“Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe chiedere che quest’atto di lealtà, educarsi al silenzio. Ricorda l’elogio di Mallarmé alla pagina bianca? [...] Se non si può avere tutto, il nulla è la vera perfezione.” Così decreta l’epilogo Federico Fellini nella celebre pellicola 8 e ½ del 1963.
L’istinto a non fotografare le cose per come sono ma la loro memoria e abdicare al vuoto che essa crea nello spazio dell’immagine è la volontà che si cela nello sguardo dell’artista Giulia Cacciuttolo in mostra con la personale A Safe View From a Tamed World alla Galleria Ramo di Como.
Prendiamo una scena dal film L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij del 1962, quella rappresentante l’abbraccio tra la giovane donna e l’uomo, sospesi nell’infinito perturbante dello spazio della natura - ora, svuotata dai protagonisti umani, come sfondo alla storia non possiamo che immaginare il vuoto.
Le atmosfere “tarkovskiane” profonde, abissali, prossime all’Apocalisse, ma di quieta grazia, raffinatezza e struggente apparente pacatezza le possiamo ritrovare nelle opere della Cacciuttolo che servendosi del mezzo fotografico condensa nell’immagine l’imperfezione immaginifica della memoria di un determinato luogo. In questo caso ci troviamo nella natura limitrofa del lago di Como - come un incipit manzoniano - l’artista è pronta a farci naufragare nel fumo evanescente di una visione.
Secondo un grande testimone del Novecento come Primo Levi la memoria è “meravigliosa ma fallace” ovvero soggettiva, personale, individuale, intima - così preziosa da non potere essere mischiata o confusa con quella degli altri. Potremmo definire in questo senso la memoria come una riflessione/confessione che abbiamo con la storia, con il fenomenico, con l’accadimento - una sorta di dialogo terapeutico.
La scelta dell’artista nell’utilizzare organza di seta naturale rende prezioso il passaggio dell’immagine fotografica, un punto di partenza, a pura essenza, distillata - in uno spazio fisico, reale. L’immagine in bianco e nero ora assume forme e movenze dinanzi a noi, le linee e le pieghe sinuose, scultoree, come increspature nello spazio, si sospendono e sospendono la visione, il giudizio. A soppesare, quasi interrompere questo silenzioso movimento interviene un altro materiale: il rame. Anch’esso oggetto prezioso e dalla storia antica, riflettente e potente, al limite del magico - appare dietro all’immagine scultorea quasi a indicarci un dettaglio, un frammento, un particolare specifico che ci accompagni in questo viaggio narrativo leggiadro nella memoria fumosa dei luoghi.
L’operazione del rame innescata dall’artista funziona alla stregua dell’indicazione che un grande intellettuale e critico come Arthur Danto affermava e cioè quella di non osservare mai distrattamente un’opera, nella fattispecie nella nostra memoria.
Danto prese come esempio il dipinto La caduta di Icaro di Pieter Bruegel il Vecchio del 1558 (circa) raffigurante apparentemente un ordinario momento di lavoro nei campi. Solo osservando più a fondo scorgiamo fuori centro della scena due gambe sottili librarsi in aria avvolte in una chiazza di schiuma marina.
La caduta di Icaro diviene così nella ricerca della Cacciuttolo la caduta dello sguardo, da quello squarcio ramato abbiamo una vista sicura: la lastra di rame è lì che ci indica un punto di vista, come una cartina tornasole, rileva un frammento di visione, come una fessura, uno spiraglio di luce, ci introduce alla disfatta della totalità a favore di una raccolta unità spaziale; e in quel piccolo segmento aureo troviamo l’astrazione della natura, la sua riconversione in materiale segnico, in una moltitudine di forme indipendenti; all’interno dello spazio ramato i fili di erba, e i granelli di terra, le rocce, si moltiplicano in tanti graffi, tratti, quasi grafici, quasi incisi. È un lavoro a favore del segno anziché della forma immagine.
Osservando a lungo i paesaggi naturali comaschi in bianco e nero impressi dalla Cacciuttolo, tra Romanticismo e Simbolismo, torna alla memoria l’acquaforte I tre alberi di Rembrandt Harmenszoon van Rijn, datata 1643, un capolavoro assoluto dell’arte seicentesca che anticipa la grande stagione del paesaggismo olandese, intriso tanto di realtà quanto di un oscuro e velato simbolismo.
Per rassomiglianza visiva e per continuare un discorso tra immagine fotografica e pittura, potremmo citare anche Peter Henry Emerson che agli albori sul dibattito inerente il neonato mezzo fotografico, sul finire dell’Ottocento, fu autore del saggio Naturalistic Photography for Student of Art (1889) - testo definito come “una bomba lanciata in una sala da tè” - dove si schierò apertamente contro la precisione meccanica con cui l’obiettivo di certi fotografi registrava il dato reale.
Secondo P.H. Emerson, infatti, soltanto la sfocatura, e l’imprecisione potevano dare alla fotografia un “naturalismo” che funzionasse come l’occhio umano - secondo lui la fotografia non deve mostrare necessariamente la verità, ma ciò che l’uomo vede.
È doveroso inoltre ricordare, come è ben spiegato nel libro di Federica Muzzarelli Le origini contemporanee della fotografia che nonostante la volontà di Emerson di relegare il mezzo fotografico alla ricerca scientifica - i suoi lavori possono accostarsi chiaramente alla pittura impressionista. P.H. Emerson è da annoverare quindi tra i “pittorialisti” - coloro i quali consciamente o inconsciamente si ispirarono allo stile ed al linguaggio dell’arte del tempo per forzare e giustificare in qualche modo le caratteristiche originali della tecnica fotografica.
La ricerca della Cacciuttolo appare così sospesa tra icasticità e astrazione, un’immagine che sa essere allo stesso tempo fotografica, pittorica e scultorea. Se inizialmente l’artista utilizza il mezzo fotografico vediamo poi che l’immagine subisce una metamorfosi alchemica, da pura superficie a scultura/installazione in rame e organza di seta, un tipo di tessuto che condivide un profondo legame con il territorio comasco. Le pieghe e la trasparenza del tessuto non fanno che accentuare la volontà di disperdere l’immagine iniziale, di perderla, sopirla, renderla lontana.
Non a caso, una delle opere più controverse di Marcel Duchamp, Il Grande Vetro - La mariée mise à nu par ses célibataires, même (1915-23) è costituta da lastre di vetro lasciate al fato (si pensi al deposito di polvere e agli scatti postumi di Man Ray Allevamento di polvere voluti dallo stesso Duchamp o alle incrinature lasciate tali in seguito alla rottura provocata dal ritorno di una mostra nel 1926) - la trasparenza del vetro, come la superficie riflettente dello specchio accoglie tutto ciò che sta intorno all’immagine rendendola così inafferrabile, incompiuta, mai definitiva o uguale a se stessa.
Lo stesso accade nelle immagini scultoree della Cacciuttolo, trasparenti e riflettenti, avvolte nella nebbia - le increspature, le pieghe del tessuto mutano di volta in volta, vibrano leggere; la superficie antica del rame ci induce a perderci nella voracità isolata e frammentata del segno e di come voglia incontrare e abbandonare in maniera autonoma e traversale la pittura.
It is the uncertainty that charms one. A mist makes things wonderful.
(Oscar Wilde, Il ritratto di Dorian Gray, 1891)