Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria.
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto V)
27 marzo 2020
Ieri sera, recluso nel mio garage da un incubo al di là dell’immaginabile, stavo lucidando la mia vecchia moto, una BMW Gs 80 dell’83, uguale a quella che avevo a vent’anni quando con il mio amico Sauro M. sognavamo la Parigi-Dakar, e così, ora che non posso vederlo perché siamo isolati da una pandemia che ha sconvolto il mondo, ripenso a lui e alla nostra gioventù, agli anni della nostra comune passione per i motori e per l’Avventura.
Perché a noi, fin da ragazzini, era sempre piaciuto guidare. Non avremmo saputo spiegarcelo, forse perché guidare un mezzo, anche modesto, è pur sempre la cosa più vicina alla libertà che riuscissimo ad immaginare, puoi farti un caffè quando vuoi, tirare giù il finestrino e sentire l’aria che ti arruffa i capelli, con gli odori sempre diversi della strada e immaginare di proseguire il viaggio, all’infinito, fino ai confini del mondo, fino alla fine della strada. “Non sarà mai troppo triste un lavoro che mi permetta di guidare” scrivevo da bambino a scuola, quando il componimento assegnato dalla maestra era: Quale lavoro ti piacerebbe fare da grande?
Perché la nostra generazione è nata con i motori nel sangue, prima, a quattordici o quindici anni, con picareschi ciclomotori truccati fino all’inverosimile, con carburatori Bing che risucchiavano la miscela al 2% dai serbatoi con un gemito e la trasformavano in velocità pazzesche per quei trabiccoli.
Poi con moto vere e proprie, a due o quattro tempi, da cross o da strada KTM, Honda, Kawasaki e le strane, pesanti ma formidabili BMW che o le amavi subito o le odiavi per sempre.
E le dolci ragazze nel sellino posteriore, avvinghiate, e tu che davi gas per sentirtele stringere forte addosso anche se loro, e questo io e Sauro non eravamo mai riusciti a spiegarcelo, non avevano mai paura anzi! Ti incitavano a correre più forte!
E infatti, inesorabilmente, qualcuno l’asfalto se lo portava via... in quegli anni in cui nessuno si sognava lontanamente di mettere il casco, perché non ti faceva sentire il vento tra i capelli e il sole sul viso, e perché, dopo vere e proprie stragi, divenne obbligatorio molti anni dopo.
E che freddo in inverno a Bologna, nelle corse lungo i viali o per risalire le valli dell’Appennino fino ad uscire dalla nebbia, nel sole caldo, per sentire il profumo della Toscana con gli ulivi e i cipressi, oltre il Crinale.
Infine, a diciotto anni, le auto, chi amava le corse e la velocità ammirava le Alfa Romeo o le Porsche, chi amava l’avventura e sognava orizzonti lontani aveva solo lei nel cuore, la Regina del deserto: la mitica Land Rover.
Erano anni difficili, la politica, il terrorismo e l’eroina, che faceva molte più vittime dell’asfalto.
Erano gli anni del “pensiero debole”, tanti i dubbi e le incertezze, in filosofia, letteratura, arte, io ero inquieto, leggevo Nietzsche e i miti della “lost generation” come Hemingway e Steinbeck, ma i motori, che obbedivano ai ferrei, immutabili principi della meccanica, per un tipo pragmatico come Sauro, costituivano una confortante certezza.
La legge dei motori, infatti, non lasciava spazio a dubbi esistenziali: se ben preparato, un motore non ti molla ma se sbagli miscela di carburante, se non registri a puntino quella valvola o se non stringi bene quel bullone, si rompe e ti lascia a piedi, magari sulla dirittura d’arrivo o peggio, in mezzo al deserto, perché quelli erano anche gli anni ruggenti dei grandi raid automobilistici, della Parigi-Dakar del povero Thierry Sabine, del Camel Trophy, del Rally dei Faraoni, della Parigi-Pechino che per poco non costò la vita ad Ambrogio Fogar.
Insomma, allora era possibile vivere quel connubio che quelli come noi amavano più di ogni altra cosa: guidare mezzi eccezionali e partecipare ad una grande avventura in terre libere e selvagge e tutto si concretizzava come per miracolo nel grande circo mediatico della Parigi-Dakar, la più famosa e la più pericolosa di quelle competizioni.
Tutti quelli della mia generazione ricordano le incredibili riprese dall’elicottero delle folli corse sulle dune a sfiorare i 200 all'ora di Gaston Rahier o di Cyril Neveu con le loro moto che sembravano volare sulla sabbia rossa dell’Hoggar, e gli esaltanti arrivi sulla spiaggia di Dakar, nel Senegal del presidente poeta Leopold Senghor! Purtroppo, ogni sogno finisce troppo presto e in effetti, quelli, erano proprio gli ultimi anni sereni per chi, come me e Sauro, amava i viaggi e l’avventura per eccellenza che esigeva gli orizzonti infiniti del Sahara.
