«Credo che l’unica ricchezza dell’uomo sia l’uomo stesso. Io cerco di preservare soltanto una piccola parte di questo immenso patrimonio fatto di gesti, sguardi, attimi. Voglio che le mie fotografie si comportino così, la priorità va all’emozione; poi subito dopo viene il contenuto… » scrive Sergio Pessolano, fotografo romano, classe 1956.
Fin dagli anni ‘70, ancora giovane studente di Medicina, ha documentato le manifestazioni di protesta di quegli “anni di piombo” con i suoi appassionati reportage, per giungere nella sua maturità a dedicarsi esclusivamente al reportage etnico e geografico come sottolinea il suo ultimo libro Frammenti di un mondo , ed. La Camera Verde. Ha viaggiato per più di trenta paesi per effettuare i suoi scatti: le sue immagini ritraggono soprattutto facce, occhi, sguardi, volti rugosi, visi luminosi, qualche volta scoprendo il colore, qualche altra dipingendo la bellezza delle culture più variopinte del mondo. Senza dubbio il viaggio contraddistingue la sua opera e di certo appartiene alla sua intrinseca natura.
I tuoi primi anni da fotografo sembrano legati alla passione politica: cosa ricordi delle piazze di quegli anni? A chi o a che cosa rivolgevi il tuo obiettivo?
Ai volti, agli sguardi, alle espressioni, alle passioni, agli istanti, all’intimità… Quei primi anni possono sembrare legati alla passione politica, in realtà mi sentivo solo un testimone, non avendo mai avvertito il bisogno di parteggiare per alcuna fazione politica. Ciò che mi interessava era semplicemente cercare di andare oltre perché, secondo il mio punto di vista, la fede politica, in ambito strettamente fotogiornalistico, può rappresentare una limitazione: come avere un filtro davanti agli occhi… Sentivo di non potermi dedicare serenamente al fotogiornalismo e abbracciare contemporaneamente qualche credo politico: si deve poter vedere tutto e non soltanto ciò che ci gratifica. Tutto quello che ho potuto guardare e osservare è perché ho sempre cercato di evitare qualsiasi giudizio e sentimento di parte… Delle piazze di quegli anni ricordo vividamente l’attesa, gli sguardi, i volti, i gesti… in altre parole l’umanità…
Come è mutata la tua lente sottile dopo l’omicidio di Moro? Come è cambiata la manifestazione di protesta? Perché hai abbandonato quel genere di reportage?
Ero troppo giovane per poter fare questo genere di valutazioni. Semplicemente mi sono ritrovato in una fase diversa, quella in cui “dovevo” laurearmi, perché quello era il condizionamento che mi ero autoimposto o forse mi era stato imposto dalla programmazione sociale e familiare Praticamente ora mi sento come se avessi tradito me stesso: ero inconsciamente convinto che la mia strada fosse quella della laurea in Medicina e questo mi ha impedito, anche per un solo attimo, di considerare la fotografia una possibile futura attività. In quel periodo, addirittura, ho abbandonato la fotografia… In realtà, solo diversi anni dopo la laurea, quando ho avuto finalmente la possibilità di viaggiare, sono ritornato alla mia antica, vera passione… In ogni modo, anche in quegli anni, sebbene non fotografassi più, la mia visione del mondo è sempre rimasta del tutto “fotografica”, fatta di istanti, di scatti, di un susseguirsi di immagini…
Nella tua vita svolgevi la professione di medico, come scoprivi con il teleobiettivo della tua intuizione i conflitti dei tuoi malati? Come li hai curati se li hai curati? O non hai potuto curarli?
Semplicemente sono riuscito a sdoppiarmi, a indossare una maschera idonea a compiere il mio dovere, ma è come se fosse stata un’altra persona a svolgere quell’attività… Ho, consapevolmente e nettamente, separato i due ruoli.
Che cosa rappresenta il viaggio nella tua vita e perché i tuoi viaggi sono sempre volti ad un altrove molto lontano dalla nostra cultura occidentale?
Il viaggio per me rappresenta anche una fuga dalla realtà quotidiana, ma soprattutto la possibilità e il privilegio di ridimensionarsi. Ecco perché ho scelto sempre mete molto lontane dalla nostra cultura e società che raffigurano il modo in cui vive la maggior parte della popolazione mondiale: noi apparteniamo a una minoranza di privilegiati e generalmente non ne siamo affatto coscienti… Quando tornavo dai miei viaggi, infatti, mi rendevo conto che la realtà di tutti i giorni esprime soltanto una minima parte di verità: a questo punto la trasformazione interiore diviene inevitabile… Sfortunatamente, non era e tuttora non è facile convivere con questa consapevolezza… La mentalità orientale, per esempio, è completamente diversa da quella occidentale: loro cercano di togliere, noi al contrario siamo dominati dal desiderio di aggiungere, di accumulare, rimanendo intrappolati in una spirale senza fine che ci porta inevitabilmente ad essere sempre più insoddisfatti. Essendo, per natura, minimalista, mi sono trovato sempre in sintonia con un modo alternativo di concepire l’esistenza.
