“Mi porta i suoi pianoforti, li accorda, li manipola. E sono molto contento di conoscerlo”. Parla Maurizio Pollini.
“Si può dire che Fabbrini è un accordatore? Ho qualche dubbio perché, per esempio, lui accorda un pianoforte molto bene. Il pianoforte viene messo in una cassa, vola sugli oceani, arriva negli Stati Uniti, arriva in Giappone, e si pensa che, con un viaggio così lungo, sarà completamente scordato, no?
Curiosissimamente, questo pianoforte è degno di fare un concerto”. Avvincendo il pubblico con il ritratto di una figura, fino a ora definita accordatore, e alla quale adesso non si riesce nemmeno a trovare un nome, Pollini svela un personaggio di originalità rara: Angelo Fabbrini.
In settembre, all’indomani del concerto al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, accolto da applausi di entusiasmo e gratitudine, il maestro ha rinunciato a fiondarsi nella sua Milano, nella sua musica, ed è salito su un altro palcoscenico, quello della Pergola, per parlare di Fabbrini, con Fabbrini. E dell’indefinibile.
“Quindi non lo nomino un accordatore. Non so, bisogna trovare un altro termine. Intonatore dà un po’ più l’idea del suo lavoro. Io, per esempio, lo tormento cento volte su una zona del pianoforte che dovrebbe cantare e che non canta mai sufficientemente per le nostre impossibili esigenze e Fabbrini è bravissimo. Un intonatore normale prende quelle poche note e ci lavora invece Fabbrini parte dal centro della tastiera per arrivare a queste note cantabili non di colpo. C’è qualcosa di misterioso, la sensibilità della persona”.
Prosegue Pollini, gli ascoltatori presi dal pathos: “Quindi non lo voglio chiamare un intonatore. Direi che è un ricercatore di suoni. Lo fa sempre, è la sua vita e non è mai soddisfatto. Noi pianisti indubbiamente lo sfruttiamo, sarà molto bello che questo nostro rapporto continui e si sviluppi. E non saremo mai contenti, ma andremo avanti”.
Fabbrini ascolta Pollini e si vede che è riconoscente. L’impressione è che non si glori del successo né si strugga nella modestia e che la sua attenzione sia rivolta solo a cercare i suoni in piena libertà, senza rispondere a dettami di alcun genere, se non a un imperioso desiderio interiore.
Stefano Passigli, presidente degli Amici della Musica di Firenze, ha organizzato l’incontro, siede fra i due e ha molte domande da rivolgere a entrambi, godendosi tanta intelligenza.
Ecco il resoconto della conversazione.
Il maestro Pollini ha già detto tre cose importantissime. Ha usato la parola manipolare mettendo in risalto l’aspetto manuale dell’accordatura. Poi ha parlato dei suoi pianoforti al plurale perché Fabbrini, che ha intrapreso la sua carriera per ritrovare un suono che ha udito una volta camminando, non è solo un appassionato alla ricerca del suono perduto, come dice il sottotitolo del suo libro La Valigetta dell’accordatore, ma un grande imprenditore. Nella ricerca del Santo Graal, la ricerca di qualche cosa che forse non troverà mai o non si può trovare, ha acquistato più di duecento pianoforti gran coda, la Steinway gli ha costruito il duecentesimo, vendendoli a pianisti di tutto il mondo. Come è progressivamente diventato Angelo Fabbrini?
Fabbrini: Innanzitutto, grazie al maestro Pollini e al senatore Passigli per avermi qui. In parte mi ritengo giustificato a esserci perché dopo settant’anni di questo lavoro ho ancora tanta volontà di continuare la ricerca del suono perduto che è stata sempre il mio obiettivo. Anche ieri sera, nella meravigliosa esecuzione del maestro Pollini della sonata Hammerklavier di Beethoven, una delle mie debolezze, ho sentito che mancavano alcune sonorità allo strumento, e che il maestro mi suggeriva di trovarle. È il motivo per cui mi sono sempre sentito un allievo, un cattivo allievo che però ha provato a fare qualcosa in più in ogni occasione, mi sono sempre sentito sotto esame e, in qualche modo, sono sopravvissuto.
Non se la cava con così poco, ci racconti di più.
Fabbrini: Per quanto riguarda il numero dei miei pianoforti… Intanto alcuni li ho venduti a malincuore perché molte volte un imprenditore è anche costretto a vendere gli strumenti, poi quando ha la possibilità cerca di ricomprarseli, come ho fatto io. Adesso ce ne ho uno firmato da Rubinstein che ho comperato per restituirgli la vita: è ridotto male per gli anni e anche per come è stato tenuto. Mi piace ritrovare i suoni di un maestro come Rubinstein, chissà se si riesce ancora a sentire qualcosa che lui ha suonato. Tutte immaginazioni… senza le quali, però, non farei niente. Ho comperato molti pianoforti, cercando di sbagliare il meno possibile, perché secondo me ogni strumento ha una sua anima anche se purtroppo si va verso una direzione in cui tutto deve essere pianificato invece di lasciare spazio alla fantasia o persino alla bizzarria.
