Marina Calloni ha da sempre cercato di far interagire attività di ricerca e insegnamento inter-culturale e multi-disciplinare, secondo una prospettiva internazionale e un interesse per le realtà locali. È professoressa ordinaria di Filosofia Politica e Sociale all’Università di Milano-Bicocca. Ha lavorato all’estero per molti anni, insegnando e svolgendo ricerche in diverse università e Paesi. Dirige il centro di ricerca dipartimentale ADV – Against Domestic Violence, collaborando fra gli altri col Senato della Repubblica e il Consiglio d’Europa. Ha fatto parte del “Comitato di esperti in materia economica e sociale”, presieduto da Vincenzo Colao. Ha pubblicato in diverse lingue numerosi libri, rapporti di ricerca e saggi su temi riguardanti la filosofia sociale, la teoria politica, i diritti umani, le questioni di genere, la critica della violenza, la cittadinanza attiva e la cooperazione internazionale.
Quando penso ad un autoritratto, la mia mente corre ai dipinti di Artemisia Gentileschi, unica nel saper dare colore e forma alle sue passioni, dolori, speranze attraverso un corpo di donna. Aveva addirittura rappresentato sé stessa come allegoria della pittura, l’arte che la distingueva per talento e ingegno dai suoi stessi colleghi maschi. Io non possiedo né il genio di Artemisia, né la facoltà della pittura. Mi risulta quindi impossibile dipingere me stessa: ogni definizione sarebbe parziale rispetto all’intero e rimane sempre quel residuo che rimanda alla verità. In generale, preferisco lasciar parlare le mie azioni e i miei scritti piuttosto che parlare di me: ognuno può così farsi una propria idea. Posso solo dire che il vettore trainante delle mie scelte esistenziali e lavorative è sempre stata la figurazione delle potenzialità trasformative contenute nelle cose e nelle opportunità. Si tratta forse di un retaggio della mia infanzia: dare una forma realizzabile all’immaginazione. Sono cresciuta in un paese a Nord di Milano, dove la piccola comunità, i boschi e le rogge davano un enorme sensazione di libertà fisica e immaginativa, così come un senso di protezione, unito al desiderio di superare ogni confine angusto. La volontà di scoprire nuove realtà, Paesi e culture, mi ha così portato a vivere all’estero per quasi vent’anni e a fare degli spostamenti una modalità di vita, di lavoro, di ricerca e di conoscenza, conseguendo gli obiettivi con rigore, fatica, perseveranza e rettitudine (come da insegnamenti familiari), anche se spesso l’esito si distanzia dall’idea originaria. Ernst Bloch parlava di sogni “diurni”, ovvero di una prefigurazione ad occhi aperti. Per me si tratta di dar corpo a progetti che possano conoscere e trasformare situazioni inique e discriminazioni violente.
Quali sono stati gli incontri, le esperienze, gli studi che l’hanno spinta ad appassionarsi alla filosofia politica?
Recenti dati hanno indicato come il numero delle donne che hanno ottenuto una cattedra di filosofia all’università siano equiparabili alle docenti impiegate in scienze “dure”. In effetti, la filosofia è stata perlopiù riferita a pensatori maschi e alla capacità di “usare la ragione”, a differenza delle donne ridotte al mero mondo dei sentimenti emotivi. Eppure è dalla fine del Settecento che le donne lottano per il riconoscimento di pari facoltà e pari diritti. Pur essendo un mondo che è stato caratterizzato fino al Novecento da scuole di pensiero “maschili”, il mio interesse per la filosofia politica è nato dalla necessità di porre sempre nuove domande al mondo in cui viviamo, alle persone con cui condividiamo questo pianeta, reinterpretando quella domanda radicale che ogni bambino/a da piccolo/a ha sempre posto con insistenza fino allo sfinimento: Perché? L’esercizio di interrogare senza sosta le azioni degli umani in culture diverse porta a dischiudere la mente a sempre nuovi orizzonti di conoscenza, a proporre nuove ricerche, a combattere contro ogni tipo di violenza, a chiedere politiche adeguate perché le diseguaglianze vengano abbattute.