Come si svolgono i tuoi viaggi? Come li progetti? Come li compi? Quali sono le immagini che vai ricercando?
Li progetto conformemente alla meta, per cercare di garantirne un’attuazione senza inaccettabili difficoltà: si tratta di viaggi molto singolari, a volte addirittura estremi… Vado alla ricerca degli itinerari antropologici, dei viaggi cosiddetti “etnografici”: mi interesso ad esempio delle varie celebrazioni in tutto il mondo, come la festa delle maschere in Burkina Faso, della scoperta di popolazioni che mantengono ancora gli usi e i costumi degli Incas, delle comunità Qero in Perù, oppure dei Koma, un’etnia del Camerun rimasta ancora all’Età del ferro… Oltre alla cultura e allo stile di vita di questi popoli sono sempre attento a tutto ciò che è comune, apparentemente banale, ad ogni essere umano: situazioni, gesti, anche minimi, che spesso sfuggono alla nostra attenzione. Mi concentro, o meglio, faccio il vuoto nella mente, e questi segni quasi impercettibili istintivamente mi saltano subito agli occhi…
Sei un animale paziente che aspetta che la sua preda da fotografare gli venga incontro o la vai a stanare di proposito?
Posta in questi termini la domanda potrebbe sembrare irrispettosa, anche nei riguardi dello spirito della fotografia… direi che ci sono situazioni che richiedono differenti approcci. Non considero affatto i miei soggetti come delle prede, anzi, la gente, quando percepisce un simile atteggiamento, generalmente si rifiuta di farsi ritrarre… Per riuscire a fotografare le persone devi guadagnarti la loro fiducia e mostrare per loro un profondo rispetto…
Cosa ti appassiona dell’atto di fotografare un volto, un’espressione, un movimento?
Mi piace instaurare un rapporto con la persona, ottenere la sua fiducia, catturare un suo sguardo, un suo gesto e poi trasmettere quell’emozione autentica pure a chi non viaggia, in modo che attraverso le fotografie possa essere trasformato anche solo dall’immagine… Ci sono foto che hanno profondamente influenzato le sorti o le conseguenze di un conflitto… C’è una famosa fotografia, Stricken Child Crawling Towards a Food Camp, scattata nel marzo 1993 in Sudan durante la guerra civile dal fotogiornalista sudafricano Kevin Carter, Premio Pulitzer nel 1994, che è diventata icona e simbolo di un’Africa devastata dalle guerre: la foto mostra una bimba rannicchiata su se stessa, denutrita e indifesa e un avvoltoio nello sfondo che aspetta paziente e implacabile il momento per divorarla. L’immagine ha fatto il giro del mondo provocando immense critiche e scuotendo a tal punto l’opinione pubblica che probabilmente ha contribuito a salvare molte vite umane…
Preferisci misurarti con la Natura straordinaria e stupefacente o sei piuttosto un fotografo antropologo?
Mi ritengo un fotografo antropologo: in realtà, quello che avrei voluto fare veramente è il fotografo di guerra, il fotogiornalista. La mia vera passione è nata dalle manifestazioni di piazza, quindi preferisco operare dove c’è tensione. Probabilmente è una questione di adrenalina. In genere non avverto la paura, soprattutto quando sono ben calato nel ruolo e questo è un sentimento comune a tutti i fotografi di guerra. Inoltre, il mirino della fotocamera rappresenta nell’inconscio del fotografo una sorta di “barriera”, di finestra che ti fa sentire “protetto”. Sono anche attirato dai luoghi estremi, dove pure emerge questa sensazione: l’adrenalina conferisce lucidità consentendo di notare tutto…
Le tue foto sono spesso ritratti, dipinti di anime in posa: come riesci a convincere individui così diversi, di tutte le età e culture, a sottomettersi all’occhio indiscreto della macchina fotografica? Qual è la tua arma segreta?
Non sempre va così, molte volte, come dicevo prima, si rifiutano di farsi fotografare… Nella maggior parte dei casi però sono in grado di instaurare quel rapporto di fiducia che nasce quando riesco a trasmettere il mio sincero interesse per il soggetto da ritrarre, facendolo sentire importante e unico. E quando una persona capisce questo non rifiuta quasi mai di farsi fotografare, a volte superando anche le credenze religiose. Mi è capitato spesso di riuscire a fotografare anche gli “animisti”, i quali sono convinti che farsi fotografare porti via una parte della loro anima...
