Abbiamo paura che accada di nuovo. In pochi mesi di chiusura in casa, nella prima parte dell’anno, abbiamo sofferto le distanze. Cioè lo stare separati. Abbiamo avvertito che penetravano nei nostri corpi le lame affilate del distacco. Ci siamo tormentati per le divisioni: qui un familiare, lì un altro; qui una collega, l’altra in quarantena; lui chiuso in casa, tu altrettanto ma nella tua dimora, senza possibilità di incontro tranne che con i messaggi WhatsApp.
A volte gli inciampi della vita capitano sui dettagli minimi: sono piccoli grumi di lettere a fare la grande differenza. Bastano poche manciate di simboli dell’alfabeto per far strambare la barca della tua vita.
Tre lettere
In questo caso, un semplice suono, dis-, composto di tre sole lettere, ha capovolto il mondo. Il tuo mondo, il mio mondo, quello di chiunque, in qualunque parte di quella piccola aiola che chiamiamo Terra. L’umanità è così: proprio nei momenti di grande trasformazione, come quelli della pandemia, percepisce più che mai il senso di identità che accomuna uomini e donne. Il cambiamento collettivo spinge a ritrovare gli elementi di somiglianza tra gli esseri umani, nonostante le distanze fisiche che li separano.
Ebbene, quella piccola particella dis- ci ha tolto dallo sguardo i punti di riferimento consolidati. Ha rovesciato tutto quello che si trovava sulla tavola, fosse stato ammonticchiato alla rinfusa o disposto con ordine sul piano. Dis- è un prefisso dalla storia lunga: il suo antenato è latino e si chiamava proprio come si chiama oggi in italiano quella triade di lettere, come accade con i nipoti che da tempo immemore prendono il nome dei nonni, quasi a voler serbare con quel nome parte del carattere o delle virtù degli avi.
Una calamita
Dis- premesso a un verbo o a un sostantivo trasforma il significato dei vocaboli, stravolgendone il senso. Dis- inverte la rotta. Dis- ha un valore magnetico, possiede la capacità di trasformare il polo negativo in positivo e viceversa. Dis- è una calamita che fa sobbalzare qualunque precedente strumento di misurazione dell’elettricità.
Dis- indica una separazione, come nel verbo disgiungere, quando l’intrecciarsi delle mani viene meno e le dita sembrano allontanarsi per sempre: è l’opposto del congiungere che è anche coniugazione di verbi oltre che di emozioni. I coniugi, che appaiono congiunti e anche coniugati, sono l’emblema dell’unione: non è un caso.
Discutere è scuotersi dentro
Dis- porta talvolta con sé un dissolvimento, come avviene nella parola discutere, che nel latino classico voleva dire ‘scuotere di qua e di là’, ‘dissipare’, ‘diradare’. Insomma, ‘disperdere’. La discussione è in primo luogo uno scuotimento, uno sperpero, un dilapidare di energie. Proprio scuotendo un concetto, però, lo si può esaminare per bene, osservandolo da più parti e analizzandone gli elementi costitutivi. Discutere è indagare, non accontentarsi della superficie, scandagliare le essenze, soppesare. La discussione è una dispersione vantaggiosa. Accade lo stesso al tuo discorrere: ti fa correre di qua e di là ma il discorso diventa la trama delle tue narrazioni e ti può rendere felice. Nel discorrere è importante il viaggio, il tragitto, il paesaggio che ammiri ad ogni tappa raggiunta di corsa: la meta, la destinazione finale, il traguardo restano un dettaglio, importante ma non ossessivamente importante per i runners della narrazione.
A testa in giù
Dis- ha infine il valore di capovolgimento. Con quel prefisso, il piacere diventa dispiacere. Il degno si trasforma in disdegno. Facendo tintinnare il dis-, puoi giocare a trasformare la soluzione in dissolutezza. Puoi partire da un astro e arrivare a un disastro.
Già, pensaci bene: il disastro è un astro capovolto. È per l’appunto una situazione nata sotto una cattiva stella, una sciagura che è capitata perché le congiunzioni del firmamento non erano propizie.
Ecco, quindi, il dis- della distanza porta in sé uno stare di sguincio, come un accordo che si frantuma a terra perché ti sfugge di mani. Nella distanza, nell’essere distanti, nel distare, scorgiamo in primo luogo lo stare, che è un essere situato, un essere nel qui-e-ora delle situazioni che ti ritrovi a vivere.
Nel distare scorgiamo uno stare a testa in giù, come quando appoggi il capo a terra, racchiuso tra le mani, e ti sollevi con le gambe, portandole verso il soffitto. È una posizione dello yoga, faticosa ma piacevole, ti consente punti di vista importanti sul luogo in cui ti trovi e anche su te stesso, se sai ben meditare. La distanza è però una posizione provvisoria, perché lo stare permanente è un essere costanti, cioè co-stanti. Costanza e distanza sono poli opposti sul piano dello stare. Se sei costante, sei insieme stabile e invariabile. Se sei distante, appari forzatamente instabile.
La provvisoria distanza
La distanza forzosa è provvisoria. Non vedi l’ora che termini. La distanza sociale speri che abbia una fine, oltre che un fine. Speri che possa deflagrare schiacciata dal peso della sua instabilità. Perché la stretta di mano conta. Perché la pacca sulla spalla vale un’intera amicizia. Perché l’abbraccio custodisce la pienezza delle relazioni.
Ecco, la distanza non è lontananza. Lontano è parente di lungo, cioè ben disposto nel segmento dell’esistenza individuale o nel vettore dell’esistenza collettiva. Lontano è anche parente di longevo, cioè qualcosa che ha un aevum, ovvero un’età, lunga. Il longevo vive a lungo. Vive più a lungo. Vive di più rispetto alla durata comune della vita umana.
Ebbene, se lontano può essere longevo, distante è per sua natura instabile, proprio perché lo stare, quello stare distanti, è uno stare obliquo e provvisorio, forgiato con potenza da quel dis-, quel pronome che sovverte il senso delle cose. Di qualunque cosa. Anche di te.