Entrare in uno studio d'artista è un po' come addentrarsi nel laboratorio di un alchimista: i pensieri gravitano, i colori si addensano, le forme si danno convegno, per partecipare alla detonazione di nuove opere d'arte. Così un poco timorosa e riverente, mi accomodo nel sancta sanctorum del pittore Gianriccardo Piccoli (Milano, 1941) e inizia la nostra conversazione.
Mi piacerebbe sapere innanzitutto su cosa sta lavorando.
La poesia e il dramma. La speranza e il dolore. Sono i temi che ho esplorato durante la pandemia e che hanno dato origine a due serie di opere, una serie di tavolette di cera e un'altra di olii su carta. Le cere derivano da lavori che avevo realizzato qualche anno fa e che non mi piacevano più. Li ho smontati a caldo e ho iniziato un nuovo percorso creativo: ho coperto delle tavolette, precedentemente dipinte con delle terre, con la cera, vi ho inserito dei fili di rame e ho dato vita a dei paesaggi malinconici. In questi lavori credo che si esprima molto bene la componente intimista e lirica del mio lavoro. La seconda serie, invece, ha un afflato epico. Ha preso avvio da alcuni miei disegni da Böcklin, in cui la morte impietosa falcia le vite degli uomini. Nel passare all'olio, abbandonando la narrazione, ho tentato di condensare il dramma in un unico elemento, una croce di ossa, che ho immerso, e per certi versi celato, sotto una spessa coltre di materia pittorica scura. Ne sono nati degli incubi...
Mi sembra di intuire, dalla sua risposta, che il disegno può essere un punto di partenza per la realizzazione di un'opera, ma non lo è necessariamente. Ci direbbe qualcosa di più del suo rapporto con il disegno?
Ho sempre disegnato. Ci sono stati periodi in cui il disegno era addirittura la mia attività predominante. Mi ha aiutato in momenti di crisi, in cui non sapevo bene come portare avanti il mio discorso pittorico. Uso il disegno per annotare e trattenere situazioni affettive che mi riguardano, ho fatto degli interni di mia madre con il cane e ho ritratto paesaggi famigliari. Nel tempo, disegno dopo disegno, sono riuscito a costituire un vero e proprio serbatoio di memorie visive e sentimentali, di appunti sulla realtà, un diario del quotidiano che alimenta consciamente e inconsciamente la mia pittura.
A proposito di riferimenti visivi... nella mostra Il tempo ritrovato, tenutasi nel Palazzo del Credito Bergamasco di Bergamo, nel 2012, omaggia con una piccola serie di opere quattro grandi artisti del passato, El Greco, Vermeer, Courbet e Morandi. Come mai proprio questi pittori?
El Greco è un amore giovanile. Facevo il primo anno di accademia, quando mi sono imbattuto nella riproduzione della Veduta di Toledo, conservata al Metropolitan Museum di New York. Sembrava un quadro informale e rimasi irrimediabilmente affascinato dal suo essere fuori dal tempo. La mia passione per questo grande pittore di origini greche risiede essenzialmente in questo quadro. Vermeer invece è per me il prototipo di una pittura della luce che sa rapire e conquistare gli sguardi degli uomini, generazione dopo generazione. Di Courbet amo, in particolar modo, La Trota del Kunsthaus di Zurigo, un quadro di materia costruito attraverso un contrafforte di spatolate, un corpo a corpo con la forza fisica della pittura. In Morandi, un pittore figurativo dall'animo astratto, ammiro i paesaggi. Certi tagli e punti di osservazione, quell'inquietudine drammatica che trapela dal comporsi di case e alberi, la sua semplicità pensata...
Come si orienta a livello di colori? È indubbio che dai pittori sopra citati trae spunti differenti!
I colori vengono da sé. Parto con poco pigmento e, mano a mano, aggiungo. Rifuggo le teorie alla Goethe. Ho avuto tutto un periodo molto cupo vicino a Courbet, in cui mi sentivo sopraffatto dalla materia. Poi, quando sono riuscito a sottrarmi a questo dominio, i miei quadri sono diventati sempre più bianchi, meno fisici e più lirici. Oggi queste due spinte convivono in me e, io, come un auriga, tento di governarle.
Qual è il sentimento che la domina nel momento in cui si accinge a creare una nuova opera?
Mi sento confuso. Non ho mai un progetto iniziale, perché le mie idee si chiariscono solo quando inizio a intervenire sulla tela. L'opera si costruisce all'interno del lavoro, attraverso la casualità del fare, le imperfezioni, gli accanimenti, le modifiche e le critiche. Questa situazione di confusione iniziale mi dà una grande libertà d'azione, un giorno posso lavorare su un tema figurativo e quello dopo su un tema astratto senza soluzione di continuità. Non ho mai avuto il mito della coerenza, la coerenza, se c'è, è all'interno dell'opera.
Lei che ormai ha una decennale esperienza nel mondo dell'arte, cosa consiglia a un giovane esordiente?
Di installarsi in un ambiente fertile intellettualmente: il talento deve essere stimolato e nutrito.