L'esplosione che ha sbriciolato interi palazzi di Beirut non solo ha ucciso e devastato, ma anche ha cancellato, forse definitivamente, l'immagine che la città si portava dietro, non sempre meritatamente, da decenni.
Da quando, con una definizione orrenda, si parlava di essa - e del Libano - come della Svizzera d'Oriente, per descrivere un Paese opulento e sfrontatamente ricco, che però poggiava sulla precarietà di un equilibrio politico frutto di delicatissime quanto ardite alchimie strategiche che toccavano l'etnia, la religione, la finanza, i rapporti di forza in seno all'esercito.
''Chi, come me, ha avuto la fortuna di conoscere la Beirut quando ancora essa era nel pieno dei suoi anni d'oro - racconta un imprenditore italiano in Libano dagli anni '70 che preferisce l'anonimato - non può che portarsi dietro il ricordo di una città effervescente, culturalmente ricca e aperta anche alla sperimentazione. Una città, una capitale diventata crogiolo di iniziative anche economiche e finanziarie assolutamente introvabili in altre aree della regione''.
Cosa che, per decenni, ha costituito una calamita per imprenditori che arrivavano da ogni parte del mondo (in qualche modo attratti dalla vicinanza con il Golfo e le sue ricchezze energetiche), alcuni eticamente inappuntabili ed altri spregiudicati, che la scelsero fidando nella stabilità politica, necessaria per le loro spericolate speculazioni.
"La Beirut che conobbi - spiega il nostro interlocutore - era sorprendente, era effervescente come una flute di champagne ghiacciato, che apprezzi poco a poco con il gusto che si espande lentamente. Come quando, a conclusione di una lunga giornata di lavoro, feci una passeggiata sulla corniche, il lungomare di Beirut, vedendo decine e decine di giovani che ridevano, scherzavano, giocavano, che erano curiosi di parlare con me - straniero e per di più italiano - per chiedermi se era vero che l'Italia era il Paese più bello del mondo.
Chissà che fine hanno fatto quei ragazzi che, sorridendo - come era giusto che fosse per la loro età - e con tanta fame di sapere, fecero capannello intorno a me; chissà quanti di loro sono stati coinvolti nei conflitti interconfessionali che hanno insanguinato il Paese dei Cedri; chissà quanti di loro si sono ritrovati, senza nemmeno volerlo, su barricate diverse, in nome di un Dio che, fino a poco tempo prima, non importava che lingua parlasse, quale fosse il colore della sua pelle, onoravano con pensieri ed azioni che nulla avevano di politico".
Beirut, oggi sfregiata dall'esplosione, era un miracolo, protrattosi per molto tempo, e che poteva costituire un esempio o un laboratorio politico, come si usa dire ora. Ed invece è accaduto il contrario perché la fragile intesa su cui galleggiava è crollata quando uno dei cofirmatari decise che voleva di più.
Così, la città delle Luci che non si spegnevano mai, che viveva un ciclo continuo, perché i finanzieri inseguono non il ciclo del sole, ma quello delle Borse, è caduta nel baratro della guerra.
Una parola, ''guerra'', che in Libano è stata declinata in molti modi, da intestina a civile, a ''importata'' a ''per procura''. Non è detto che alla fine di un conflitto ci sia un vincitore chiaro, perché la vittoria non è mai immune da dolore, sofferenze e lutti.
In Libano ogni conflitto ha visto solo perdenti.
In fondo l'esplosione di poche ore fa conferma proprio questo. Accidentale, dolosa, attentato o casualità che sia stata, come la “livella” di Totò è stata democratica, perché ha calpestato le vite senza curarsi se ora sono al cospetto di Dio o Allah, se parteggiano per Hezbollah o guardano a Israele.
Una mano gigantesca che ha abbattuto tanti libanesi (ma anche tanti stranieri) come fossero soltanto soldatini di piombo, pedine di un gioco più grande di loro.