Dopo che hai effettuato i tuoi scatti ti diverte selezionare le immagini e lavorare sui dettagli o ti appassiona di più l’attimo che blocca l’immagine nella foto?
Ovviamente mi appassiona di più l’attimo, l’atto del fotografare… La post-produzione può essere gratificante, ma del tutto incomparabile con il viaggiare: alzarsi alle prime luci dell’alba, affrontare il sole cocente, la fatica, il sudore, cercare la situazione, il luogo, lo sguardo… Tuttavia la post-produzione consente anche di rivivere le emozioni dello scatto, del viaggio stesso…
Quanto tempo dedichi alla camera oscura? Quali caratteristiche tecniche preferisci dare alle tue foto?
La camera oscura ormai non esiste più, è stata sostituita da Photoshop… Generalmente sono molto attento soprattutto al colore, anche se negli ultimi anni il bianco e nero è tornato prepotentemente protagonista e devo ammettere che, molto spesso, rappresenta la scelta migliore in quel genere di immagini dove il colore “distrae” da ciò che si vuole comunicare. Comunque sono sempre piuttosto parsimonioso nello scattare, diversamente da quei fotografi che usano la fotocamera come una videocamera o una mitragliatrice… Mi concentro e istintivamente sento qual è il momento migliore per premere il pulsante di scatto: questo mi risparmia anche un notevole imbarazzo al momento della selezione. I miei soggetti non sono certo dei modelli che devi rendere necessariamente “belli” o gratificanti per chi osserva la foto e causando un inevitabile stravolgimento dello spirito di quel genere di fotografia. Cerco semplicemente di esaltare le tonalità o i dettagli, quando necessario. Qualche anno fa non esisteva la pletora dei sofisticati software di fotoritocco attuali: ormai le foto si possono addirittura” inventare”. In un certo senso la vera fotografia è morta; attualmente, perfino un esperto non può essere assolutamente sicuro se una foto sia del tutto vera o più o meno “costruita”… Con Photoshop si può fare qualsiasi cosa, diventare quasi un pittore e, spesso, addirittura un falsario…
Se dovessi fare un bilancio tra il tuo lavoro di medico e quello di fotografo, quale dei due ha stimolato di più la tua crescita personale e perché?
Naturalmente il viaggio, il fotografare. L’attività di medico mi ha, per certi versi, alienato. Il vero me non è mai stato dietro a un camice bianco, ho sempre avvertito la necessità di muovermi, di trovarmi all’aria aperta. Ma la vita è strana, segue percorsi misteriosi… Lo accetto perché ho imparato a credere in una sorta di “karma”, per cui evidentemente “doveva andare così”. Tuttavia non è una considerazione che mi rasserena completamente: questa convinzione che non possiamo fare nulla per cambiare il nostro cosiddetto “destino” è piuttosto difficile da digerire. Credo al “destino”, non inteso come un’opera che qualcosa o qualcuno costruisce per noi, ma a qualcosa di già costruito, nel senso che tutto quello che deve accadere è già accaduto: dobbiamo solo “arrivarci”. In altri termini, noi avvertiamo il tempo come una dimensione che si srotola, ma in realtà, secondo Einstein e Gödel, le due teorie della relatività riducono lo scorrere del tempo, particolarmente il “presente” a un’illusione, e a parere di Boltzmann e di molti altri fisici le leggi naturali non sono nemmeno in grado di distinguere la direzione del tempo che va dal passato al futuro da quella opposta. Di conseguenza, non sembrerebbe affatto assurdo ipotizzare il tempo come una dimensione “statica”, come un binario percorso da un treno: quella è la strada che il treno deve seguire, non può cambiare direzione, ma deve solo passare attraverso varie stazioni.
Queste sono riflessioni di viaggio fatte durante gli interminabili tragitti in mezzo alle savane, ai deserti, alle montagne. In quelle situazioni hai tempo per riflettere; la natura, la magnificenza delle montagne, del paesaggio, le lunghe attese, i contesti umani che attraversi stimolano l’introspezione, cosa puoi fare se non osservare e pensare? E riflettendo profondamente e in silenzio in quei luoghi straordinari, desolati e misteriosi ti arriva un briciolo di consapevolezza, il che richiede spalle molto robuste… Forse è proprio per questo che nel mondo occidentale si evita, in genere, di soffermarsi su tali tematiche. Infatti, quando cerco di condividere il mio pensiero, nella stragrande maggioranza dei casi i miei interlocutori mi guardano con gli occhi spalancati e cambiano subito discorso, come se non avessero affatto ascoltato. Ho la sensazione che tutto ciò che facciamo sia più volto ad abbassare il livello di consapevolezza che ad elevarlo.
