Se n’è andato, anzi tempo, anche Luis Sepúlveda, stroncato in Portogallo dal Coronavirus. La sua scomparsa ha oppresso di sincero dispiacere molti dei suoi fedeli lettori che ne hanno sofferto come per la perdita di un caro amico.
Per molti di noi, infatti, che lo abbiamo letto e seguito con passione nella sua costante battaglia per la libertà e per la difesa della salute della terra, lo scrittore cileno è stato un amico, mai incontrato di persona, ma sempre avvertito come vicino compagno di viaggio nei difficili percorsi compiuti per non smarrire ideali e valori.
Con le esperienze di vita, trasfuse nella sua scrittura, ci ha, qualche volta, perfino aiutato a capire tanti perché della nostra esistenza. E lo ha fatto coniugando la denuncia anche cruda con il rifugio nel fiabesco che avvolge i suoi romanzi.
Non ce l’ha fatta a superare questo maledetto male, forse perché il suo fisico era segnato dalle prigionie e dalle torture con le quali ha pagato la sua ribellione alla dittatura feroce del regime di Pinochet, che non è riuscito ad annientarlo nel destino dei desaparecidos solo per l’intervento di Amnesty International.
Di lui ci restano indimenticabili opere. Penso innanzitutto all’appassionante romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore dedicato a Chico Mendes, che veniva trucidato, come lo scrittore confessa in premessa, “da una banda di assassini armati, pagati da criminali ancora peggiori, che hanno abiti ben tagliati, unghie curate e dicono di agire in nome del progresso” proprio nel momento in cui gli veniva conferito il Premio Tigre Juan a Oviedo.
Ma penso anche a Il mondo alla fine del mondo, stupefacente testimonianza del suo impegno per Greenpeace, che narra di una vera e propria rivolta della natura che si conclude, e conclude il romanzo, con un attacco di balene e delfini al Nishin Maru, grande baleniera che pesca illegalmente nei mari australi facendo strage di cetacei. Val la pena di trascriverlo questo trionfo mozzafiato della natura.
Poi, obbedendo a un richiamo che nessun altro uomo ha mai sentito, un richiamo così acuto che lacerava i timpani, trenta, cinquanta, cento, una miriade di balene e di delfini nuotarono rapidi fin quasi a toccare la costa, per poi far ritorno ancor più velocemente e sbattere la testa contro la nave. Senza badare al fatto che a ogni carica a molti di loro morivano con le teste fracassate, i cetacei ripeterono gli attacchi, finché il Nishin Maru, spinto contro la costa, minacciò di incagliarsi.
E, naturalmente, non si può non ricordare la storia della gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, la sognante e commovente fiaba che ha introdotto al mondo narrativo di Sepúlveda la stragrande maggioranza dei suoi fedeli lettori.
Ma forse uno dei suoi più felici e toccanti racconti è Ciao, vecchio, contenuto ne La frontiera scomparsa che ha un impronta direttamente autobiografica e ricorda l’intenso e sofferto rapporto col padre.
Lo scrittore si trova insieme ad altri quattro prigionieri politici in una sala dell’aeroporto di Santiago, guardati a vista da un plotone di soldati e varie guardie in attesa di partire con un aereo che li porterà prigionieri in terre lontane. La sala è dotata di vetri solarizzati per cui dall’esterno non si può guardarvi dentro e col sole che vi batte sopra non è possibile nemmeno a chi è all’interno guardare cosa accade fuori. Improvvisamente una nuvola oscura momentaneamente il sole e i prigionieri possono per qualche minuto vedere quello che accade all’esterno. Fuori ci sono in attesa degli accadimenti i parenti dei prigionieri, animati dalla vana speranza di un ultimo saluto. Luis scorge il vecchio padre, che pur non potendo vederlo sa che il figlio è lì e alza il pugno destro chiuso in segno di saluto. Sta lì, “un vecchietto mezzo pelato – scrive Sepúlveda - impeccabilmente vestito con un completo blu e un fazzoletto bianco che gli penzola, stile guappo, dal taschino della giacca. Tiene il pugno alzato, come se avesse in mano le redini di un cavallo troppo alto… Il pugno stretto, arrogante, insolente e ingenuo, come se fosse alla festa del Primo Maggio”.
E col pensiero parla al padre che lo sta salutando e vorrebbe dirgli che con lui un saluto definitivo c’è già stato tanti anni prima in occasione di un ultimo abbraccio ai tempi di quando era ragazzino, un abbraccio definitivo che aveva suggellato un divario incolmabile, quasi un addio. Ma adesso, in manette, guardandolo non visto, separato dalla barriera di quei cristalli, vorrebbe rinnegare quell’antico addio avvertendo di nuovo l’impellente e irrealizzabile bisogno di poterlo riabbracciare e di gridare il suo dolore “di cucciolo ferito” per non potergli dire: “Ciao vecchio, ciao vecchio mio, ciao caro vecchio, ciao papà”.
Lo scrittore è consapevole, in questo momento, che col padre non ci sono state mai molte parole e confessa a sé stesso che ha imparato proprio da lui che “le amicizie si costruiscono ben strette con la malta degli intimi dolori che non hanno bisogno di parole”. Ma adesso vorrebbe una parola chiarificatrice e conciliante proprio nel momento in cui la comunicazione è impossibile.
Leggendo Sepúlveda, ancora una volta si capisce quanto sia alto il prezzo della libertà e della sincerità; di quanto sia spesso impari la lotta con tiranni “che hanno abiti ben tagliati, unghie curate e dicono di agire in nome del progresso”; di quanto la natura sia schiava della loro tracotanza; di quanto preziosa sia la semplicità e la spontaneità di comportamenti e di costumi”.
Ma può capitare a qualche suo lettore di superare rimpianti personali per parole dette o taciute, per comportamenti tenuti o mancati con amici e con parenti e di smorzare, leggendo pagine come queste, l’inquietudine di alcune personali memorie.
Ed è per questo che molti di noi, suoi tenaci ammiratori, abbiamo trovato in lui oltre che uno scrittore avvincente e coinvolgente, un amico affidabile e prezioso.