Difficile ridurre dunque a singoli nomi le persone che hanno influenzato il mio lavoro. Gli incontri sono stati molteplici e importanti in molteplici luoghi e secondo diversi progetti, avendo insegnato e partecipato a conferenze in diversi continenti (con l’eccezione dell’Australia) e oltre 40 Paesi. Ricordo qui solo il mio professore all’Università Statale di Milano, Emilio Agazzi, il mio maestro Habermas, i/le colleghi/e della London School of Economics a Londra, dell’Istituto Universitario Europeo a Firenze, delle università di Francoforte, Brema, delle femministe statunitensi e dei Paesi post-socialisti e molti/e altre ancora. A ciò si aggiungano i progetti con le Nazioni Unite, la Commissione Europea, il Consiglio d’Europa, il Consiglio Nordico dei Ministri, il Senato della Repubblica e tanti altri ancora.
Filosofia e politica: incontro o scontro nei secoli? Cos’è cambiato nel corso del tempo e quali sono le tematiche più attuali?
La filosofia occidentale ha una storia millenaria che da sempre si è confrontata e scontrata con la politica non solo come arte, scienza e strategia volta alla conquista del potere o per mantenere il governo, bensì come luogo in cui si agisce per il bene collettivo e a favore dei beni comuni. Non a caso la filosofia politica è nata ad Atene, quando divenne evidente che non era più sufficiente riflettere sulle radici naturali o concettuali che starebbero alla base della realtà empirica, bensì era diventato necessario comprendere il mondo degli umani, le sue leggi e come fosse possibile migliorare la convivenza comune. Il contrasto fra normatività (come la repubblica deve essere) e fattualità (come bisogna partire dalle costituzioni date) è già presente in Platone e Aristotele, nonostante che entrambi concordassero nel ruolo del cittadino: operare per il bene comune. Tale circoscritta prospettiva comunitaria a si è ora ampliata ad una più ampia visione planetaria: la lotta per la difesa dei beni comuni contro la possibilità dell’autodistruzione del genere umano, causata da inconsiderate azioni che portano a distruggere risorse non rinnovabili e a produrre sostanze nocive che alterano il clima stesso. La condizione umana deve essere ripensata nella sua fragile precarietà attraverso un condiviso senso di responsabilità nella dialettica fra diritti e doveri, come messo chiaramente in luce dalla crisi pandemica.
Si è interessata di generi e femminismo, approfondendo la tematica della donna come costruzione sociale: ci può sintetizzare i risultati della sua ricerca?
Ciò che mi interessa maggiormente analizzare è come le relazioni di genere, ovvero i rapporti tra uomini e donne, abbiano portato nel corso del tempo a discriminazioni e violenze continue, a partire dalla famiglia che non è sempre il luogo dei sentimenti morali e del rispetto che devono essere appresi fin dalla prima infanzia. Ciò significa mancata equità sociale, produzione di stereotipi che offrono immagini riduttive delle donne, ma soprattutto impediscono lo sviluppo delle capacità e l'impossibilità di avere le stesse opportunità nella vita. Quindi, il mio approccio al femminismo riguarda la lotta intersezionale contro molteplici forme di disuguaglianza a difesa dei diritti umani e della dignità individuale. Solo una presa di consapevolezza sulle pari opportunità può costruire il benessere individuale in senso collettivo e la pratica di una giustizia sociale condivisa. Quindi, una democrazia compiuta si basa su un concetto inclusivo di cittadinanza e di equità di genere, elementi negati per cultura in molti Paesi e accentuati in luoghi piegati da conflitti armati. Proprio per questo, nel corso degli anni ho sviluppato progetti sugli interventi umanitari, che mi hanno fatto incontrare rifugiate e sopravvissute a genocidi, come nel caso di donne bosniache, ruandesi e yazidi. Fin dall’inizio abbiamo sostenuto la battaglia di Nadia Murad (poi insignita del Nobel per la pace) per il riconoscimento del genocidio del suo popolo, trucidato dai miliziani dell’Isis. Fondamentale è la solidarietà e la mobilitazione internazionale contro crimini di guerra e agiti contro l’umanità.
Lei dirige ADV - Against Domestic Violence, è un centro di ricerca universitario dedicato al contrasto alla violenza domestica: quali sono i principali fattori di una così preoccupante concentrazione di casi nella famiglia e quali sono le vostre linee di intervento?