Infatti, nei primi anni della Parigi-Dakar, nel mondo islamico, specie in Nordafrica, ti sentivi dire da tutti: Italia: una razza una faccia! Oppure: Italia Juventus! Italia Milan! E così via perché gli stranieri, e gli italiani soprattutto, erano amatissimi, magari proprio per la loro simpatia, per quella fama di grandi calciatori, per gli spaghetti, la pizza o in realtà perché, a parte qualche recente vampata imperialista, noi, la Storia, la abbiamo sempre vissuta da conquistati, come loro, e non da conquistatori come i francesi gli inglesi o gli yankee.
Di lì a qualche anno però sarebbe caduto il muro di Berlino e con la dissoluzione dell'Unione Sovietica sarebbero aumentate le turbolenze in Asia centrale e la via della seta, tenuta aperta per secoli, si sarebbe chiusa.
Intanto nasceva e avviluppava tutto il mondo nelle sue maglie Internet che con la sua grancassa globale ha dato voce e visibilità al malcontento che ribolliva, col pretesto della questione palestinese, in alcune frange estreme del mondo islamico e che poi esplose clamorosamente con l’11 settembre.
Cosicché, nel mondo, si è ricominciato, dopo sette secoli, a parlare di crociate e di guerra Santa e la “Follia” si è ripresa il palcoscenico della Storia attraverso vie che neppure i più spregiudicati autori di fantapolitica avrebbero immaginato. E con l’inasprirsi dei rapporti con l’Islam e i primi atti terroristici ai danni di viaggiatori europei in Mauritania… addio Sahara! Ma negli anni ‘80 del secolo scorso ancora si poteva viaggiare in relativa tranquillità! I rischi c'erano ma erano quelli insiti nell’avventura, nella guida fuoristrada, nella navigazione terrestre con i soli ausili della bussola e della carta geografica, in quegli anni senza GPS, computer di bordo e cellulari.
Io in quell’anno ero purtroppo impegnato con la tesi di laurea, ma Sauro era libero e siccome non era certo uno di quelli che si accontentano di sognarla seduti davanti alla televisione l'Avventura, ma se la va a cercare, in quell’86, con due amici, ebbe un’idea geniale per scovare i fondi necessari per partecipare alla Parigi-Dakar, perché per andare a una competizione come quella, sperando se non di vincerla almeno di uscirne vivi, di soldi ne servivano e tanti!
Quei furbacchioni ebbero quindi una grande idea: non fecero altro che aggiungere a quel formidabile cocktail, guida ed avventura, un altro piccolo ma fondamentale ingrediente: la solidarietà internazionale. Così proposta la “Spedizione Dune” come l’avevano chiamata, aveva le giuste credenziali: non era il solito divertissement di uno sparuto gruppo di dilettanti destinato spesso letteralmente a perdersi nel deserto e di cui si trovano sovente, ancora oggi, nelle piste sahariane, resti meccanici ed umani assai eloquenti, ma una vera e propria spedizione con intenti sportivi e umanitari. E ad un impresa così proposta non tardarono ad arrivare gli sponsor, principale problema di ogni organizzazione di quel tipo: si fece avanti una nota casa farmaceutica emiliana, che fornì anche farmaci e attrezzature mediche, il Motorshow di Bologna, una delle più importanti manifestazioni fieristiche internazionali sul mondo dei motori particolarmente in auge in quegli anni e quindi con molto denaro a disposizione, alcune ditte grandi e piccole, addirittura l’UNICEF, perché signori: si trattava di aiutare le popolazioni dell’Africa subsahariana afflitte da decennali siccità, carestie ed endemica povertà! E nessuno si tirava indietro nella corsa alla solidarietà: si faceva bella figura, ci si procurava ottima pubblicità e soprattutto si detraeva tutto dalle tasse! La Spedizione Dune quindi si inseriva in un più ampio programma organizzato dal Comune di Bologna con l’allora sindaco Renzo Imbeni, denominato “Acqua per il Mali”.
Insomma si raccolsero un bel po’ di soldi e così Sauro e i suoi amici prepararono due fuoristrada, una Range Rover ed una Toyota Land Cruiser, veri e propri dromedari a quattro ruote motrici, altrettanto affidabili della mitica “nave del deserto a zoccoli e gobba”, tanto che in Africa e in Medio Oriente hanno sostituito in molti casi quegli animali e i beduini le agghindano proprio come fossero le loro bestie: nappi colorati, rosari per preghiera, svariati ninnoli portafortuna come gli occhi di Allah appesi allo specchietto retrovisore ed in caso si debbano attraversare piste pericolose, come in Yemen, anche l’immancabile Kalashnikov appoggiato sul cruscotto.
