Che le donne di ogni tempo siano state bistrattate dalla storia è purtroppo cosa nota. Stuoli di straordinarie figure femminili reali e mitologiche (che delle prime sono sempre state il riflesso) hanno assistito impotenti all'innaturale trasformazione dei propri antichissimi saperi e delle proprie ancestrali competenze in poteri oscuri e minacciosi, che le culture patriarcali di ogni dove e di ogni quando hanno sentito l'urgenza di addomesticare e confinare, spesso semplicemente perché incapaci di comprenderne la portata e di accoglierne la ricchezza, perché ostinate nell'inseguire e nel mantenere un primato che forse non sarebbe stato neppure sensato cercare.
Tra le tante, non è diversa la sorte toccata alle Sirene. A partire dall'epoca medievale, queste affascinanti creature pisciformi sono divenute emblemi superbi di mistero e di sensualità; inafferrabili entità prive di parola, esse hanno incantato generazioni di naviganti con il miraggio delle loro vocalizzazioni magnetiche, dei loro irresistibili richiami, promesse di paradisi inesplorati. Complice il progressivo radicarsi del Cristianesimo, poi, nell'immaginario comune queste sfuggenti abitatrici degli abissi hanno preso il loro posto accanto ad altri mostri marini relegati nel biblico liquido primordiale, simboli - al pari di Leviathàn - di un caos indomito, di un'alterità inenarrabile; finché, spesso assimilate a icone pericolose e demoniache, hanno finito per venire narrate quali esseri privi di anima, costretti a scelte estreme pur di riconquistare una purezza che la cultura maschile dominante aveva deciso per loro irrinunciabile, ma il cui raggiungimento ne rappresentava la definitiva condanna, un crudele snaturarsi e smarrirsi, un irrimediabile perdersi.
Tuttavia, non era stato così anticamente. Le frequentissime raffigurazioni vascolari, i rilievi e le statue, i monili e le lanterne raccontavano volti di donna su corpi sferici di uccello, con grandi ali e zampe artigliate; divinità liminali che accompagnavano le anime nell'aldilà e custodivano la soglia del passaggio, esse comparivano immancabili nelle iscrizioni funerarie. Non c'era stato alcun bisogno che Omero riservasse dei versi alla loro descrizione, perché a tutti erano note le loro fattezze; al contrario, ciò su cui si concentra l'episodio dell'Odissea che le vede protagoniste è la loro incomparabile abilità canora, perché, prima che il tempo le costringesse ad adattarsi al modello stereotipico della seduttrice silenziosa e del tutto coerentemente con la loro originaria appartenenza alla famiglia celeste, le Sirene cantavano e i loro erano canti pieni di parole, capaci di articolare messaggi complessi, di veicolare significati potenti.
Certo, è ancora un'isola la loro dimora, approdo quanto mai arcano ed enigmatico, come è la terra di Circe, come è quella di Calipso. È una condizione muliebre deviata quella in cui vivono, che si colloca al di fuori di qualunque schema sociale condiviso, che ingenera sospetto e diffidenza, come è quella ostentata da Circe e incarnata da Calipso. Imperdonabile è la loro pretesa di comunicare direttamente agli uomini tutto ciò che il loro sguardo onnisciente da sempre scruta; non sono certo come le Muse che più pudiche osano rivolgersi direttamente solo alle orecchie di Zeus con l'unico intento di dilettarlo, poiché nulla egli ha da imparare da loro, mentre è il poeta - dunque, ancora un uomo - a farsi tramite presso i suoi simili degli insegnamenti che esse continuamente gli ispirano. Perché i poemi non sono esenti dai riverberi di una società che si era a poco a poco sostituita a quella più antica e matriarcale, che aveva scalzato la supremazia della potente Dea Madre e relegato il femmineo a materia incandescente da disciplinare, da contenere, da guardare con apprensione. Così, immediati si palesano nel racconto i dettagli di una minaccia che incombe sui malcapitati che si accostino alla loro landa: esse sono adagiate sopra un prato fiorito che nel mito è sempre un luogo insicuro, di inganni e agguati, di rapimenti e amori violenti (è in un contesto simile che Persefone viene rapita da Ade); tutt'intorno sono gli scheletri insepolti - morte massimamente infame! - di quanti hanno ingenuamente ceduto alle lusinghe delle loro ipnotizzanti cantilene, talmente potenti da riuscire a placare persino le onde del mare che in prossimità dell'isola si fanno obbedienti e divengono pesanti, opache, imperscrutabili.
Eppure, la sapienza di Omero e la grandezza dell'epica hanno saputo andare ben oltre, perché ancora una volta (come accade con Circe e Calipso) emerge forte la certezza che solo grazie all'incontro/scontro con queste presenze tanto sinistre e controverse l'eroe abbia avuto la possibilità di intraprendere un viaggio doloroso - non meno che necessario - dentro i recessi del proprio sé, di guardare in faccia le proprie ossessioni e i propri desideri, anche quelli più violenti, anche quelli più distruttivi, e di risalirne dopo aver conquistato una più profonda consapevolezza della propria identità.
Difficile dire quanto sia l'irresistibile richiamo delle Sirene ad attirare l'eroe e quanto egli si senta ostinatamente sospinto verso di loro dalla propria sete di conoscenza, dalla propria curiosità, dalla propria vanagloria; esse lo tengono legato al passato parlando ancora di lui come dell'eroe degli Achei che ha combattuto a Troia, egli smania dalla brama di sapere se davvero le sue imprese gli hanno regalato quella fama immortale che lo proietterebbe già nel tempo futuro successivo alla propria morte. Una sollecitazione potente, quasi stonata all'interno di un'opera che è un monumento stesso alla gloria imperitura di colui che ne è l'autore e del mondo di cui essa narra; un ammonimento quanto mai saggio, che di quella gloria imperitura diventa ragione autentica e piena giustificazione; un invito, affinché l'uomo impari a vivere bene la propria esistenza e a valutare con coraggio ciò per cui valga la pena sacrificarla; l'ennesima possibilità per Odisseo di imparare ciò che Achille prima di lui non aveva imparato:
Non lodarmi la morte, splendente Odisseo! Vorrei da bracciante servire un altro uomo, un uomo senza podere, uno che non ha molta roba, piuttosto che essere signore su tutte le ombre consunte.
(Odissea, XI vv. 488-491)