Piange le sue lacrime amare Odisseo, il cuore stretto nella morsa della nostalgia, là sul promontorio che alto si protende verso il mare. Sono trascorsi ormai dieci anni da quando ha lasciato vittorioso la piana di Troia sconfitta, ma i fati avversi gli impediscono ancora di rivedere la patria, ancora gli negano di ricongiungersi ai suoi. Ha perso tutto Odisseo, ogni ricchezza accumulata in battaglia, tutte le navi della flotta, i suoi compagni; ha combattuto con i popoli più remoti e misteriosi, ha rischiato di venire divorato e annientato da figure terribilmente mostruose e incomprensibilmente trasognate che vivono ai margini di ogni civiltà, isolate nella loro raccapricciante barbarie o soltanto indifferenti agli altri esseri umani come anche agli dei; ha attraversato inimmaginabili tempeste scatenate dall'ira dei più potenti tra i numi, è disceso persino nel regno degli Inferi e da vivo ha fatto poi miracolosamente ritorno tra i vivi.
Da sette anni ha cessato di misurarsi con il pericolo. Scampato alle insidie tremende del mare, trascorre le sue giornate in un luogo incantevole, avvolto dal fascino di una natura rigogliosa e incontaminata. Una profonda grotta naturale gli dà riparo al suo interno, mentre fuori l'aria risuona incessantemente dei canti degli uccelli, inquilini numerosi di un bosco straordinariamente lussureggiante che si estende tutt'intorno alla spelonca; quattro sorgenti di acqua limpidissima sgorgano e si diramano poi scorrendo lungo i prati variopinti di fiori, che circondano la selva. Non sa cosa sia la solitudine Odisseo, poiché una ninfa bellissima, chiome dorate, lo riveste di ogni premura. Siede ella di giorno al telaio cantando con voce soave, le sue trame tessendo con spola sapiente; ma di notte, una volta saziata la fame e placata la sete con abbondanza di cibi e bevande, al suo talamo conduce l'eroe e lì gli si offre, generosa instancabile amante.
Eppure, non smette di piangere le sue lacrime amare Odisseo, perché fatalmente insidioso è in realtà questo luogo pieno d'incanto. Certo, una vite feconda si avvinghia all'ingresso dell'antro, carica di grappoli in ogni suo tralcio, promessa di inesauribile prosperità; ma sono pioppi e cipressi quelli che allungano vicini le loro ombre, sono sedano e viole a far capolino dal manto erboso del suolo, come sopra le tombe, come dentro i recinti funerari. Presenze vegetali fortemente simboliche in una terra che appare quale prolifica dispensatrice di vita non meno che implacabile annunciatrice di morte, che si mostra ospitale e allo stesso tempo ostile, che allude costantemente a una verità che c'è ma continua a sfuggire, che si lascia percepire ma rimane in qualche modo “velata”, perché ambigua è l'indole stessa di colei che qui risiede.
Calipso ha qui la sua dimora, veneranda figlia di Atlante, punita dal consesso degli immortali per essersi schierata a fianco del padre nella guerra scatenata dai Titani contro il dominio di Zeus, relegata su quest'isola lontana cui le divinità in persona faticano ad approdare, amata e sempre abbandonata dai naviganti che le Moire crudeli le inviano. Calipso, nel cui nome si annida il verbo kaluptein, portatore delle valenze più nobili e insieme più subdole che abitano il gesto del “nascondere”. Perché Calipso è indubbiamente colei che discreta sottrae Odisseo alla vista del resto del mondo; che rassicurante lo protegge e lo accudisce nel grembo roccioso di Ogigia, come una madre, come la Grande Madre mediterranea di cui forse la ninfa stessa è una delle eredi; che pronta lo avvolge cancellando dalla sua esistenza ogni fatica, eclissando qualunque minaccia. Nondimeno, Calipso è anche colei che dell'itacese obnubila la mente e annulla qualunque anelito di libertà, che lo rende irriconoscibile persino a se stesso riducendolo all'ombra dell'uomo che era, facendone un individuo inerte e malinconico; che incantandolo con le sue parole seducenti e ammaliandolo con l'invitante promessa dell'immortalità, lo trattiene possessiva dentro un'anestetizzante condizione di beatitudine che finisce irrimediabilmente per assomigliare a una soffocante sepoltura.
Così è paradossalmente solo quando la sua bellissima carceriera gli comunica che potrà ripartire che Odisseo pone fine al suo pianto riconquistando autenticamente la propria umanità, riappropriandosi pienamente di ciò che è stato tanto tempo prima, della sua memoria, della sua identità, di se stesso. Colui che nei suoi versi Omero ha precedentemente raffigurato quale anonimo oggetto dell'insaziabile passione di una donna, viene nuovamente chiamato con il nome che gli appartiene e con gli epiteti di cui l'epica l'ha sempre fregiato. Dios (“luminoso”) e theios (“divino”), egli torna finalmente a essere polumetis e polumechanes, uomo “ingegnoso” e “intraprendente”, “avveduto” e “ricco di espedienti”, abile carpentiere e navigatore esperto che con destrezza mette in campo tutte le sue competenze e procede alla costruzione della zattera che lo porterà lontano da lì; diogenes (“nobile progenie”) e megaletor (“ardimentoso”), non teme neppure di tornare a indossare le vesti dell'eroe che più di altri è polutlas, che “molto sopporta”, che ha il cuore “carico di molti affanni”, pur di rivedere quella sposa tanto più imperfetta di Calipso e quell'isola tanto più aspra di Ogigia, che a dispetto di tutto sono e sempre rimarranno la sua sposa e la sua casa.