1943
In un recente articolo di Gian Antonio Stella, apparso sul Corriere della Sera del 5 marzo scorso, si racconta, tra l’altro, di uno straordinario episodio del marzo del 1943 che evidenzia l’opposizione della chiesa ortodossa allo sterminio degli ebrei perpetrato con feroce sistematicità dai nazisti. A Plovdiv, città della Bulgaria più nota col nome greco di Filippopoli, il prelato ortodosso Kirill, seguito da un gran numero di fedeli, si pose sui binari della ferrovia per bloccare un treno che trasportava ottocento ebrei destinati al campo di sterminio di Treblinka. Cosa successe di preciso non è dato saperlo, “sappiamo solo – scrive Stella – come andò a finire. Quel treno non partì. E qualche giorno dopo arrivò sul tavolo di Heirich Himmler un messaggio attribuito all’ambasciatore tedesco a Sofia, Einz Beckerle che spiegava il motivo di quel gesto di contrasto alla deportazione degli ebrei: “Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari – era scritto in quel messaggio - il popolo bulgaro non vede nell’ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui”. Fu quello di Kirill il gesto forse più clamoroso e coraggioso della Chiesa ortodossa in difesa degli ebrei.
Il treno fermato era diretto in Polonia a Treblinka, atroce e ben nota fabbrica di sofferenza come i meno conosciuti campi di Belzec, Sobibòr e Majdaneck.
2020
Nei campi di Sobibòr e di Majdaneck è ambientato il romanzo di Franco Forte e Scilla Bonfiglioli La bambina e il nazista, pubblicato quest’anno da Mondadori. Siamo nel pieno dell’operazione Rheinhardt affidata da Hitler a Heinrich Himmler, sviluppata dal ’41 al ’45.
Protagonista del romanzo un tenente di complemento delle SS, Hans Heigel, che da un ufficio di Osnabrück dove lavora con pacifici compiti di archivista, ignaro delle atrocità che nei campi di sterminio le SS e la cosiddetta polizia verde stanno commettendo, viene spedito prima a Sobibòr poi a Majdaneck. Heigel si opporrà alla ferocia nazista combattendola coraggiosamente dall’interno, inseguendo un sogno che sembra di impossibile realizzazione.
Hans Heigel è personaggio di fantasia. Gli autori avvertono in premessa: “Questo libro è un’opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni degli autori e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse è assolutamente casuale”. In chiusura, nella pagina dei ringraziamenti, tuttavia, ammettono che “in un libro come questo i ringraziamenti andrebbero rivolti a quelle donne, quegli uomini e quei bambini che nei campi di concentramento nazisti hanno dovuto combattere ogni giorno per la loro sopravvivenza, troppo spesso, purtroppo, senza riuscirci”. Concludono i ringraziamenti finali affidandosi alla speranza che “uomini come Hans Heigel siano esistiti davvero, anche tra le fila di quei nazisti che hanno dato vita al feroce circo di morte che è stato l’Olocausto, perché non bisogna perdere mai la speranza che il bene, l’intelligenza e l’amore siano capaci di prevalere su qualsiasi barbarie”.
La vicenda narrata, avvincente e atroce, è dunque, sì, di fantasia, ma le efferatezze di Sobibòr e di Majdanek, che vi sono descritte, la fredda meticolosità dello sterminio, il profondo odio razziale, la sanguinaria crudeltà e quasi il piacere nell’esercitare il male uccidendo, mortificando e torturando anche bambini, appartengono ad una realtà storica, che peserà sempre sulla coscienza di tutta l’Europa.
Hans Heigel, è assegnato a Sobibòr in un momento particolarmente tragico della sua vita; la figlia, la piccolissima Hanne, muore di tubercolosi, segnando per sempre la sua esistenza di un’incancellabile scia di dolore. Proprio in questa terribile circostanza deve lasciare la sua Osnabrück e la moglie Ingrid, istupidita dalla perdita della piccola.
Nelle pagine agghiaccianti ma coinvolgenti di questo romanzo, che inchiodano letteralmente il lettore alle sue trecento pagine, tra la tenebrosità di luoghi e personaggi si srotola la narrazione di cattiverie e crudeltà inimmaginabili, di vero e proprio sadismo di aguzzini “innamorati della propria crudeltà”, ai quali non basta dare la morte pianificata a migliaia di esseri umani, perché godono nel provocare sofferenze e dolore fisico. Tuttavia sembra intravedersi in questo buio pesto qualche luce di umanità. Due ufficiali delle SS, oltre il protagonista, travolti da tanto orrore, lentamente ma poi con sempre maggiore convinzione, reagiscono a questa sistematica crudeltà che “strappa a morsi l’identità di quella povera gente”: il capitano Adi Liutger, che, travolto da tanto orrore si impicca, e Franz Mayer, un tempo diretto superiore di Hans nell’ufficio di Osnabrück, che, stanco di fingere di non vedere e non capire, si domanda rivolto proprio ad Hans: “Cosa stiamo facendo? In nome di Dio, cosa stiamo facendo?”
Com’è diversa la loro umanità finalmente risvegliata, dalla freddezza dei comandanti dei campi e dai loro sottoposti, che cenano e bevono portando la conta dei prigionieri eliminati, soddisfatti della loro determinazione ridendo degli ebrei massacrati e perfino rinfrancandosi con la musica dopo tanto esercizio di brutalità, qualcuno addirittura suonando il violino per rilassarsi.
