Nel nostro immaginario, il museo è un’istituzione finalizzata alla conservazione ed all’esibizione dell’arte. In effetti, non è esattamente così, posto che vi sono musei scientifici, tecnologici, storici, et cetera. Ma, anche a restare nel campo dell’arte, se definiamo il museo a partire dal suo contenuto, ci troviamo di fronte ad una diversità considerevole. Ad esempio, abbiamo musei archeologici, in cui si raccolgono reperti di civiltà passate, e musei d’arte contemporanea, in cui si raccolgono opere del presente. E questa differenza si riflette immediatamente anche su aspetti strutturali e ‘culturali’: un museo archeologico ha una collezione permanente, destinata quasi certamente a non mutare nel tempo (a meno di nuovi scavi e ritrovamenti), mentre un museo d’arte contemporanea ha una collezione ‘temporanea’, destinata a rinnovarsi continuamente, man mano che nuovi artisti e nuove opere si affacciano sulla scena, per un verso, e quelli più ‘vecchi’ diventano non più ‘contemporanei’.
Ma questo significa limitarsi a considerare l’istituzione museale soltanto sotto il profilo del ‘contenuto’. Ciò che conta realmente, invece, è la funzione del ‘contenitore’.
Da tempo, almeno a livello internazionale, ci si interroga su quale debba essere la funzione del museo, nel contesto di una società fortemente (ed un po’ anche ‘violentemente’) digitalizzata e globalizzata. Purtroppo in Italia, fatta salva qualche rara occasione per addetti ai lavori, questo tema resta del tutto assente dal dibattito pubblico1. Che, del resto, è ormai da tempo ridotto a bagarre di breve durata, quale che ne sia l’oggetto. Dovrebbe invece essere un tema su quale discutere, nel modo più ampio possibile, visto che non solo i musei sono un bene pubblico, ma anche un patrimonio culturale che investe (dovrebbe investire...) la vita di ognuno.
A prescindere comunque dal dibattito teorico, può forse essere interessante provare a ragionare sulle forme di sperimentazione reale che sono in atto, quantomeno nel nostro Paese. Ed è precisamente ciò che si intende fare qui, a partire proprio da due esperienze assai diverse tra loro, sia per la ‘natura’ del museo (l’uno archeologico, l’altro d’arte contemporanea), sia per la direzione della sperimentazione: il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) ed il Macro di Roma. Sperimentazioni che, va detto, sono strettamente legate alla figura dei direttori che le hanno avviate: Paolo Giulierini al MANN, Giorgio De Finis al Macro. In quest’ultimo caso, l’esperimento si è concluso, perché l’incarico non è stato rinnovato, mentre per quanto riguarda l’Archeologico di Napoli è tuttora in corso.
A tutta prima, quella impressa da Giulierini al MANN potrebbe anche non sembrare una ‘svolta’; e forse, sotto un certo aspetto, effettivamente non lo è, o quanto meno non è tanto radicale quanto quella vissuta al Macro. Ma questo è un elemento secondario; ad essere rilevante, infatti, in questo caso non è tanto la radicalità quanto la direzione del cambiamento. Non a caso, nel 2017 è stato giudicato il miglior polo museale d'Italia, secondo Artribune, portale on line specializzato in arte e cultura contemporanea, che poi nel 2018 ha eletto Giulierini "Migliore Direttore di Museo".
Innanzi tutto, va detto che, trattandosi di uno dei più importanti musei archeologici d’Italia, un ripensamento innovativo dell’istituzione è doppiamente difficile. Sia perché, appunto, un museo archeologico è per definizione un luogo che accoglie pezzi d’un passato remoto, ed in quanto tale un po’ ‘congelato’, sia perché l’importanza del luogo lo rende anche un po’ ‘paludato’, difficile da rinnovare senza destare malumori e contrarietà, come del resto, nel suo piccolo, ha ben dimostrato proprio il caso Macro...
L’innovazione sperimentata a Napoli è complessa e multiforme, perché in effetti si è dispiegata a 360°, investendo innumerevoli aspetti, strutturali, espositivi, logistici, relazionali, di comunicazione...
Il dato di partenza su cui tutto è stato basato, è ovviamente il ricchissimo patrimonio della collezione museale. E sin dal primo momento, l’obiettivo di valorizzarla al massimo - cosa apparentemente scontata, ma nei fatti spesso disattesa - ha caratterizzato la nuova direzione. Che, pur nell’ambito di una concezione ‘tradizionale’ dell’istituzione museale, si è mossa lungo due assi strategici: aumentare il numero dei visitatori (che in regime di autonomia finanziaria significa anche reperire risorse da reinvestire nella progettualità), e connettersi più strettamente al territorio.
