Marta ha vent'anni.
Due occhi scuri, un po' allungati. Qualche ciocca castana più ribelle delle altre, che sfugge alla crocchia in cui ha tentato di fermare i suoi capelli fini. Una vita intera da riordinare, come le sue ciocche sfuggenti. Sa già che, quando si dovrà sdraiare, altre scivoleranno fuori da quel pasticcio che ha provato a imbastirsi sulla nuca. Non è mai stata brava con le pettinature, anche se forse c'è stato un tempo bambino in cui ha accarezzato il sogno di fare la parrucchiera, da grande. Se la ricorda bene quella foto, all'asilo, l'espressione corrucciata, mentre stritola al collo la bambola per tenerla ferma e intanto si sforza di far passare un pettine dai denti fittissimi attraverso il caschetto sintetico e impenetrabile di un Cicciobello orbo. Meno male che poi non l'ha fatta davvero, la parrucchiera.
Si guarda allo specchio. Stranamente si trova carina. Oggi è più necessario che in altre mattine. I pantaloni a sigaretta le calzano proprio bene, le fanno risaltare le gambe lunghe e sottili, ma soprattutto le riempiono un po' quel sedere che non è mai stato troppo pieno. La maglia è quella color kaki, con lo scollo a V. Un'ultima giravolta e via.
È giorno di esami, ma sono quelli facili e Marta non chiede a nessuno di accompagnarla. Le piace guidare da sola, ripercorrere quella strada che sa a memoria, e insieme ai campi e ai tralicci dell'alta tensione lasciarsi scorrere di fianco i tanti ricordi di quei giorni pieni di fatica, che per fortuna sono finiti (devono esserlo per forza!)...tornare alla normalità, ora è tempo di tornare alla normalità...glielo ripetono in tanti, se lo ripete anche lei, spesso, e forse la normalità non è altro che cercare di rimanere sulla carreggiata, godersi il paesaggio che muta e adattarsi pronti alle curve, quando arrivano, anche a quelle inaspettate su strade che non si conoscono, soprattutto a quelle.
Parcheggia e si avvia sicura. Potrebbe avanzare a occhi chiusi, lasciandosi scortare semplicemente dai suoni intorno a lei, individuando con precisione a che punto del tragitto si trova a seconda della direzione dalla quale a turno provengono gli echi dei clacson nervosi, i cinguettii sospesi sugli alberi maestosi che impreziosiscono i giardini delle ville lungo le ampie vie laterali, i richiami insistenti dei semafori che allertano gli ultimi pedoni ad affrettare il passo. Si spia furtiva nelle poche vetrine in cui appare a intermittenza, come una lucina sull'albero di Natale. Lo specchio non le ha mentito.
All'improvviso si scuote dai suoi pensieri. C'è un tizio che avanza verso di lei e si comporta come se la conoscesse.
“Bella pimpante stamattina, eh? Sali da me per un caffè?” e con l'indice punta all'ultimo piano del palazzo alla sua destra.
Ci ha messo un po' a riconoscerlo. Senza il bianco della divisa tutt'intorno ha fatto fatica a trovare le coordinate per collocare quel volto al posto giusto, che nella testa di Marta non è certo fuori, tra le vie della città, ma dentro, tra i letti del primo piano. Gli sorride, lo ringrazia, ma declina l'invito, la stanno aspettando... non sarei salita comunque, pensa...eppure, si sente gratificata da quello sguardo che senza il bianco della divisa tutt'intorno è soltanto lo sguardo di un uomo.
È arrivata. Fermi sullo stretto pianerottolo tra le due rampe di scale che deve salire, due ragazzi piangono e tra i singhiozzi domandano insistenti all'uomo curvo nelle spalle davanti a loro se possono vederla. Marta si assottiglia per passare, invisibile, affretta il passo, inizia a fare i gradini a due a due, deve allontanarsi da quelle lacrime e da quell'angoscia più veloce che può, prima che le lacrime e l'angoscia che lei tiene ben serrate dentro agli occhi e giù, in fondo alla pancia, si sentano in qualche modo spalleggiate e decidano autonomamente di scapparle fuori. In cima alle scale si ferma, lascia che il cuore smetta di batterle nella testa e ritorni al suo posto.
Nel corridoio le finestre che danno sui cortili sono tutte spalancate e i vortici d'aria che si creano in risposta alle finestre spalancate delle camere vuote sull'altro lato la investono. A Marta non resta che dire definitivamente addio alla sua crocchia tremolante, ma intanto la corrente si è portata via anche l'odore pungente del disinfettante e del dolore. Smette di trattenere il fiato e torna a respirare, almeno un po'.
Caterina di anni ne ha ottantasette.
I suoi occhi sono piccoli e chiarissimi. Anche i suoi capelli sono raccolti in una crocchia, solo che la sua è precisa e ordinata, e rimane lì, immobile, una crocchia di nuvola, spumosa e quasi inconsistente, intessuta di fili d'argento. È altro quello che inesorabile le scivola via, che non ha modo di trattenere.
