Primo. Alcuni anni fa, sul manifesto pubblicitario per una campagna di raccolta fondi da devolversi a bambini peruviani, c’era la foto di un bambino di cinque o sei anni, sopra il quale si accampava la scritta: Anche lui è un uomo.
Secondo. Durante la presentazione di un romanzo di uno scrittore congolese, il relatore italiano spiega al pubblico il contesto socio-culturale in cui è nato il libro. A un certo punto della presentazione, parlando della cultura e delle università africane, il relatore, con l’autore congolese al fianco, si profonde in questa precisazione: “…Perché anche in Africa ci sono le università, eh?!”, ammiccando al pubblico.
Terzo. Alla cassa di un supermercato, una signora di mezza età dice a un’altra: “Non c’è più la cassiera di prima, c’è questo nuovo… non è italiano… sembra…”. E l’altra le suggerisce sottovoce: “È rumeno”. La prima, allora, schermendosi il viso come per scusarsi, si premura di dire: “Oh sì, sì, certo… ma è un bravo ragazzo”.
Che cosa accomuna questi tre episodi, al di là dei toni sostenuti, scherzosi o imbarazzati di ogni circostanza? L’ipocrisia.
Lo slogan della campagna umanitaria, la precisazione del relatore, la considerazione della signora al supermercato sono stati ipocriti.
Che cos’è l’ipocrisia?
“Ipocrita”, dal greco ypokritès, composto di ypo, sotto, e kritès, da kritein, spiegare, parlare, giudicare. Così chiamarono i greci un attore, che con la voce e con i gesti imitava un altro personaggio. Oggi, più genericamente, per ipocrita si intende chi parla o agisce fingendo virtù, buone qualità, buoni sentimenti che non ha, ostentando falsa devozione o amicizia, o dissimulando le proprie qualità negative, i propri sentimenti di avversione e di malanimo, sia abitualmente per carattere, sia in particolari circostanze, e sempre al fine di ingannare altri, o di guadagnarsene il favore.
Ora, riguardo agli episodi appena riportati, chi sono gli ipocriti? Il copywriter? Il relatore? Le due signore? Sì, ma si potrebbe meglio dire che la vera ipocrita è un’intera cultura. È tutta la società, la cultura intera a essere ipocrita; una cultura che parla attraverso le bocche dei suoi singoli componenti, come il ventriloquio fa con i propri bambocci.
Questo per mostrare che il campo di battaglia di istinti diversi, di modelli percettivi in contrasto o di diverse ingiunzioni comportamentali può essere la coscienza di un singolo individuo, come nel caso del pesce, ma può esserlo anche un’intera società e la compagine culturale che la permea.
Ogni società è un organismo collettivo e, in quanto organismo, ha dei sentimenti, una morale, uno spirito. E allora, esaminando la testimonianza dei casi sopra riportati sulla falsariga della definizione di ipocrisia, quali sono le virtù e le buone qualità simulate dalla nostra società? E quali invece i suoi sentimenti dissimulati? Qual è il contrasto tra l’ideale e la realtà? In che cosa consiste nello specifico il punto di tensione massima, e quindi di rottura, tra le cose come dovrebbero essere e le cose come sono? Qual è la crisi (krisis, da krino, separo, decido, giudico), quale il dissidio tra valori imposti e realtà effettiva dell’umano ad aver ingenerato l’ipocrisia (ypo-kritein)? Eloquente la medesima radice etimologica che cuce insieme la soglia del consentito all’inabissarsi della verità: ciò che si crede, ciò che si giudica, ciò che si pensa veramente è costretto a stare al di sotto del confine del lecito (a dirsi, a farsi, finanche a pensarsi), al di sotto della spaccatura causata dal conflitto tra reale e ideale.
Nei casi sopra riportati, aneddoti esemplari di ipocrisia culturale, le virtù ostentate sono l’umanitarismo, la tolleranza, il principio di uguaglianza che elargisce il bene “umanità” ora seriosamente - “Anche lui è un uomo”, ora sarcasticamente - “Anche in Africa ci sono le università”. Ma queste virtù sono soltanto esteriori, sono come la maschera di quell’attore greco. Per fortuna, è facile guardare al di sotto di questa maschera, perché ogni maschera ha almeno un dettaglio che la tradisce.
Nel primo e nel secondo caso, il dettaglio traditore è quell’“anche”. A essere precisi, il vero traditore è la presenza stessa di un’intera frase di cui non ci sarebbe stato bisogno a svelarne la sua malafede. Oh sì, sì, certo… ma è un bravo ragazzo. Perché precisarlo? Forse qualcuno lo stava mettendo in dubbio? Come se qualcuno introducendoci a qualcun’altro dicesse di noi, Ti presento Luigi, è un mio caro amico e… ah, intendiamoci, non è un farabutto… Dio, che frustrante modo di offendere!
Ora cercherò di fare le pulci alla tana infestata dell’ipocrisia, cercando di mettere alle strette caso per caso con la mortifera inesorabilità dell’analisi, disciplina in cui mio malgrado sono maestra.