Qual è il viaggio che non hai ancora potuto fare e che farai di certo?
Sono tanti i posti che non ho ancora visitato, non sono mai stato in Australia o negli Stati Uniti e, anche se ti sembrerà strano, nemmeno in diverse parti dell’Italia, come ad esempio la Sardegna… Il viaggio che farò di certo prossimamente? Mi piacerebbe andare in Ecuador, soprattutto alle isole Galapagos, una vera e propria fucina naturalistica: lì Darwin iniziò a lavorare all'opera L'origine delle specie. È un’esperienza che un vero viaggiatore non dovrebbe lasciarsi sfuggire…
Che cosa pensi di esplorare di un popolo, di una cultura di un’etnia attraverso le tue immagini?
La loro essenza, il loro modo di vivere. Anche nel contesto di viaggi tematici finalizzati a realizzare dei reportage, mi sono ritagliato molto tempo senza obiettivi precisi, per “documentare” tutto ciò che riguarda le persone, l’uomo, senza etichette, senza preconcetti, anche la cosa più semplice, la gente che incontri per strada, la gestualità, la sua attività quotidiana. Per me è proprio nelle cose più comuni che si riflette lo spirito di una popolazione...
Quale luogo attraverso cui hai viaggiato ti è rimasto più impresso e perché?
Ogni luogo mi ha regalato esperienze singolari, ma indubbiamente l’India è la meta che più mi ha coinvolto, tant’è vero che ci sono stato ben otto volte: è un continente pieno di etnie, una fucina incredibile di umanità, cultura, archeologia. Ci puoi andare anche cento volte ed è sempre come la prima volta, ti insegna ogni volta qualcosa su cui riflettere... Poi ricordo una spedizione sulle Ande, a cavallo e a piedi, un viaggio estremo, per raggiungere i Qeros, popolazioni discendenti direttamente dagli Incas. Un itinerario di molti giorni, percorso prevalentemente a piedi, ad una altitudine media di 4.500-5.000 metri: attraversare montagne, dormire a 10° sottozero, camminare dalla mattina alla sera su continui dislivelli, molto spesso arrampicarsi su dirupi scoscesi, dove il freddo non ti lascia mai… un viaggio che va fatto in ottime condizioni fisiche, che ora temo di non possedere più…
Qual è il più bel ricordo che hai di un rapporto nato tra te e il soggetto fotografato?
Quello che io ricordo in maniera più intensa non è il rapporto con una sola persona, ma con una situazione che mi ha talmente colpito da commuovermi profondamente: mi è capitato durante un reportage realizzato in India. Mi trovavo a Palitana, nello Stato del Gujarat, il più importante centro religioso jainista e il più grande complesso di templi del mondo: la collina Shatrunjaya dove sorgono più di 900 templi (oltre 3.000 sulle colline circostanti), squisitamente intagliati nel marmo e costruiti nel corso di 900 anni, dall’11° secolo in poi, da generazioni di jainisti. Il jainismo è una branca dell’induismo a cui appartengono generalmente le classi sociali più agiate. Sono vegetariani estremi, la cui filosofia di vita è basata sulla non-violenza: sono quelli con il fazzoletto bianco e la mascherina davanti alla bocca per evitare di fare del male al più piccolo essere vivente, fosse anche un microbo. Quando sono arrivato nel tempio principale, dedicato al primo tirthankar, lord Adinath (Rishabdeva), dopo aver percorso una scalinata di 3.800 scalini, lì nel tempio principale in cima alla collina, era presente la maggiore concentrazione di fedeli: erano uomini e donne vestiti di bianco – le donne anche di rosso –, una moltitudine di anime che percorrevano i corridoi di questi templi con le statue bianchissime, portavano offerte passando in mezzo alle statue, versavano l’acqua per purificarsi, facevano senza sosta magnifiche composizioni floreali, cantavano soavemente i loro mandala accompagnati da suonatori di vari tipi di strumenti, creando un’atmosfera emozionante e travolgente.