Si osserva allo specchio avvolta dal suo abito a fiori, quello che ha comprato al mercato, a Finale, la scorsa estate. Negli ultimi mesi ha perso qualche chilo, le va un po' largo, ma l'aspetto dignitoso e composto quello no, non l'ha perso e tanto le basta per sentirsi a posto, come piace a lei. Indugia concentrata davanti alla sua immagine, pensando a tutte le Caterina che riconosce rannicchiate lì dentro. Sa che non ce ne sono altre in attesa e che quella che sta guardando è l'ultima versione di sé che ci vedrà riflessa.
Si gira verso l'armadio, l'anta cigola come le sue articolazioni. Prende lo scialle. La giornata si preannuncia calda, ma lei si conosce, dovrà proteggersi dalle correnti che spazzano il corridoio.
Si siede in salotto, inforca gli occhiali e prende tra le mani l'immancabile Settimana Enigmistica. La borsetta è già pronta sul tavolo vicino all'ingresso. Accanto, le chiavi. Nella tasca piccola, ben piegato, il foglio con le domande che sennò poi si dimentica cosa deve chiedere, e quel telefonino che suo figlio la costringe a portarsi sempre appresso, ma che lei detesta, non capisce come usarlo, la fa sentire stupida e lei è certa di non esserlo. Ne cerca conferma nel Bartezzaghi che deve ancora completare, c'è quel 36 orizzontale che proprio non le esce, ma è cocciuta, prima di sera l'avrà di certo terminato.
Marco arriva, trafelato, come sempre. “Scusa mamma. In ufficio si sono dimenticati che stamattina ho preso ferie e ho dovuto fare un salto veloce...Marianna ti saluta”. Caterina ringrazia con un cenno e si adagia con calma sul sedile di quell'auto sempre così linda e profumata. Meno male che si è portata lo scialle. Se lo avvolge subito intorno alle spalle. Si era scordata che prima ancora che con le correnti del corridoio avrebbe dovuto fare i conti con l'aria condizionata che per Marco non è mai troppo alta, ma che a lei fa venire subito i brividi.
Però che gentile Marco, e com'è bello! Lei e Giovanni (pace all'anima sua) hanno fatto davvero un buon lavoro.
L'auto rallenta, attende che la sbarra si alzi, poi procede lenta lungo il viale d'accesso. Per fortuna c'è una panchina libera, così può aspettare comoda che suo figlio vada a parcheggiare. Lì seduta non le pare neppure di essere dove sta. Le fitte chiome verdi sopra di lei danzano lievi, tira un alito di vento leggero, qua e là sotto quel tetto verde improvvise lame di sole arrivano a toccare terra per poi spegnersi e ricomparire un po' più distanti, o vicinissime, si rincorrono di continuo, non si lasciano indovinare. È un gioco di luci e di ombre talmente bello che pare un dipinto...enpleinair...eccolo, il 36 orizzontale!
Stamattina c'è parecchio movimento. Una donna incinta porta in giro affannata un pancione enorme, ripetendo all'amica che non vede l'ora che sia tutto finito. Dev'essere un primo parto, altrimenti saprebbe bene che quel “tutto” deve ancora cominciare. Ma perché quel bell'imbusto non la smette di fumare? Dovrebbero vietarlo dappertutto! Caterina si agita stizzita sulla sua panchina, finché la sua attenzione non viene catturata dalla crocchia scomposta di una giovane donna che procede risoluta, schivando gli ostacoli che le si parano dinnanzi e scomparendo in fretta dietro le porte del padiglione.
Un tempo anche a lei i ciuffi di capelli scappavano sempre fuori da ogni acconciatura in cui tentava di imbrigliarli. A lei piaceva, però, e anche al suo Giovanni. Aveva sempre pensato che quei fili disordinati che le scendevano lungo il collo fossero molto poetici. Sua madre e la madre di Giovanni, invece, gliel'avevano detto che non avrebbe dovuto farsi pettinare così dalla Lucia il giorno delle nozze. Pareva che il suo quasi-sposo l'avesse strapazzata ancora prima di entrare in chiesa. Non stava affatto bene.
L'aria sa di buono e Caterina respira a pieni polmoni. Ne fa scorta, prima di entrare.
Ci sono delle sedie libere, ma Marta non si siede. Non si siede mai, quando arriva. L'inquietudine che le crepita sotto la pelle come una brace, le impedisce di stare ferma. Tamburella con il piede leggero, passeggia su e giù, salutando chi passa con un tono di voce più alto del necessario, sorridendo a bocca più larga. In qualche modo è come se ci tenesse a far sapere che, a dispetto dell'età, lei lì è un po' di casa, che ne avrebbe di storie da raccontare, anche se da quella casa in cui periodicamente non può fare a meno di tornare, poi non vede l'ora di uscire. Perché adesso può uscire. C'è stato un tempo in cui lì ci entrava, sapendo di doversi fermare.
