procura della Repubblica di Perugia, competente per i processi a carico di magistrati romani, condannati in primo grado e poi assolti dalla Corte d’Appello nel giudizio di Appello. Stranamente, solo una parte assai ridotta del “malloppone” venne utilizzata nel processo a carico dei 48 imputati di cospirazione politica per il Golpe Borghese. Esigenze di spazio impediscono di entrare nel dettaglio delle vicende giudiziarie. Una prima indagine della Procura della Repubblica di Roma si concluse con richiesta di archiviazione del 1971 per mancanza di prove. La seconda istruttoria portò alla incriminazione di 48 imputati, tra i quali il generale Miceli, e si concluse con la sentenza della Corte d’Assise di Roma del 1978 con la quale Miceli venne assolto anche dall’accusa di favoreggiamento, reato con il quale era stata ridimensionata l’accusa originaria di cospirazione. La vicenda giudiziaria si concluse in primo grado con l’assoluzione di tutti gli imputati con sentenza definiva del 1984. Il giudizio d'appello per il fallito golpe si concluse in Corte d'Assise, il 29 novembre 1984 con una complessiva assoluzione, con la formula "perché il fatto non sussiste" persino gli imputati che avevano ammesso di aver preso parte al noto evento. I giudici disposero l'assoluzione di tutti i 48 imputati dall'accusa di cospirazione politica, aggiungendo che tutto ciò che era successo non era che il parto di un “conciliabolo di 4 o 5 sessantenni”. La sentenza, riformando completamente la decisione di primo grado, si limitava per il resto a ridurre le condanne che erano state inflitte nel luglio del 1978 ad alcuni imputati minori per il reato di detenzione e porto di armi da fuoco. Dalla magistratura romana, definita non a torto come il “porto delle nebbie”, non c’era da aspettarsi di più.