Il nostro modo di ragionare e comunicare è disseminato di metafore, anche se molte sono di uso così comune che nemmeno ci accorgiamo della loro esistenza. Tanto per dire: “disseminato” è una metafora. Il nostro è un linguaggio metaforico e prenderne consapevolezza è un passaggio fondamentale per capire certi meccanismi. A cominciare da quelli della comunicazione politica: quella buona e quella cattiva. Quest’ultima consiste nelle più diverse forme di manipolazione e intossicazione del consenso ed è il nemico dal quale più devono guardarsi oggi le forze progressiste (…).
Il fatto che, nel discorso pubblico, prevalga una metafora anziché un’altra, un sistema metaforico piuttosto che un altro, ha conseguenze tanto concrete quanto, ancora, poco comprese.”(Gianrico Carofiglio, Prefazione a Non pensare all’elefante di George Lakoff)
Stiamo vivendo un periodo storico senza precedenti da cui nessuno può ritenersi escluso. Abbiamo subìto una restrizione delle libertà personali così radicale da paralizzare letteralmente il nostro Paese; ma l’obiettivo da raggiungere è stato ben chiaro a ciascuno di noi: proteggere e salvaguardare la salute di tutti limitando l’estensione del contagio.
È sembrata l’unica strada percorribile da quando ci si è resi conto che era ormai troppo tardi per prepararsi in modo adeguato a fronteggiare una emergenza sanitaria come la pandemia. Forse, se si fossero prese più seriamente le avvisaglie che da anni, poi da mesi e infine da settimane segnalavano l’imminenza di una crisi sanitaria globale, non saremmo dovuti arrivare a questo punto.
Ma ora ci troviamo qui, e il risultato delle scelte effettuate in precedenza ci ha condotto in questo tunnel che stiamo attraversando tutti insieme, unendo pazienza, sacrificio, speranza.
Tuttavia, alcune riflessioni critiche su come è stato gestito l’isolamento è doveroso farle, sebbene possano apparire quasi ‘eretiche’ nel contesto immaginifico in cui ci siamo ritrovati, nostro malgrado.
Di fronte a una situazione di pericolo, il vero rischio è di essere trattati come bambini
Uno dei messaggi impliciti del periodo di isolamento che abbiamo vissuto è stato: “Voi fate i bravi e ubbidite alle regole; al resto ci pensiamo noi”.
Secondo George Lakoff, professore di linguistica cognitiva a Berkeley con una particolare attenzione al linguaggio metaforico utilizzato dai politici, chi ci governa predilige il codice del padre severo se è dell’area conservatrice, il codice del genitore premuroso se è dell’area progressista.
Sono modelli politici che trovano le loro fondamenta nei presupposti e nelle convinzioni culturali con cui siamo stati cresciuti e che nutrono il nostro pensiero e le nostre scelte, spesso in modo del tutto inconsapevole.
Questo tipo di codice linguistico influenza profondamente chi lo ascolta: mentre quello del genitore premuroso - facendo leva sul sentimento dell’amore incondizionato - richiama il prendersi cura dei propri figli e l’educarli all’inclusione del prossimo, il codice del padre severo - facendo leva sulla paura di essere puniti e rifiutati - richiama valori legati al senso del dovere, all’onore e all’ubbidienza.
Come ricorda lo stesso Lakoff: “Il modello del padre severo si fonda su una serie di presupposti: il mondo è un posto pericoloso e lo sarà sempre, perché lì fuori c’è il male. Il mondo è un posto difficile anche perché è competitivo. Ci saranno sempre vincitori e vinti. Esistono un bene assoluto e un male assoluto.” Spetta al padre forte e severo educare i figli a distinguere il bene dal male, sottomettendoli alla propria autorità con l’obbedienza, attraverso disciplina e dure punizioni.
Questo modello politico trova immediato riscontro nel neoliberismo, dove chi ha successo va premiato, chi ha fallito – o è povero, o in stato di bisogno – va deprecato o, quanto meno, non va aiutato. Il merito è l’indice che misura l’approvazione sociale e il potere è fondato sulla meritocrazia, come dice la parola stessa. I tagli alla spesa pubblica – al servizio sanitario, all’assistenza alle fasce più deboli, alla cultura – trovano in questo sistema di pensiero una loro coerente legittimità morale. Nulla di nuovo rispetto ai tagli alle spese sanitarie e assistenziali che in questi decenni si sono sommati anno dopo anno nei ricchi paesi occidentali.
Chi ha affrontato la crisi legata all’epidemia da COVID-19 in posizioni di potere, ha scelto in maniera decisa e quasi esclusiva il codice del padre severo, facendo leva sulla paura e il pericolo del contagio e utilizzando la minaccia di dure punizioni come strumento di governo delle persone.
Raramente si è lasciato spazio all’umiltà e al codice del genitore premuroso, più inclusivo e accogliente. Se proprio dovevamo essere trattati come bambini, forse questo codice sarebbe stato più appropriato, aiutando l’inclusione e il senso di protezione in un periodo in cui ci si sente vulnerabili e bisognosi di essere aiutati. I genitori premurosi non hanno bisogno di dimostrare di essere i migliori né i più efficaci nel risolvere i problemi – cosa peraltro non possibile nel contesto che stiamo vivendo. Basta loro mostrare di ‘esserci’ nei momenti in cui i propri figli hanno bisogno di loro, per aiutarli e confortarli, nessuno escluso. Il prendersi cura implica empatia, responsabilità nei confronti non solo degli altri ma anche di sé stessi, garantendo il benessere proprio e di chi è in stato di bisogno, includendo tutti i livelli sociali.