Ovviamente il primo obiettivo, che si può dire ben conseguito (almeno sino in epoca pre-Covid), è stato ad un tempo causa ed effetto del forte sviluppo del turismo a Napoli, almeno nell’ultimo quinquennio. Le lunghe file ordinate, in attesa dell’ingresso, lo hanno spesso testimoniato.
Una comunicazione moderna, per nulla ‘archeologica’, ne è stato uno dei fattori determinanti. Vale qui la pena di ricordare come il MANN abbia fatto un uso intelligente delle nuove tecnologie digitali, focalizzandosi sui meccanismi di attrazione, più che su quelli di intrattenimento, guida e didattica (che pure non mancano).
Father and Son, il primo videogioco al mondo prodotto da un Museo Archeologico, e scaricato da più di un milione di utenti di tutto il mondo, ha rappresentato una geniale innovazione nella strategia di comunicazione museale. Ma, oltre alla classica app istituzionale (booking, virtual tour, etc), il MANN ha sviluppato anche Pompei A/R, un’App per visualizzare la distruttiva eruzione del 79 d.C., i cui reperti costituiscono buona parte della collezione museale.
Sotto la direzione Giulierini, inoltre, il MANN ha esteso le collaborazioni internazionali con altri musei, ha lavorato al recupero degli spazi inutilizzati all’interno della sede (sta per essere inaugurato un auditorium), si è aperto ad altre tematiche ben poco ‘tradizionali’ (mostre di comics, o sul Calcio Napoli), e soprattutto ha saputo ricoprire un ruolo di propulsore culturale, facendosi promotore di reti territoriali culturali, che connettono al museo altre realtà cittadine operanti nel settore dell’arte e della cultura. Il tutto, senza mai venir meno al rigore che ci si attende da una istituzione di così alto valore culturale. In breve, ha rilanciato l’immagine internazionale del museo (e della città che lo ospita), facendone un attrattore di alto livello, ed ha ritessuto un rapporto ‘vivo’ con la città, che ne ha fatto uno dei suoi motivi di orgoglio.
Su tutt’altro verso, la sperimentazione di De Finis al Macro-Asilo.
Quando è arrivato alla direzione (assai criticata nelle modalità, e per la figura stessa del neo-direttore, oltre che, probabilmente, per ragioni di polemica politica con l’amministrazione capitolina), Giorgio De Finis ha trovato un museo in crisi, senza una particolare identità, in qualche misura ‘superato’ dal MAXXI, il grande museo statale d’arte contemporanea, progettato da Zaha Hadid. Il nuovo direttore veniva da un’esperienza profondamente significativa, quanto fuori dagli schemi, ovvero il MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, un’ex fabbrica occupata da famiglie in emergenza abitativa. Per difendere dallo sgombero la vasta comunità multietnica che vive negli ex stabilimenti Fiorucci, De Finis si inventò l’idea di farne un museo, di riempirlo d’opere d’arte come ‘barriera protettiva’. E, con l’aiuto di tantissimi artisti contemporanei, ne ha fatto - appunto - il primo ‘museo abitato’ al mondo.
Naturalmente ci sarà chi ritenga che il MAAM non è un museo, ma questa obiezione ha un valore meramente sul piano formale, poiché sul piano sostanziale è indubitabile che lo sia, pur nella sua assoluta anomalia.
L’esperienza del MAAM, dunque, è in certo qual modo fondativa per il pensiero ‘curatoriale’ di De Finis, e non poteva che transitare, in qualche forma, anche negli spazi di un museo istituzionale. L’approccio del nuovo direttore è stato quindi quello di concepire il Macro (non a caso definito Macro-Asilo) come un open-space, un luogo attraversabile per i cittadini così come per gli artisti, uno spazio laboratoriale, di riflessione, di confronto, in cui si percepisse la massima libertà (pur nel quadro di un’idea progettuale complessiva), e che in questa libertà favorisse massimamente lo scambio culturale tra artisti e ‘abitanti’.
