Ai tempi del nostro mondo consueto, Carl Brandon Strehlke, storico dell’arte dalla reputazione superlativa e uomo simpaticissimo, si era tolto lo sfizio di partecipare a centinaia di assembramenti.
Un viaggio in India a febbraio, poi una settimana a Londra. La calca fiammeggiante dell’oriente, le folle anglosassoni frenetiche fra autobus e metropolitane, subito prima del ritiro per pandemia.
“Noi siamo stati in quarantena due mesi e mezzo? Contrasto totale. Io venivo da civiltà basate sulle moltitudini e questo crea un rapporto diverso anche con il movimento. In India, per esempio, ero riuscito a fare le foto di un tempio cogliendo i due secondi senza nessuno, ma sono immagini completamente false. I templi indiani vanno vissuti con tanta gente dentro, tanta vita. Anche Firenze è sempre piena. Turisti ‘mordi e fuggi’ e anche visitatori che vogliono vedere la città sul serio, italiani, stranieri, fiorentini stessi”.
Adesso per scattare una foto non bisogna certo aspettare i due secondi senza nessuno e l’immagine del deserto monumentale non è più un artificio al servigio dell’estetica, ma completamente vera.
“Un periodo molto strano. Quando eravamo sempre chiusi in casa, ma anche ora. Però è un tempo che si può dedicare alla riflessione, al ripensamento su come vivere la città da parte dei residenti, dei dirigenti di Palazzo Vecchio, Prefettura, Questura. Dal mio punto di vista di storico dell’arte è stata l’occasione per riscoprire le strade e le piazze di Firenze, infatti all’inizio i musei non erano aperti e così la maggior parte delle chiese, in altre si poteva entrare solo per la preghiera”.
‘Imprigionato’, distante da archivi e biblioteche dove vige il silenzio del raccoglimento, ma non mancano i ‘seminari’ improvvisati con i colleghi, Strehlke si è trovato davanti la scelta del bambino piantato in asso dalla madre: mettersi a piangere o inventarsi un gioco e divertirsi.
Giotto, nientemeno, gli ha suggerito di optare per la seconda possibilità. No all’avvilimento, sì a un nuovo progetto di scrittura.
Così lo studioso ha deciso di votarsi all’artista trecentesco, idea che già gli era balenata, ma in attesa di realizzazione: qui ci racconta i suoi vagabondaggi giotteschi e oltre.
Giotto, un aspetto in particolare?
Mi interessavano due o tre lati molto specifici, cominciando dal padre Bondone e il quartiere di Firenze dove abitava. Bondone era registrato fra i soldati fiorentini che nel 1260 combatterono, perdendola, la famosa battaglia di Monteaperti contro i Senesi, Guelfi versus Ghibellini. Ho iniziato cercando la città del Duecento, provando a capire gli spazi nei quali era cresciuto il futuro genio. Quando si è cominciato a uscire un po’, sono andato a guardare i luoghi di Giotto. Il padre viveva nel sesto di San Pancrazio, vicino a una porta delle mura, dove c’era la chiesa omonima che non esiste più, al suo posto il Museo Marino Marini. Il nonno di Giotto stava verso Santa Reparata.
È difficile rintracciare la Firenze duecentesca?
Sì, non si vedono molti edifici del Duecento, oltre al Bargello. Mi solleticava proprio quello che si può scoprire di un’epoca così lontana. In tutte le città d’arte ci sono parecchi livelli, però ce n’è uno che domina. A Firenze è il Quattrocento, ma con una bella fetta di Trecento, secolo nel quale la città diventa ricca.
Il padre di Giotto era un fabbro, un artigiano benestante. Per Monteaperti avrà fabbricato spade, elmi. Facevo delle passeggiate alla ricerca della sua Firenze. Mi ha affascinato la storia di via della Vigna Nuova, lunga e stretta. La vigna era quella del convento di San Pancrazio, dove gli ordini monastici si succedevano.
Verso l’inizio del 1200 Firenze cominciava ad avere una popolazione molto forte e si decise di sviluppare la zona: una speculazione edilizia in piena regola. Ecco, mi è piaciuto immaginare come si viveva a quell’epoca: fra una casa e l’altra c’era solo un piccolo spazio dove facevano di tutto, poi dopo incendi e alluvioni, si è costruito in modo più sicuro. Qualcosa deve essere rimasto, mi dicevo, magari non le case umili, ma quelle più importanti.
Trovate?
Palazzo dei Mozzi su via de’ Bardi. Nell’Ottocento una principessa russa o forse tedesca, innamorata di Firenze, ha fatto togliere tutta la parte barocca e lo ha riportato all’aspetto medievale perciò è duecentesco per modo di dire, ma dà qualche idea. Molto affascinante.
Palazzo Spini in via Tornabuoni. C’è un affresco del Ghirlandaio nella chiesa di Santa Trinita che descrive com’era, però sempre duecento anni dopo la costruzione iniziale. Ma le pietre sono quelle originali.