Difficilmente si è preparati a sopportare tanta sconvolgente bellezza, tanto che catturavo immagini con gli occhi umidi, quasi in uno stato di trance. La folla di anziani, giovani, bambini, il canto, la serenità, i fiori, mi inducevano a credere quasi di essere morto e giunto in Paradiso, quello dell’immaginario iconografico popolato dalle anime con le vesti bianche… In quel luogo, come in molti altri, ho lasciato una parte di me… Proprio così, mi sento quasi frammentato: un pezzetto in India, uno in Sudamerica, un altro in Africa, un altro ancora in Burkina Faso, e così via… Nel mio contesto abituale è rimasto solo lo scheletro, come le navi che si arenano e ne avanza soltanto la carcassa, il resto se lo sono mangiato i pesci… I miei pezzi li ho perduti, o meglio lasciati, durante i miei viaggi, ne restano frammenti sulle fotografie. Poi, quando parto nuovamente per un viaggio, tutti i tasselli si ricompongono, come per magia: una specie di forza misteriosa richiama tutto all’interezza e finalmente ritrovo il mio “io”…
Che cosa vedi negli occhi della gente che catturi con i tuoi obiettivi?
Me stesso…
Che cosa ti hanno insegnato tutti gli sguardi che hai incrociato? Come ti hanno cambiato?
Mi hanno ridimensionato, semplicemente… in una misura più umana… mi hanno trasformato nel senso che tutto quello che io ritrovo quando torno a casa, nella cosiddetta civiltà, mi sembra una sorta di follia collettiva… Se mi hanno donato tanto, i viaggi, mi hanno tolto una buona parte del senso della vita di tutti i giorni: ci affanniamo per delle sciocchezze, corriamo qua e là senza sapere dove vogliamo andare, perché lo facciamo… non ci interessa altro che accumulare… tutto ciò mi dà un senso di isolamento…
Che cosa non vorresti mai fotografare?
Non c’è nulla che non vorrei fotografare, non ho mai pensato alla fotografia come a qualcosa talvolta da “non fare”, non potrei incorporare un qualsivoglia concetto di “negazione” alla fotografia. Per me la fotografia è l’interpretazione della vita e astenersi dal fotografare qualcosa significherebbe anche rinunciare a imparare da quel qualcosa…
Qual è il tuo prossimo progetto?
Come ti ho detto vorrei andare in Ecuador e nelle isole Galapagos. Vorrei farmi accompagnare da mio figlio Davide, laureato in Ecologia Marina: per lui rappresenterebbe anche un’esperienza professionale.
E noi ci auguriamo che anche i nostri giovani si appassionino al viaggio… se non altro almeno quello della fantasia. Perché queste fotografie stimolano l’immaginazione… e lo spazio creativo ha il potere di ricollegarci con l’originaria bellezza e l’essenza del cosmo… Cosa potrei ancora aggiungere alla poesia di questi scatti straordinari e alle suggestive parole che hanno riempito il tempo della nostra intervista? Posso forse pormi delle domande che non abbiano la pretesa di reclamare risposte… Riusciremmo anche solo a immaginare un’esistenza libera da oggetti accatastati negli armadi? Da evitabili impegni che affollano la nostra sopravvivenza quotidiana? Da affannate corse verso mete indefinite e senza senso? Da spostamenti frettolosi attraverso folle di sguardi inconsapevoli? Chiediamoci se ne siamo ancora capaci… e domandiamoci poi se siamo preparati ad affrontare quell’enorme spazio vuoto che si verrebbe a creare, a popolarlo di desideri, sogni e pensieri solo nostri che lo trasformerebbero in un personale, discreto, invidiabile, emozionante spazio di vita in cui ricercare la nostra autenticità. E se siamo in grado di possedere serenamente questo tempo svuotato da tutti i bisogni, dalle paure, dagli obblighi, dai condizionamenti imposti dal sistema, dalla pubblicità, dalla malattia del consumo!
Sergio non fa altro che ricordarci quello che siamo già stati, aiutandoci a guardare con quel terzo occhio con cui non siamo più abituati a vedere. E lo fa attraverso i suoi ritratti, cogliendo, con l’obiettivo della sua attenzione, i sorrisi spontanei dei bambini, i gesti genuini delle donne, la saggezza antica degli anziani… oppure sottolineando le tinte intense delle vesti, la soavità degli sfondi, la straordinaria bellezza dei paesaggi… Sono luoghi immensi e spesso isolati, lontani dalla nostra realtà non solo come distanza geografica, ma decisamente distanti dal nostro modo di pensare ormai abituale e immersi in quel tempo senza tempo che richiama il concetto di assoluto. Anche se l’occhio indiscreto di un “Grande fratello” indefinito come una divinità misteriosa ci osserva, possiamo di certo cominciare a sognare e a viaggiare anche attraverso la magia di queste foto…
Per maggiori informazioni: www.sergiopessolano.it