In tal senso, il primo passo è stato rendere gratuito l’ingresso al museo. Una misura che aveva precipuamente lo scopo di favorirne la percezione come luogo aperto, in cui si va non solo e non necessariamente per vedere qualcosa di specifico, ma anche solo per curiosare, per incontrarsi. Farne insomma uno spazio di socialità, offrirsi come alternativa colta ai centri commerciali, la nuova agorà delle città del consumo.
Sotto questo punto di vista, i numeri dicono che l’obiettivo è stato centrato in pieno.
Il Macro ha anche però dato asilo ad una moltitudine di iniziative artistiche e culturali, che hanno offerto la possibilità di intrecciare dialoghi, di superare la tradizionale barriera tra creatori e fruitori, mescolandoli in una molteplicità di luoghi e di linguaggi.
Questo approccio ‘ospitale’ aveva, e non secondariamente, anche lo scopo di modificare il classico rapporto tra artista e museo, laddove quest’ultimo diventa il luogo della ‘consacrazione’ artistica, che certifica l’affermazione dell’artista, ma che rimane comunque permeato da un senso di separazione, di distanza. L’essere ‘asilo’, ha significato per il Macro (pro)porsi come luogo ‘abitabile’ dall’artista, ed in cui l’artista opera a prescindere dalla sua ‘quotazione’ e, comunque, senza che questa, seppure vi sia, venga in qualche modo attestata dall’essere presente nel museo. In ogni caso, la sperimentazione tentata da De Finis non ha avuto abbastanza tempo per sedimentare, né perché si potesse valutarne l’impatto di lungo termine.
Cosa dunque hanno in comune, l’esperienza del MANN e quella del Macro? E cosa invece le distingue? Ma, soprattutto, cosa possono dirci, in termini generali, su un’idea di museo capace di collocarsi nel tempo presente, senza inseguirne le mode?
Appare evidente che il primo elemento comune, pur nelle innumerevoli differenze, è l’importanza di una idea guida, di una visione complessiva del ‘cosa’ (e quindi del ‘come’). Senza questa, non può che esserci approssimazione e superficialità, destinate ad esaurire velocemente qualsiasi tentativo. E, conseguentemente all’importanza della visione, ogni scelta appare chiaramente collocata in un contesto riconoscibile, risulta reciprocamente connessa con le altre, è sempre funzionale ad un obiettivo generale.
Così come è, in entrambe le esperienze, evidente la volontà di connettere il museo con il suo territorio, di rafforzarne i legami e l’interscambio. D’altro canto, è evidente che poi le traiettorie di queste due sperimentazioni sono diversissime tra loro. E che lo sono in parte anche in modo predeterminato, proprio per la diversa natura museale di cui si diceva all’inizio.
Per un verso, si potrebbe dire che la sperimentazione messa in atto al MANN è una operazione di modernizzazione, di ‘svecchiamento’ dei linguaggi, di apertura al ‘nuovo’, sempre senza che ciò si traduca in un inseguimento della modernità, in un mero adottarne tecnologie e tecniche di comunicazione. Insomma, una sorta di profondo ‘riformismo’.
Per un altro, la sperimentazione del Macro è stata un’operazione più radicale, in certo qual modo ‘rivoluzionaria’, e che - in modo solo apparentemente paradossale - è stata meno interessata alla dimensione ‘tecnica’ della modernità, e molto più a quella ‘sociologica’ (non a caso, ha fatto poco o nullo ricorso alle tecnologie digitali...).
Ciò che possiamo oggi trarre da queste due esperienze, l’una fortunatamente ancora in corso, l’altra purtroppo prematuramente conclusa, è la necessità di ‘desacralizzare’ l’istituzione museale, di renderla luogo non separato dalla città, ma che con questa abbia un rapporto osmotico.
‘Attraversabilità’ è probabilmente la parola chiave; intesa nel duplice senso di luogo in cui non si avverte estraneità, e di luogo che conduce a.
Vi sono una infinità di aspetti che vanno considerati, a partire dalla sostenibilità economica, nel provare ad immaginare il museo del terzo millennio. E certamente sono auspicabili altre sperimentazioni, l’esplorazione di altre vie. Ma una cosa è certa: il museo ha più che mai bisogno dei ‘suoi’ cittadini (non meramente dei loro biglietti...), e deve più che mai essere loro ‘restituito’.
1 Sul tema, cfr.:
Per un museo 3.0;
La sfida del museo futuro;
Piccolo esercizio d’immaginazione;
Il museo dà i numeri;
Millennium museum;
L’asilo di Stendhal.