ADV - Against Domestic Violence è un centro di ricerca istituito presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove lavoro. Il centro, precedentemente chiamato EDV Italy Project, è nato nel 2013, a seguito della pubblicazione del libro Il male che si deve raccontare, scritto con Simonetta Agnello Hornby (che avevo conosciuto a Londra quando aveva ancora uno studio legale a Brixton e non aveva ancora intrapreso la carriera di scrittrice) e grazie alla collaborazione con la Fondazione Eliminate Domestic Violence (EDV), presieduta dalla Baronessa Patricia Scotland, ora Segretario Generale del Commonwealth.
L’idea di costituire un centro universitario è nata da una esigenza concreta: capire le radici di un fenomeno così grave come le violenze e le molestie in famiglia, grazie alla collaborazione tra centri di ricerca, esperti, istituzioni e associazioni. L’università non ne era pienamente consapevole, tant’è che il fenomeno non veniva trattato e i/le docenti non avevano conoscenze adeguate. Il nostro intento concerne la necessità di sviluppare politiche di sensibilizzazione e prevenzione, contribuendo alla formazione di esperte che sappiano “trattare” le vittime, così come i bambini e i maltrattanti. Abbiamo sviluppato diversi corsi (curriculari per gli studenti e di perfezionamento o aggiornamento per i professionisti) e avviato importanti collaborazioni a livello comunale, regionale, nazionale (ad esempio, col Senato della Repubblica sulla questione del femminicidio) e internazionali (soprattutto col Consiglio d’Europa per lo sviluppo di reti accademiche). Stiamo infatti costruendo un network rivolto a tutte le università italiane, chiamato UN.I.RE. Secondo tale approccio, l’università diventa un centro in grado di far interagire e sviluppare proficuamente conoscenze scientifiche con saperi professionali e pratiche esperienziali, potenziando lavori in rete con istituzioni e associazioni.
Ci vuole parlare della sua esperienza nel Comitato di esperti in materia economica e sociale, istituito dal governo per affrontare l’emergenza Covid-19?
Si è trattato per me di un incarico tanto inaspettato, quanto importante, che ho cercato di onorare con un senso di responsabilità e di impegno per migliorare le sorti del mio Paese. Il Comitato era stato nominato il 10 aprile 2020 con 17 esperti, fra cui solo 4 erano donne. Era stato poi ampliato il 12 maggio con altre 5 esperte, fra cui me stessa, a seguito delle molte proteste provenienti dall’associazionismo femminile. Al di là di una possibile obiezione (che io stessa mi ero fatta) circa la necessità di impiegare un’azione positiva con la richiesta di parità di rappresentanza, mi sono poi ancor più convinta che un maggior numero di donne nei diversi settori socio-economici fa davvero la differenza: vengono messi in luce aspetti che colleghi uomini non hanno mai considerato o hanno sottovalutato, come nel caso della necessità di costruire asili che darebbero l’opportunità ai bambini di avere una socializzazione pre-scolastica e alle donne di lavorare. Abbiamo quindi lavorato duramente con le altre colleghe affinché l’equità di genere divenisse un pilastro – assieme alla digitalizzazione e rivoluzione verde – per il rilancio del Paese. Di fatto, una riforma integrata e generale a favore dell’equità di genere non mai stata fatta in Italia. Il numero delle donne che godono di un lavoro salariato è pari solo al 49%. Per il resto si tratta di lavoro di cura in famiglia o spesso di lavoro in nero. Bisogna affrontare tale questione con una riforma generale. Il Paese non può ripartire senza incentivare l’occupazione femminile. Non è ammissibile che le donne quando hanno un figlio non riescano a rientrare al lavoro per mancanza di aiuto. E ora con l’emergenza pandemica corrono il rischio di pagare ancor più gli effetti della crisi.
Ricopre a Milano un importante ruolo universitario: come vede la situazione dell’offerta universitaria nella nostra città?