Le jeep erano veramente stipate di farmaci quando partirono nel maggio dell’86, esattamente il primo maggio.
Non ricordo la ragione per cui la spedizione partì in primavera ma sicuramente, almeno per un motivo, non fu una saggia decisione.
Infatti, dalla Tunisia all'Algeria poi in Niger fino al Chad la temperatura saliva progressivamente e vertiginosamente rendendo durissimo quel viaggio entusiasmante. Sauro mi raccontava che di giorno, nel Teneré, si toccavano punte di quasi 50 gradi e se si doveva viaggiare in certi orari, era meglio chiudere i finestrini e fare andare al massimo il riscaldamento, si avete capito bene, il riscaldamento perché l’aria che usciva dai bocchettoni era pur sempre più fresca di quella esterna che era come quella che alitava dalla bocca di un altoforno e al tempo stesso aiutava ad abbassare la temperatura del motore tenendo conto che ad auto spente, si sentiva ancora per parecchio tempo bollire l’acqua dei radiatori. Ovviamente i veicoli di allora erano sprovvisti di aria condizionata così come di tutti quegli inutili optional elettronici che di lì a poco avrebbero stipato i futuri modelli, e ciò aveva innegabili vantaggi in quelle condizioni estreme: tutto quello che non c’è non si può rompere! E non è facile trovare un elettrauto nel Grande Erg occidentale o nei Tassili.
Arrivati in Mali consegnarono al sindaco di Bamako i soldi del progetto di Bologna e distribuirono i farmaci agli ospedali dei dintorni.
Portarono a termine la Parigi-Dakar con la esaltante corsa sulla spiaggia che ogni anno inchiodava allo schermo milioni di spettatori in tutto il mondo e Sauro ed i suoi amici vissero il loro momento di gloria, non certo tra i primi ma nemmeno tra gli ultimi.
Ma intanto l’Africa con il suo fascino indescrivibile li aveva conquistati. Tramonto dopo tramonto, bivacco dopo bivacco, quella luce quei colori, i mille profumi del vento, attraverso i sensi, erano entrati loro nel sangue. Ora come lasciarla, dopo averla appena trovata, quella terra che qualcuno aveva definito il più grande monumento che la natura ha eretto a se stessa? Fatto sta che invece di risalire il Sahara, dal Mali, si diressero a Sud. Le distanze erano immense ma lentamente il paesaggio era cambiato, il deserto di sabbia, le grandi barcane in continuo impercettibile movimento con il loro pennacchio di sabbia sollevato dal vento sulla cima, le avevano lasciate indietro ormai da centinaia di miglia, ora dominava il paesaggio una sorta di pietrosa savana spinosa con rari grandi ombrelli di acacie con antilopi protese a brucarne i magri germogli.
Miglia dopo miglia gli alberi isolati cominciarono a formare boschetti poi, sempre più verde, più vegetazione. Alla fine, giunsero in Costa d’Avorio con la sua foresta, chilometri e chilometri di tronchi colossali in un intreccio di liane e rampicanti di un verde così intenso che la retina lo legge come blu, un sottobosco micidiale infestato da ogni sorta di creature che volano, strisciano o camminano con mille, otto, sei, quattro o due zampe e come sempre queste ultime sono di gran lunga le più pericolose. Dopo aver faticosamente superato quella giungla primordiale, una delle ultime grandi foreste primarie che un tempo ricoprivano tutte le terre emerse non invase dai ghiacci o dai deserti, giunsero ad Abidjan, la capitale.
Ormai erano in viaggio da mesi e avevano percorso circa novemila chilometri e di notte avevano sempre dormito in tenda, dentro o sopra il portapacchi delle jeep, senza alcun problema.
Sauro intanto aveva scoperto un’altra grande passione che lo accompagnerà nel resto della sua vita: la fotografia.
Aveva portato con sé una vecchia Rolleiflex del 1960 che gli aveva regalato suo padre, una straordinaria 6x6mm con mirino a pozzetto con cui inizialmente fotografava la sua Parigi-Dakar, ma poi, poco a poco, il suo occhio si distolse dalle moto e dalle auto per fissare i volti struggenti e meravigliosi che li guardavano passare lungo le piste, e gli animali, i paesaggi africani.
Ora Sauro è un fotografo. Non uno di quelli grandi e famosi, ma un fotografo che vive felice del proprio lavoro. Non ha mai smesso di viaggiare e anche adesso, quando un paesaggio o un volto lo colpiscono particolarmente, posa la sua nuova fotocamera digitale a lettura immediata, e riprende in mano la sua vecchia favolosa Rolleiflex che porta sempre con sé. Lentamente, con calma, studia l’inquadratura, e scatta una foto, una soltanto, e sarà solo molto tempo dopo, a casa, nel buio della sua camera oscura, che scoprirà se, ancora una volta, ha saputo catturare l’incanto di un attimo nella magia di un’immagine.