Sobibòr e Mejdanek sono due posti costruiti per torturare e uccidere, definiti da Hans luoghi senza Dio. L’assenza di Dio durante lo sterminio degli ebrei è un tema che sarà drammaticamente dibattuto in particolare dai credenti: un tema ricorrente nelle pagine di chi ha testimoniato per iscritto la Shoah, superando vergogna, pudore e difficoltà di ricordare quanto hanno vissuto, di dire, insomma, l’indicibile. Vengono alla mente, in particolare, due scrittori: Elie Wiesel, ebreo della Transilvania rumena, e Zvi Kolitz, figlio di un rabbino, nato a Alytus in Lituania.
Elie Wiesel, deportato prima ad Aushwitz poi a Buchenwald, nel suo libro La notte, pubblicato nel 1958, riporta un fatto atroce: l’obbligo per i prigionieri di assistere all’impiccagione di tre condannati, di cui uno bambino. Mentre il piccolo agonizza, scrive Wiesel: “Dietro di me udii il solito uomo domandare: dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: è appeso lì, a quella forca”.
Zvi Kolitz è autore di un angosciante brevissimo racconto intitolato Yossl Rakover si rivolge a Dio. Rakover, al quale i nazisti hanno ucciso l’intera famiglia, è un uomo ormai votato alla morte e sta strenuamente combattendo, arroccato in una postazione indifendibile, aspettando l’inesorabile, imminente sopravvento dei tedeschi; ma prima di morire scrive una lettera a Dio su un foglio poi chiuso in una bottiglia che forse i posteri troveranno. Pur continuando a professare la sua ferma fede, chiede a Dio perché mai resti immobile di fronte ad uno sterminio così efferato del suo popolo. Poi, esprimendo grande stupore per l’indifferenza a questo massacro da parte del resto del modo, rivolge al Signore la sua ultima disperata preghiera: “Quanti esprimono la loro simpatia per chi affoga, ma non muovono un dito per salvarlo, costoro, ah, costoro, ti scongiuro, Dio, puniscili come fossero ladri”.
Sobibòr e Majdaneck, dunque, due luoghi accomunati dalle sinistre finalità per le quali sono stati impiantati, ma diversi nell’aspetto e nel modo di somministrare il dolore e la morte. Sobibòr, nascosto nella foresta, è “un mostro che apre ogni volta i suoi cancelli per divorare con la sua bocca di metallo le vittime sacrificali che gli venivano date in pasto”. Majdaneck, invece, “non era circondato da campi minati o zone di sicurezza, né era oscurato alla vista delle montagne… Semplicemente, Majdaneck non si nascondeva e sorgeva appena come se fosse niente altro che un enorme carcere”.
Queste le angosciose domande che Hans si pone continuamente. Possibile che le SS e il Reich riescano a non far sapere a nessuno quello che avviene qui? Possibile che i tedeschi, che non possano non venirne a sia pur vaga conoscenza restando indifferenti? Poi l’amara considerazione che “alla gran parte dei tedeschi non importasse quello che accadeva lì, perché c’era la guerra a cui pensare o la paura di tutti i giorni di non riuscire a mettere in tavola un piatto per i propri figli”.
Hans ha sempre negli occhi il viso della sua piccola Hanne morta a Osnabrück di tubercolosi. Un giorno scorge a Sobibòr, tra deportati che scendono dal solito treno, destinati alle camere a gas, una bambina, somigliante in maniera sorprendete alla sua Hanne: stessa corporatura, stesso viso, stessi capelli biondi e ricci, stessi occhi azzurri. Decide, allora, senza un attimo di esitazione, di sottrarla al suo destino. E riesce a salvarla, a farla vivere di nascosto nel suo ufficio, e perfino a portarla con sé, pur tra mille pericoli, quando viene trasferito da Sonbibòr a Majdaneck. E per proteggerla giorno dopo giorno, si trova a escogitare, rischiando la vita, mille stratagemmi prendendo spesso decisioni terribili che gli peseranno sempre sulla coscienza perseguitandolo inesorabilmente giorno e notte.
Lungo questa linea narrativa si svolge il romanzo, sullo scenario folle e crudele dei campi di sterminio nazisti. Scenari sempre agghiaccianti e crudeli. Scenari che confermano quello che abbiamo letto nelle pagine di testimonianze come quelle, solo per citarne alcune, di Primo Levi, Boris Pahor, Bruno Bettelheim, Edith Bruck, Zdena Berger, Charlotte Delbo.
La bambina e il nazista è un romanzo, sì di fantasia, ma parallelo e in sintonia con le più scottanti e palpitanti testimonianze dirette, strutturato su un tessuto narrativo impietoso e urticante, ma pieno di suspense, di trepidazione e d’avventura.
Un libro da leggere per metterci sempre più in guardia contro la dilagante violenza razzista e contro certe ricorrenti forme di damnatio memoriae e di negazionismo; un libro da far leggere anche e soprattutto nelle scuole ai più giovani, oggi sottoposti all’imbambolante e pressante flusso dei media e della cronaca purtroppo piena di notizie episodi di intolleranza, di razzismo e non di rado di crudeltà, stupida ed efferata. “Perché non bisogna perdere mai la speranza che il bene, l’intelligenza e l’amore siano capaci di prevalere su qualsiasi barbarie”.