Sono professoressa ordinaria all'Università di Milano-Bicocca dal 2002, dopo aver vinto un concorso presso il Ministero dell'Università e della Ricerca per il rientro dall'estero. Avevo infatti trascorso molti anni in università europee, insegnando e svolgendo progetti internazionali. Non pensavo che sarei mai rientrata in Italia. Non mi piaceva la struttura dell'accademia italiana, verticistica e nepotistica. Volevo invece confrontarmi in libertà con nuove scuole di pensiero critico, senza pensare al professore che mi avrebbe “appoggiata”. E ho sempre fatto scelte che altri accademici mi dicevano di non fare, altrimenti non avrei mai fatto carriera. Sono però tornata – su invito dell'allora pro-rettore Martinotti e del preside di facoltà de Lillo - per un progetto allettante, ovvero far parte di un nuovo ateneo, allora in costruzione: l’Università di Milano-Bicocca. Mi affascinava l'idea di partecipare a una nuova sfida per la creazione di una più ampia società della conoscenza in una Milano che stava faticosamente riemergendo dal suo passato industriale verso nuove prospettive di rilancio, tesa fra rivitalizzazione del territorio (riqualificazione ambientale e nuove attività produttive) e dimensione internazionale (com’è accaduto con Expo). Volevo mettere al servizio della mia città e del mio Paese le conoscenze e le esperienze che avevo accumulato negli anni, sviluppando ulteriori reti di ricerca.
Nell’ultimo decennio Milano si è sempre più affermata come un importante centro universitario, con otto università e in più accademie d’arte e tanti altri centri di ricerca. Nonostante non sia stata storicamente una città universitaria a differenza di altri centri (il Politecnico fu fondato nella seconda metà dell’Ottocento), ora conta circa 190.000 studenti provenienti non solo dalle diverse regioni italiane, bensì anche da Paesi europei ed extra. Al di là di università “generaliste”, vi sono molteplici offerte riguardanti lauree triennali, magistrali, ma anche master e dottorati. Accanto a didattica e ricerca è importante rafforzare la terza missione: da una parte incentivando lo sviluppo socio-economico del territorio contro le povertà urbane, mentre dall’altra potenziando il trasferimento tecnologico e sociale, tale da coniugare il sapere universitario con esperienze della società civile e con le realtà produttive. Milano rimane un grande laboratorio capace di comprendere le trasformazioni sociali, culturali e sistemiche in corso, mettendo in relazione le varie conoscenze. Il lavoro deve ora saper essere inventato, così come chi è impiegato deve saper continuare a imparare e ad apprendere nuovi linguaggi. Fondamentale nella fase post-pandemica è dunque un concetto multi-livello di formazione, per il quale ho molto lavorato nel Comitato Colao.
In che modo la città, con le sue istituzioni e associazioni, affronta il problema della violenza domestica e come viene incontro alle donne che ne sono vittime?
Milano può essere considerata un esempio importante di come si possa affrontare la violenza domestica. Ci sono reti composte da istituzioni e centri antiviolenza sia a livello regionale, sia a livello comunale con la Casa dei Diritti. Molto importante è anche la collaborazione fra istituzioni politiche, polizia, magistratura, ospedali e gruppi specializzati per il contrasto alla violenza domestica. A Milano sono inoltre moltissime le associazioni che proteggono gruppi umani discriminati, sostenendone le istanze. È inoltre la città del volontariato e della cittadinanza attiva con un tessuto sociale che sa mobilitarsi velocemente nel caso di crisi e bisogni, come è stato dimostrato durante la crisi pandemica. Molto si è fatto, ma manca ancora un sistema integrato che metta in sicurezza le donne ad alto rischio assieme ai loro figli, intervenendo al più presto sui maltrattanti.
È una studiosa di Anna Kuliscioff, che tanto ha fatto per le donne milanesi, e non solo: quale è la sua eredità?
Anna Kuliscioff è una figura fondamentale, ma non solo per la cultura politica milanese. Dalla sua biografia possiamo ancora molto imparare. Fu ricercatrice, professionista, attivista, scrittrice senza soluzione di continuità secondo una visione tanto locale quanto cosmopolita. Era russa di origine ebraica, madre singola e poi compagna di Filippo Turati, uno dei fondatori del Partito Socialista Italiano. Non solo riuscì a laurearsi in medicina nel 1886 (una delle pochissime donne), bensì anche a scoprire la causa batterica di quella febbre che era letale per le puerpere. Era chiamata la “dottora dei poveri”. Lottò per il diritto di voto e di lavoro delle donne contro “il monopolio dell’uomo”. Non ebbe mai paura di lottare per gli ideali in cui credeva, tant’è che fu per questo incarcerata in luoghi insalubri che le causarono tubercolosi e artrite. Diresse con Turati la rivista Critica Sociale che aveva sede nella loro abitazione sita nella Galleria Vittorio Emanuele II. Non si fece mai intimidire dagli oppositori e neppure dal fascismo, tant'è che durante le sue esequie una squadra di fascisti si scagliò contro il carro funebre. Kuliscioff fu un’anticonformista perché aveva il coraggio della fedeltà a sé stessa: credeva in una società più equa e paritaria rispetto a quella in cui si trovò a vivere. Lottò a favore dei diritti delle donne contro sia reazionari e conservatori, sia contro lo sciovinismo dei compagni di partito, sia contro posizioni borghesi espresse da donne attiviste e intellettuali, sia contro un separatismo femminista, privo di cooperazione. L’eredità di Kuliscioff significa pretendere l’uguaglianza come rispetto delle differenze in nome della giustizia sociale e del rispetto fra esseri umani. È un’eredità che Milano non può scordare.