Palazzo Frescobaldi, in piazza de’ Frescobaldi, almeno in una parte un po’ più autentico degli altri. Re Carlo II di Napoli è venuto a Firenze, circa nel 1279, ed è stato ospite lì. Nel giardino dei Frescobaldi, si legge nelle cronache, il che mi fa pensare che non fosse tutto edificato: una specie di campeggio reale.
Poi ho visto le abitazioni della famiglia Peruzzi, mecenati di Giotto, in borgo dei Greci e in piazza de’ Peruzzi che è curva perché c’era il teatro ed è rimasta un po’ com’era. Adoro vedere quelle pietre! Provengono dall’anfiteatro romano e dalle mura di Firenze. A un certo punto i Peruzzi hanno potuto far includere la chiesa di Santa Croce entro la cinta muraria e su via dei Banchi si vedono una serie di archi, dieci credo.
Ho adorato, pensando al mio progettino su Giotto, guardare un pezzo di muro che poteva essere stato visto da lui. Ogni tanto parlo di pietre con un amico muratore, che ha un’impresa di costruzione, competente, appassionato: le sue spiegazioni sulle capacità degli antichi sono lezioni magistrali.
Un bel giorno hanno riaperto le chiese.
Sono andato subito al Battistero, che amo. In piazza San Giovanni c’erano solamente tre soldati di guardia, un po’ annoiati, poverini. Entrando mi ha colpito una coppia con in mano la guida rossa del Touring. Una volta si vedeva gente con quella guida ed era un segno di civiltà, di interesse: mi è piaciuta questa maniera di andare per la città. Non mi sono soffermato sulle porte del Ghiberti che sono delle copie (le opere sono conservate al Museo dell’Opera del Duomo n.d.r.): ho osservato le pietre, i motivi delle decorazioni. E il Campanile di Giotto: mi chiedevo da dove vengono i marmi, ero veramente sedotto dalle pietre.
Seconda tappa: Santa Croce. Unico visitatore nell’enorme basilica. Stavano celebrando la messa e mi sono seduto in prima fila, nel posto assegnato dai guardiani che mi avevano pure misurato la febbre. Di solito non vado a messa inoltre, essendo protestante, non mi ricordo mai quando mi devo alzare o mettere in ginocchio, ma ero seduto davanti e ci tenevo a fare il bravo. Quindi il prete mi ha chiesto se volevo fare la comunione e, nota buffa, mi ha indicato il gel alcolico a disposizione. Poi ho potuto un po’ girare, molto emozionante la pala duecentesca che è una delle prime rappresentazioni della vita di San Francesco. Era collocata nella Cappella Bardi, affrescata da Giotto, adesso è alla destra dell’altare.
E i musei?
La mostra su Giovanna Garzoni nell’andito degli Angiolini di Palazzo Pitti. Fatta benissimo, dedicata a una grande artista. Io amo l’Asia ed è stato incantevole vedere i piatti orientali che la pittrice usava per i dipinti e che la curatrice Sheila Barker ha scovato nelle collezioni dei Medici.
Dopo sono tornato alla Galleria Palatina. Quelle sale vuote! Proprio vuote. I dipinti sono a chiacchierare fra di loro, tu entri e si zittiscono, come nel film Una notte al museo. Qualcuno mi ha detto: è come essere il granduca. Ma no: il granduca avrebbe avuto tutta la corte.
Questo senso della solitudine è curioso. In tempi normali è difficile capire dove vuoi posare gli occhi. La Palatina è fitta di opere, un quadro sopra l’altro, un quadro accanto all’altro. Quando ci sono i turisti, le tue scelte sono obbligate: se c’è qualcuno davanti a un’opera, tu ne guardi un’altra. In questo caso, invece, devi fare le scelte per conto tuo.
Io ero lì a girare, non dovevo studiare, e gli occhi hanno visto cose che non avevano visto prima, anche di dipinti famosissimi. Ho fatto le foto ai dettagli che mi hanno impressionato: la stupenda sciarpa della Madonna della Seggiola di Raffaello che non sembra di manifattura italiana. Chissà, forse palestinese? Gli occhi blu dell’uomo con i capelli biondastri ritratto dal Tiziano. Non si sa chi è, forse un inglese. La Maddalena che abbraccia il Cristo di Fra Bartolomeo. Mi è piaciuto essere solo, se vedevo un’altra persona dentro di me le chiedevo: perché sei qua? (ride).
A meno che non avesse in mano la guida rossa del Touring...
Sì, è vero. Una coppia, due amici. Incontrare persone attente e coinvolte, in questa circostanza speciale, è una gioia.
E ieri visita agli Uffizi.
Gli Uffizi erano vuoti perché di lunedì il museo è chiuso. Sono andato per registrare un video destinato al loro profilo Facebook per il quale producono filmati sulle opere. Il mio è su Giotto, Gentile da Fabriano e Beato Angelico. Volevano una persona madrelingua inglese.
È stato certo elettrizzante essere quasi solo con le opere d’arte, ma quello che mi sono goduto di più, dopo questi mesi, è stato lavorare un pomeriggio in un museo insieme con gli altri. È stato come se la vita stesse ricominciando.
E in quale miglior posto, se non di fronte a Giotto?