Prog, rock, hard e fusion nel ricco album di debutto del poliedrico bassista. Un'opera corale con ospiti del calibro di Fabio Zuffanti, Luca Scherani, Stefano Agnini, Alessandro Corvaglia e molti altri.
Order and disOrder è il tuo debutto da solista, nato all’indomani di varie collaborazioni con giganti del nostro prog. Cosa ti ha spinto a lavorare a un progetto in proprio?
In realtà la “necessità” di lavorare ad un mio progetto c’era già prima delle collaborazioni menzionate. In passato ho suonato anche in gruppi nei quali lavoravo a musica composta da me. Diciamo che, ad un certo punto, ho avuto l’opportunità per dedicarmi appieno alla scrittura del materiale dal quale è stato composto il mio primo album.
Fabio Zuffanti, Luca Scherani, Stefano Agnini e gli Höstsonaten sono nomi amatissimi dai cultori del prog italiano e straniero. Cosa hai appreso dalle collaborazioni con questi musicisti, protagonisti peraltro della scena genovese?
Sono obiettivamente dei “giganti” dell’attuale prog italiano; da loro non si può che imparare. In effetti grazie a loro ho conosciuto il mondo complesso del progressive rock, anche perché, per estrazione, provengo dal mondo della fusion e del jazz-rock. Ho appreso la complessità dei linguaggi propri del prog, anche perché ciascuno degli artisti citati ha un “suo” modo di intendere il genere musicale. Non è un caso che vengano da Genova, una città a mio avviso stimolante. Da quello che vedo ed ascolto, in altre realtà – per esempio quella da cui provengo – si è ancora fermi a schemi “rigidi” legati al progressive rock “old fashioned” o al prog metal. Mentre in alcuni luoghi il progressive rock è associato soltanto a queste due forme, a Genova ha assunto e assume ancora caratteristiche diverse, come emerge dai lavori di Zuffanti e Agnini.
Order and disOrder è un titolo allettante.
Il titolo si presta a diverse chiavi di lettura. Già nel modo in cui è graficizzato mette in evidenza il concetto di “ordine” e disordine”, temi cari a diverse scuole filosofiche e alle teorie di Wilhelm Reich (l’album concettualmente si rifà questi ultimi). Inoltre, si mette in evidenza come questi due elementi siano profondamente legati. Infatti, “l’ordine” e il “disordine” possono essere anche gli elementi che caratterizzano la composizione dell’album: elementi diversissimi fra loro – “caotici” – che generano un qualcosa di armonico, omogeneo, e viceversa.
Definire il tuo nuovo disco come un album prog potrebbe essere riduttivo, vista la mole di influenze, dal metal alla fusion. Hai immaginato chi potrebbe essere il tuo ascoltatore ideale?
In realtà non me lo sono chiesto… ho composto, suonato e fatto tutto il resto esponendo me stesso in musica. In altre parole, non ho ragionato “cercando di accontentare l’ascoltatore del prog “ortodosso” piuttosto che quello del jazz-rock”. Se il risultato è un “prodotto” apprezzato da tutti… beh… vuol dire che ho centrato l’obbiettivo.
Non mancano gli ospiti, che rendono l’album un lavoro corale. Oltre i già citati Zuffanti, Scherani e Agnini, poi Alessandro Corvaglia (Delirium, La Maschera di Cera), Jason Rubenstein, Domenico Cataldo, Samuele Dotti, Maurizio Berti e Valerio Lucantoni (The Wormhole Experience). Come hai coordinato la lavorazione?
È stato un po’ come essere un regista che ha davanti un cast stellare da dirigere… A tutti i musicisti che hanno partecipato (eccetto Domenico Cataldo, che ha collaborato con me agli arrangiamenti) ho fornito solo le linee guida da osservare. Poi, essendo tutti loro dei grandi musicisti, hanno avuto carta bianca nella realizzazione di ciascuna parte: hanno fatto “loro” i pezzi, ci si sono “immersi” e hanno dato vita alle esecuzioni presenti nell’album. Al di là di ogni considerazione personale di ciascun ascoltatore, i musicisti hanno dato tutto, hanno fatto un lavoro incredibile. E, per questo, sarò loro grato sempre.
Mentre nel progressive sono i tastieristi, a volte anche i chitarristi, a primeggiare o a agire da registi, il basso spesso è in secondo piano, fatta eccezione per figure come, ad esempio, Chris Squire, Geddy Lee o il nostro Patrick Djivas. Quali sono i tuoi bassisti di riferimento?
Do una risposta “bizzarra”: la maggior parte dei miei musicisti di riferimento non sono bassisti… in maniera inconsapevole o conscia propongo un vocabolario musicale preso direttamente dai sassofonisti, dai tastieristi, dai chitarristi, dai musicisti che suonano strumenti ad arco. E, a dire il vero, diversi mi rimproverano di essere “poco bassista” in questo…
Detto ciò, esistono comunque bassisti che sono stati e sono un riferimento per me. Ne sono davvero tanti, ma mi limito a citarne tre perché rappresentano, il “passato, il presente e il futuro” delle quattro (ma anche cinque e sei) corde: Jaco Pastorius (che per me sta al basso come Freud sta alla psicoanalisi); Brian Bromberg (un altro “pioniere” dello strumento, purtroppo non apprezzato fino in fondo) e Thundercat (un grande musicista che non conosce confini di genere e destinato a diventare un punto inamovibile del panorama “bassistico”). PS: parliamo anche di Made in Italy… trovo formidabili i “nostri” Maurizio Rolli, Giorgio Terenziani, Federico Malaman e Alex Lofoco, solo per citarne qualcuno.
In senso più ampio, al di là del tuo strumento, quali sono i musicisti o i gruppi grazie ai quali hai cominciato a fare musica?
Come tanti della mia generazione mi sono avvicinato alla musica ascoltando pop e rock. Non ho mai avuto delle preferenze, neanche in termini di genere: ascoltavo indistintamente dischi dei Genesis, David Bowie, Level 42, Iron Maiden, Pino Daniele, ecc. Quando, poi, ho cominciato a studiare il basso elettrico, mi sono avvicinato ad altri generi, in particolare il jazz (in tutti i suoi linguaggi), la classica e il progressive. In questo periodo ho apprezzato i lavori di artisti come Frank Zappa (innanzitutto), Miles Davis, Pat Metheny e tanti artisti e gruppi – del passato e più recenti - che gravitano nell’orbita prog. Ecco, ritengo che tutte queste esperienze siano alla base per lo sviluppo di quella che è la mia musica.