Oggi ci sono strumenti che assomigliano più a dei piani digitali che non a quei pianoforti che danno delle emozioni. Non c’è più la disuguaglianza. Allora io sono un po’ Don Chisciotte, molto scomodo anche per i costruttori, ma sino a quando avrò l’appoggio di grandi maestri come Pollini andrò avanti, cercando di essere utile. Non ho perso mai un concerto, specie di Pollini, perché è un insegnamento, ogni volta scopro qualche cosa, il brano non è mai uguale. Sembra stampato in quel momento, uscito dall’editore in quel momento. Sono fortunato perché ho anche una convenienza ma, sinceramente, rinuncerei a questa convenienza per sentire i concerti del maestro Pollini.
C’è gente che fa il lavoro e non sente i concerti: io una volta ho minacciato di portare via la meccanica del pianoforte se non mi davano i biglietti. Non era uno scherzo. Si sono affrettati a darmeli.
Maurizio, sul tema della differenza che c’è fra un piano e un altro e anche nella capacità che ha l’accordatore di modificare il suono, tu puoi raccontare moltissime cose, immagino tu sia un cliente molto severo. I pianoforti stanno cambiando? Qualunque cosa tu ci dica ci arricchirà molto.
Pollini: Io sono uno dei torturatori di Angelo Fabbrini perché, per ragioni ovvie, sono estremamente esigente, non sono mai contento, però voglio fare una parentesi e ricordare che Fabbrini ha lavorato per anni anni e anni con Arturo Benedetti Michelangeli: una relazione molto importante che non può essere dimenticata.
In linea generale non si può dire che i pianoforti Steinway siano cambiati radicalmente. Per fortuna, no. Però c’è sempre un grande rischio perché il mondo va verso la standardizzazione, il mondo va verso la stupidità, dobbiamo rendercene conto e purtroppo questo ci toglie delle possibilità molto interessanti. La qualità del pianoforte richiede nella fabbrica enorme pazienza, un lavoro indefesso, richiede che le persone siano veramente appassionate ai misteri dei suoni e che cerchino di fare tutto il possibile di conservare uno stile e una qualità dello strumento. Speriamo, facciamo tutte le possibili corna, che duri.
Fabbrini ha lavorato soprattutto su Steinway. Vede una differenza fondamentale oggi, nella tecnica o nei risultati fra una marca di pianoforti e un’altra?
Fabbrini: “Non mi vorrei dilungare su questo argomento perché è molto delicato, però posso dire che per costruire un pianoforte manualmente ci volevano X ore e oggi ce ne vogliono di meno perché c’è il computer. Per l’amore del cielo quello sarà preciso, ma l’opera dell’uomo è diversa, come la mentalità di ciascuno. Nella diversità uno trova l’interesse, per me è un incubo la pianificazione: io voglio anche le cose brutte. Mi piacciono anche quelle.
Certo che ho lavorato su pianoforti non Steinway. Sono di Pesaro e al Conservatorio di Pesaro c’erano solo Bechstein, poi io ebbi la concessione di Steinway e con Marcello Abbado che era il direttore togliemmo tutti i Bechstein. Da alcuni anni questa casa ha ripreso a costruire e tra l’altro uno di questi strumenti me l’ha scelto Barenboim che è venuto con me nella fabbrica. La ripresa di Bechstein per me è stata una grande gioia perché era il pianoforte che amava mio padre e sul quale ho sentito i più bei concerti da ragazzino.
Maurizio anche te sei dell’opinione che ci siano alternative agli Steinway cioè che Bechstein, Bosendorf possano essere di qualità comparabile?
Pollini: Per rispondere bisogna andare indietro. Una volta c’era Steinway, c’era Bechstein e i pianisti notevoli suonavano soprattutto su Bechstein, in definitiva era forse la casa più importante. Più melodico, più armonioso dello Steinway che era più brillante. Poi bisogna dire che il disastro della Seconda guerra mondiale e della Germania ha fatto molto male alla Bechstein. C’è ora una sua ripresa e auguro col cuore che ritorni alla grandezza dei tempi passati perché aveva una sonorità speciale, molto adatta ai classici, meno brillante dello Steinway però forse più affascinante per certi versi. Speriamo.
Maurizio, vorrei chiederti se si può raggiungere un livello di perfezione nell’esecuzione che può essere ripetuto. Se tu ti ritieni soddisfatto di come suoni certi pezzi e tendi a ripetere quell’esecuzione oppure se la ricerca prosegue sul piano interpretativo e del suono. Un pianista raggiunge un livello in cui è soddisfatto di sé? Sono sicuro che la tua risposta è no!
Pollini: Uno non è mai soddisfatto. È una ricerca continua e una ricerca sempre diversa perché ogni esecuzione nasce da cose impercettibili magari dal contatto con un pubblico particolare o dallo stato d’animo di quel momento. È tutto molto libero in realtà, si raggiungono delle possibilità magari non contemplate. Abbiamo qualche volta delle belle sorprese, qualche volta delle cattive sorprese perché naturalmente se il pubblico rumoreggia o non ha nessuna sensibilità per la musica viene voglia di prendere e andarsene.
Ti è mai capitato di doverlo fare?
Pollini: No, non si può andare. Si può solo soffrire.
Una pausa e il maestro conclude: “Ma per un pianista le cose positive sono molto superiori”.