È rumeno. Oh sì, sì, certo… ma è un bravo ragazzo. Nell’economia dell’offesa, il dettaglio che tradisce la maschera ipocrita è una piccola particella, è quel “ma”. Un “ma”, e che sarà mai? Soltanto una piccola congiunzione avversativa. Già, avversativa. L’analisi grammaticale una buona volta torna utile. Avversativa nei confronti di chi? O di che cosa? Come mai la signora si premura di precisare che il nuovo cassiere è un bravo ragazzo? Con la sua precisazione introdotta da una congiunzione avversativa, chi o che cosa sta avversando? Qualcuno ha forse insinuato che il nuovo cassiere non sia adeguato al suo ruolo, o che sia un poco di buono? No, nessuno. Eppure, con i loro “anche” e i loro “ma”, sembra che gli attori dei tre episodi sopra riportati stiano rispondendo a un interlocutore invisibile, pare che stiano ribattendo a un’obiezione muta, ma costantemente presente.
Anche in Africa ci sono università. Che cosa significa sottolineare che anche in Africa ci sono scuole e università? Il relatore sta ribadendo, negandola soltanto in forma apparente, la superiorità dell’Europa e, più in generale, della cultura occidentale sull’Africa. Proprio evidenziando e ribadendo una condizione di parità, il relatore sta screditando l’oggetto in questione.
Il ma della signora alla cassa ricalca i medesimi binari logici: introduce una frase che contiene un giudizio positivo, però controbatte a un’obiezione fantasma. Allo stesso modo, il relatore, immaginando che qualcuno tra il pubblico si sarebbe potuto chiedere, Ma perché, in Africa ci sono università?, ha inglobato la risposta all’invisibile interlocutore nel suo discorso. E rispondendo, cioè prendendo in considerazione tale obiezione-fantasma, la convalida, annullando il giudizio positivo contenuto nella frase stessa, o quantomeno rendendolo ambiguo. Se a livello linguistico la frase dichiara una parità (Anche in Africa ci sono le università), l’esistenza della frase, la presenza stessa della frase ne denuncia invece l’inferiorità.
Anche lui è un uomo. Sarebbe forse necessario statuire così solennemente il diritto di umanità di qualcuno, se la sua umanità fosse reale, effettiva? Nel momento stesso in cui esiste un diritto all’umanità, vuol dire che l’umanità non esiste. Tutto ciò per cui si istituisce un diritto, tutto ciò che abbisogna di un diritto, non esiste. Sia chiaro: finché una condizione viene pretesa attraverso l’istituzione dei diritti, dei doveri, degli obblighi, degli intricati reticoli della convenienza morale, delle punizioni e delle intimidazioni sociali, significa che questa condizione di per sé non esiste e che pertanto avrebbe bisogno di essere creata. Non pretesa. Creata. Questa sarebbe la vera civiltà. La civiltà cui siamo giunti finora invece non è che una (vana) pretesa di umanità. Questo signore scrive molto saggiamente:
La civiltà deve far di tutto per porre limiti alle pulsioni aggressive dell'uomo, […] di qui le restrizioni della vita sessuale, di qui, anche, il comandamento ideale di amare il prossimo come sé stessi, che ha la sua effettiva giustificazione nel fatto che nulla contrasta in modo altrettanto stridente con la natura umana originaria. Nonostante tutto, questo sforzo della civiltà non ha finora ottenuto gran che.
Se la natura umana fosse davvero incline a riconoscere umanità e dignità agli altri, non sarebbe stato necessario istituire né assetti socio-politici né discorsi retorici fondati sui valori dell’uguaglianza, che ne sancissero il diritto. C’è stato bisogno di istituire, di inventare una politica dell’umanità proprio perché in linea di massima gli esseri umani sono restii a riconoscersela vicendevolmente. Ne è la prova la cultura occidentale stessa, la quale continua a detenere il monopolio del diritto all’umanità, arrogandosi la pretesa di elargirla a destra e a manca, ma soltanto per trattare i suoi “umani” alla stregua di sottoposti, di uomini-oggetto graziati dalla sua magnanimità.
Tuttavia, non è con il diritto che si crea una condizione, con il diritto si crea soltanto l’obbligo a una condizione. È questo il più grande impasse delle civiltà idealistiche: anziché ammettere che l’uomo di per sé non è incline a riconoscere umanità agli altri rappresentanti della sua specie, e assumere questo stato di cose - senza alcun giudizio, né pregiudizio - come punto di partenza per lavorare sulla sua natura con una vera educazione e una vera cultura, vagheggia di un Uomo idealisticamente benevolo, esigendo che gli uni siano benevoli con gli altri, e punendo coloro che non si attengono a quest’etica, facendo ricadere la colpa dell’inadeguatezza morale sui singoli e non sulla complessione umana tout court. Che poi, parlare di colpa della complessione umana è, ancora una volta, una lettura esopizzata della natura: l’aggressività intraspecifica, l’intolleranza, il sospetto non sono colpe dei singoli individui e nemmeno della natura umana. Non sono colpe punto. Sono qualità della natura umana sviluppatesi nel corso della sua filogenesi, per continui aggiustamenti e adattamenti in relazione al suo ambiente e ai suoi simili. L’etica idealistica di cui siamo intrisi fino alle midolla invece le demonizza, in quanto vede in questi tratti qualcosa di basso, di volgare, di demonico, di brutale, e da secoli tenta di estirparli in maniere grossolane, come uno sprovveduto in preda a un raptus igienico che strappa e falcia le erbe spontanee dal proprio giardino, ignorando che queste ricresceranno ancora più folte e forti di prima.