E la Milano di oggi, quale grado di sensibilità sociale mostra?
La forza di Milano consta nel non temere il rinnovamento, nel cambiare facciate e contenuti, accettando le sfide del tempo, i cambiamenti economici, le trasformazioni geo-politiche. Questo elemento era chiaramente emerso anche dalla ricerca che avevo svolto con Marisa Bertoldini e che era apparsa nel volume Pensare Milano. Intellettuali a confronto con la città. Si trattava di una ricerca (poi parzialmente pubblicata in tedesco) che raccoglieva 77 interviste fatte a personalità milanesi, ai quali si chiedeva di riflettere sul proprio rapporto con la città e come interpretavano il radicale mutamento che Milano stava allora vivendo, a causa della trasformazione della società del lavoro industriale. Il lavoro ci costò ben tre anni di preparazione. Fu pubblicato nel marzo 1992. La sera della presentazione fu definito un “libro storico”. Il libro ebbe vita breve e presto fu mandato al macero. In febbraio era infatti scoppiata Tangentopoli che aveva cambiato il volto della città, facendola piombare in anni difficili. La transizione post-industriale di Milano sembra ora essersi conclusa, per lasciare spazio a un nuovo skyline con i recenti grattacieli, spazi urbani riqualificati e la scommessa per il miglioramento delle periferie. L’ultima scoperta di Milano è però consistita nell’essersi riconosciuta come città turistica a livello internazionale, anche se diversa dalle tradizionali mete. Milano ha saputo offrire accanto a musei, gallerie e siti storici anche lo shopping legato all’idea di Milano come fashion city e la ristorazione connessa al cibo di qualità, assieme alla comodità dei trasporti locali, ferroviari e aeroportuali. Rimane ora la sfida delle Olimpiadi, anche se la pandemia ha costretto Milano a interrompere la sua corsa positiva. Si è dovuta fermare. Sono sicura che riuscirà a riprendersi, ma solo se accanto alla dimensione economica non dimenticherà la vocazione sociale e il dinamismo dell’associazionismo propositivo.
A Milano, molti monumenti maschili e pochissimi di donne … quale figura femminile vorrebbe fosse ricordata così?
Negli ultimi tempi la politica dei monumenti non sembra godere di ottima salute. Anzi, come hanno mostrato recenti vicende, la furia iconoclastica si è abbattuta contro statue raffigurati uomini dal passato razzista, coloniale o addirittura genocidario. Questo non è il caso delle donne che i potenti non hanno mai pensato di rappresentare perché non rientravano nell’ideologia dell’eroe, soprattutto per la guerra che sapeva praticare. Cosa può allora significare erigere oggi un monumento, in segno di riconoscenza e memoria? Piuttosto che a statue messe in mezzo a piazze e giardini, di cui spesso si dimentica il significato, penserei piuttosto a istallazioni contestuali, posti cioè nei luoghi dove donne riconosciute come prominenti, seppero praticare le loro opere a favore della nostra comunità e non solo. Si tratterebbe di una memoria per le generazioni a venire, per non dimenticare il filo rosso che ci lega al passato fatto di povertà e violenza, ma anche di ricostruzione e riscatto. Fare qualche nome di donna sarebbe a discapito di altre. Sarebbe però auspicabile disegnare i luoghi in cui vissero, in modo da creare un percorso per la ricostruzione delle opere femminili, spesso coperte da un volontario oblio.