Non è un caso che le fasce più deboli, come gli anziani nelle case di riposo, risultino essere non solo le più colpite dall’epidemia, ma anche quelle più abbandonate a sé stesse.
Per un nuovo modo di pensare, occorre un nuovo modo di parlare
La necessità di evitare contatti ravvicinati con altre persone non implica necessariamente una omologazione dei messaggi veicolati dai mass-media; ogni giorno sono rimbalzate le parole dei vari rappresentanti politici – nazionali, regionali, locali. Ciò che veniva detto alla radio del mattino da ciascuno di loro, veniva ripetuto nei titoli dei diversi giornali online durante il giorno e nelle notizie delle varie trasmissioni televisive della sera, in un rimbalzo incessante delle stesse parole ripetute in maniera ossessiva. E la scelta delle parole usate non era casuale.
Implicitamente – e a volte anche esplicitamente – era d’obbligo per tutti non contraddire chi, durante l’emergenza, decideva e gestiva le scelte fatte: dagli esperti ai vari delegati, ciò che veniva dichiarato assumeva lo status di verità, per quanto fosse evidente che l’unica cosa certa era la totale incertezza e l’unico dato di conoscenza fosse la mancanza di conoscenza su quanto stesse accadendo e quali fossero le scelte appropriate da effettuare.
La ripetizione continua di alcune parole, usate come un mantra, ha favorito questa trasformazione, cancellando i dubbi e le incertezze, per lasciare il posto solo a pochi e facili slogan e alla ritualità dello snocciolamento di pochi numeri, forniti senza la contestualizzazione necessaria alla loro comprensibilità.
Come se non bastasse, si è fatto ricorso in maniera sconsiderata all’uso di metafore di guerra - dalle trincee ai nemici da sconfiggere, dai lanciafiamme alla bomba atomica, dagli eroi ai martiri – il linguaggio utilizzato ha scavato un fossato dentro ai nostri cuori e alle nostre menti, creando un divario tra i sentimenti di paura e avversione che queste parole accendono, e una visione più pacata e trasversale che questi tempi richiederebbero, in cui non ci sono né vincitori né vinti, ma solo e sempre esseri umani che affrontano tutti lo stesso problema in ogni parte del mondo.
Questo linguaggio ha annichilito il pensiero e annientato la ragionevolezza. Le bandiere esposte alle finestre, gli inni patriottici, il richiamo alla Nazione sono stati utilizzati come elemento di identificazione, creando una risposta univoca a un problema globale che riguarda tutti, a prescindere dall’appartenenza a una nazione piuttosto che a un’altra.
Per un nuovo modo di pensare, occorre un nuovo modo di parlare, in cui le metafore utilizzate richiamino al prendersi cura, alla responsabilità personale, all’inclusione.
Quando le regole per raggiungere uno scopo diventano il fine
Non ho capito perché non si potesse camminare da soli su strade deserte, perché fossero vietate le passeggiate per i sentieri o nei boschi, perché il lungomare fosse recintato e la spiaggia, il mare o la montagna fossero luoghi a cui non potersi avvicinare.
Non ho capito il costo sostenuto per dei droni che setacciavano questi luoghi, e per gli elicotteri che nei giorni festivi e prefestivi hanno girato ininterrottamente sui nostri tetti per scovare chi osasse inoltrarsi in strade deserte o in sentieri.
Non ho capito l’enfasi utilizzata da giornali nazionali in articoli dedicati a chi era stato multato perché trovato dalle forze dell’ordine mentre raccoglieva asparagi nei campi.
Non ho capito il continuo passare di polizia, carabinieri, vigili per le stesse strade tutti i giorni.
Non ho capito la richiesta di alcuni sindaci di denunciare casi sospetti di auto parcheggiate con targhe di altre città e di finestre di case che venivano riaperte dopo un periodo di chiusura.
Non ho capito quale sia stato lo scopo di tutto questo. Evitare di contagiarsi, per sé stessi e per gli altri. Ma come possiamo contagiarci se ci muoviamo da soli in ambienti deserti?
Evidentemente lo scopo non è stato più aiutarci a evitare il contagio, ma incutere timore, paura: non del virus, ma dei controlli. Ed essere additati come nemici da chi, invece, a quelle regole ubbidiva. Non la paura del contagio, ma la paura dei controlli ci ha reso bambini timorosi.
Si tratta del fenomeno “dell’inversione mezzi-fini”, di cui ha parlato, quasi un secolo fa, il sociologo americano Robert Merton, da lui studiato nella burocrazia: le norme che regolano il raggiungimento dello scopo dell’organizzazione rischiano facilmente di diventare ‘sacre’, ponendole al primo posto nella scala dei valori e spiazzando i fini, che perdono il loro significato di riferimento per i comportamenti da seguire.
Non credo che trattare le persone come bambini sia lo scopo, ma nemmeno il mezzo. Forse rende più facile l’addomesticamento del pensiero, della ragionevolezza e dei comportamenti. Ma non ritengo che un popolo di adulti trasformati in bambini possa far fronte con serietà, responsabilità e amorevolezza ai bisogni di cura – non solo sanitaria, ma anche dell’anima – che il tempo che stiamo vivendo richiede.