Mentre tenta invano di mascherare il nervosismo dietro quell'eccitazione innaturale, si accorge di due occhietti chiarissimi che la stanno fissando. Avvolta da un abito a fiori, la loro proprietaria è arrivata da poco, il braccio sotto quello dell'uomo garbato che l'ha accompagnata e che ha aiutato le sue ossa scricchiolanti a ricomporsi su una delle sedie libere. Marta sente che l'anziana signora sta per dirle qualcosa e supplica i santi del Paradiso e gli dei dell'Olimpo che non sia quello che teme, l'ha già sentito troppe volte e ogni volta deve fare uno sforzo sovrumano per non esplodere.
E, invece, puntuale, la nonnina, il capo un po' piegato di lato, lo sguardo languido, emette la sua sentenza: “Beata te, che sei giovane!”.
Marta si sente avvampare. Il battito accelera. Le mani sudano. I pensieri le si accavallano disordinati nella testa...vorrebbe urlarle che lei, giovane, ha rischiato di rimanerci per sempre...che hanno faticato a comprendere quel male che si annidava dentro di lei, così giovane...che i suoi giovani anni non dovrebbero sapere l'odore del disinfettante e del dolore...vorrebbe raccontarle di quei giorni pieni di fatica...che neppure le avevano detto di quel male, perché, così giovane, forse si sarebbe spaventata troppo e la paura si sarebbe mangiata le energie che, invece, le servivano per combattere...che, una volta sparito il male, la paura era rimasta lì, aggrovigliata ai suoi intestini, inoperabile...
È un attimo, poi la tempesta passa...come si fa a spiegarle certe cose?...rimane in silenzio, il capo leggermente piegato sulla spalla, lo sguardo più morbido e indulgente che è capace di regalarle.
Caterina si è accorta che per un istante la ragazza si è irrigidita, come la mano di Marco, appoggiata sulla sua ancora infilata sotto il braccio...vorrebbe sussurrarle che lo sa che non avrebbe dovuto, ma lei è così bella nel suo vestire semplice, un fiore di campo che stona o forse risalta ancora di più appoggiato a quel muro che trasuda umidità e storie tristi...che non deve averne a male, perché arriverà un giorno in cui la sua pelle bianca e i suoi capelli bianchi si confonderanno con il bianco delle lenzuola e a lei sembrerà di essere diventata trasparente, ancora prima di essersene andata davvero...vorrebbe confessarle che le invidia la caparbietà con cui tenta con insistenza di annodare i suoi capelli sottili e quell'età acerba che moltiplica la libertà di sperare e di affidarsi, a qualcuno o semplicemente al futuro, il coraggio di rischiare un fallimento forse, magari un errore, di certo una ripartenza...un coraggio che lei, lo sa bene, non può più permettersi, ora che il suo tempo sta per finire e lei deve usarlo bene, deve imparare a lasciare...vorrebbe giustificarsi, spiegandole che non è il tipo di persona a cui piace autocommiserarsi, che sa di essere fortunata ad aver raggiunto il traguardo dei suoi anni, solo che tutti si aspettano che quelle come lei se ne escano di scena con naturalezza, senza drammi, come se fosse facile, come se non costasse una vita...sa che probabilmente non le diranno la verità, ma non per risparmiarle la paura, piuttosto per non far emergere le loro, di paure, non saprebbero dirle...ma come si fa a spiegarle certe cose?
Marta aspetta, con quella pazienza che è sorella del patire, gliel'hanno insegnato i suoi studi che ama e che sono rimasti lì, sospesi, come tutto il resto negli ultimi due anni. Aspetta di essere chiamata, ha fretta di correre incontro a tutto ciò che l'attende fuori.
Anche Caterina aspetta, con pazienza, non sospettando neppure che quella parola possa significare qualcosa di diverso dalla calma placida di chi non ha più fretta. Aspetta che il resto dei suoi giorni le venga incontro e prega che sia benevolo, quel tanto che basta.
Marta ha settantatré anni.
Quando arriva nella sala d'attesa dell'ospedale, ci sono ancora delle sedie libere. Si siede. Mancano solo pochi numeri, poi chiameranno il suo.
Di fronte a lei, una cascata di riccioli biondi lascia ogni tanto intravedere due occhi verdi. Corrono sul display di un telefonino, mentre un pollice che pare impazzito digita messaggi all'universo, senza interruzione. L'unghia lunga e ben curata picchietta veloce sulla superficie. Poi si ferma, le labbra si schiudono, le guance si alzano, mentre dagli occhi assottigliati sprizza una gioia frizzante, contagiosa...si vede che dall'altra parte dell'universo è arrivata una risposta divertente o forse non divertente, solo attesa.
Beata te, che sei giovane!...non lo dice a voce alta, ma ci sono pensieri che, quando si pensano, sono così forti che è quasi impossibile non sentirli anche da fuori. Per un istante la ragazza solleva lo sguardo, la fissa e le sorride...chissà se ha capito, chissà se sorride davvero, anche dentro...
Marta aspetta, paziente.