La scrittura come tentativo di uscire dal dolore e dagli stenti. Si può sintetizzare così la parabola esistenziale di Edgar Allan Poe. Era il figlio di un’attrice inglese, emigrata negli Stati Uniti, morta di tisi e di povertà e di David Poe che abbandonò il tetto coniugale, in circostanze misteriose quando Edgar aveva appena tre anni, età in cui Edgar rimase orfano di entrambi i genitori. Grazie allo spirito delle buone azioni, secondo l’etica protestante, Edgar Poe viene adottato all’età di tre anni, dalla famiglia di John Allan, come altri bambini indigenti; anche la sorella Rosalie, venne adottata dai Mc Kenzie, amici degli Allan.
Poe scopre il suo genio precocemente e vive in bilico tra la grandezza della sua arte e la depressione del suo vivere, perseguitato dai rovesci finanziari e dagli abbandoni affettivi. Tuttavia si riscatta col dono di un’esaltazione letteraria fulminante. Genio anticipatore di un modo di intendere l’estetica, la critica d’arte e i principi che governano la bellezza nella poesia e nella letteratura, con i suoi canoni per riconoscerla, tutti i suoi saggi dei Principi poetici, diventeranno un riferimento per tanti scrittori e soprattutto poeti della fine del XX secolo. Fu uomo che soffrì indicibilmente per tutto l’arco della sua breve vita; morì a quarant’anni.
Incontriamo Teresa Campi, che nel suo saggio biografico La vera storia di Edgar Allan Poe, ci fa il dono preziosissimo di un Poe spogliato dell’icona dello scrittore maledetto e rivestito di un’autentica e disarmante anima romantica. Campi è tra l’altro autrice di una biografia della poetessa francese Rene Vivien, di cui ha tradotto le poesie, in una introvabile edizione di Savelli e ha scritto un romanzo letterario, basato sugli ultimi studi biografici come D’amore e morte, Byron, Shelley e Keats a Roma.
Quale è stata la genesi di questo studio biografico su Poe che ci riconsegna una vicenda umana dai risvolti profondamente drammatici?
È stato un lavoro appassionato volevo sfatare l’idea che negli anni si era consolidata su Poe, quella di un pazzo necrofilo e perverso. È vero, lo scrittore ha sempre vissuto un dissidio interiore, era certamente tormentato e sfortunato per molti aspetti, ma era dotato di un’intelligenza analitica profonda, di una curiosità onnivora e di un talento letterario assolutamente unico.
Quella di Poe si può davvero definire un’epopea, certamente quella di un artista che non volle mai scendere a compromessi, malgrado l’indigenza e la salute malferma?
Poe non riuscì quasi mai a mantenersi con la sua scrittura. Venne sfruttato nei giornali cui collaborava in qualità di critico letterario, la sua penna riusciva a incidere come uno stiletto, facendo di lui spesso un elemento problematico agli occhi di direttori ed editori. Fu sottopagato e illuso per gran parte della sua vita. Lo scrittore aveva il cruccio di non riuscire a mantenere la giovanissima moglie e cugina, Virginia Clemm, che, come l’amatissima madre, si ammalerà di tisi.
Poe, infatti, si indebita pur di riuscire a fare avere alla moglie adolescente un pianoforte, sul quale suonare e poter allietare le fredde e buie sere d’inverno. Erano la fame e il freddo a sospingere Poe a correre alla ricerca di riviste letterarie dove poter svendere il proprio talento a mercenari della carta stampata senza scrupoli.
Sì, quella fame e quel freddo che non voleva far patire all’amata Virginia. Col suo cappotto lungo e liso e gli occhi grandi e tristi Poe metteva la sua arte al di sopra di tutto.
Tuttavia sarà il vizio del bere, ereditato dal padre, a rendere vani tutti i buoni propositi. Lo scrittore in tutta la vita non guadagnerà più di 300 dollari, si farà notare poco prima della fine per la sua celebre poesia Il Corvo, donerà alle riviste molti estratti dei suoi più celebri romanzi, per riuscire a sbarcare il lunario.
La sofferenza, il mancato riconoscimento, le preoccupazioni per il quotidiano sopravvivere lo sospingono verso un baratro fatto di alcol e compagnie equivoche. Georges Walter da cui ho tratto molte delle informazioni contenute nel libro evidenzia l’aura di mistero che ancora oggi avvolge la morte dello scrittore. Non si comprende fino in fondo la decisione di Poe di lasciare Boston per New York fermandosi stranamente a Baltimora, se non quello di essersi perduto ad una stazione ferroviaria. In quali condizioni si trovava? In un alberghetto non lontano dove lo trovarono in stato confusionale. Secondo una ricostruzione a posteriori, probabilmente ubriaco, Poe si sarebbe perso tra le strade di Baltimora. Sarebbe quindi finito in un quartiere malfamato e lì picchiato e ridotto in fin di vita. Portato, quindi, in ospedale in preda al delirio, morì dopo tre giorni di agonia. Nessun giudice decise di aprire un’inchiesta sul caso e il fascicolo sulla fine di Poe fu archiviato. Ho voluto raccontare l’uomo prima che l’artista, il bagaglio di disperazione che non lo aveva mai abbandonato. Un’esistenza costellata da lutti: dalla morte della madre alla quale assiste con la sorella più piccola, fino alla morte della giovane consorte che cerca di riparare dal freddo con quel cappotto dal quale non si separa mai.
Edgar Allan Poe era un alcolista, non c’è dubbio, ma era anche un uomo che soffriva di terribili mal di testa che cercava di sopportare con qualche bicchiere di troppo. Teresa Campi ha superato il mito dell’autore della Rovina di casa Usher, per mettersi accanto all’uomo, in ascolto, vivendo con lui gli anni infelici dell’infanzia negata, quelli poi dorati dell’adozione. Il calvario di un artista che non riesce a campare con i suoi scritti, che attraggono e respingono al tempo stesso, fino alla fine disperata in un vicolo di una Baltimora fredda e malfamata.