La paura acceca, disse la ragazza dagli occhiali scuri, Parole giuste, eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi, Chi sta parlando, domandò il medico, Un cieco, rispose la voce, un semplice cieco, qui non c’è altro. Allora il vecchio dalla benda nera domandò, Di quanti ciechi ci sarà bisogno per fare una cecità. Nessuno gli seppe rispondere.
(José Saramago, Cecità)
La paura è una delle emozioni più radicate nell’uomo, inscritta nelle parti più profonde del cervello. È fondamentale per la nostra salvaguardia, e proprio per questo si attiva a una velocità così elevata che la nostra mente consapevole non è in grado di registrarla se non relativamente molto più tardi, quando ormai nel nostro corpo tutto è già avvenuto in risposta alla paura provata. Sono quelle che Joseph LeDoux ha definito come “le due vie” delle emozioni che raggiungono l’amigdala, una parte mediana del nostro cervello che le governa. Una è quella bassa e più breve, in cui l’amigdala riceve in via diretta le informazioni sensoriali - senza la mediazione di alcuna altra area cerebrale - dal talamo, impiegando circa 12 millesimi di secondo. In tal modo si attivano subito tutte le difese dell’organismo, come far convergere il sangue dalle parti più periferiche del corpo – le mani, le braccia, le gambe – alla parte centrale dove si trova il cuore, per assicurarci maggiori possibilità di sopravvivenza nel caso dovessimo rimanere feriti. L’altra via, quella alta e più lunga, partendo dal talamo arriva alla neocorteccia per giungere infine all’amigdala, impiegando circa 30-40 millesimi di secondo. È solo a questo punto che ci accorgiamo cognitivamente di provare paura e cerchiamo di capire che cosa ci abbia spaventato e se la reazione che istintivamente il nostro corpo ha attivato sia quella più appropriata, confrontando ricordi di emozioni già provate con situazioni analoghe a quella che stiamo vivendo.
Una è la via istintiva, quella più arcaica e veloce del nostro cervello; l’altra è la via riflessiva, più lenta e razionale; in ciascun individuo, la formazione del cervello segue lo stesso percorso dell’evoluzione umana: prima la parte più antica, al centro del nostro cervello, chiamato cervello antico; poi gli strati superiori e la neocorteccia, che può dirsi completamente sviluppata solo dopo i venti anni di età. La via istintiva ci garantisce la sopravvivenza; la via cognitiva e razionale ci garantisce la riflessione nel valutare il reale pericolo.
Il nostro corpo si prepara perciò automaticamente ad affrontare il pericolo seguendo delle strategie di autoprotezione: la fuga per metterci in salvo, se la situazione ce lo consente; l’attacco, se ciò che ci minaccia non ci consente di fuggire. Se non è possibile né fuggire né attaccare, l’unica possibilità è fingersi morti, rimanendo bloccati nella posizione in cui ci troviamo, confidando nella possibilità che il nostro nemico non si accorga di noi.
La reazione primordiale è legata all’istinto di sopravvivenza: attacco, fuga o paralisi. Non si può sopprimere, perché è fondamentale per la vita. Ma ad essa segue l’azione riflessiva, che non deve più essere reattiva, ma ponderata. Diventiamo consapevoli di provare paura solo dopo che è iniziata, non certo prima. Solo così abbiamo il tempo di scegliere la via più appropriata da seguire e valutarne i rischi. Per non lasciarci accecare dalla paura.
Il contagio della paura
Le emozioni sono contagiose: attraversano il nostro corpo e si evidenziano all’esterno, e chi ci è vicino non riesce a non subirne l’influenza. Quando qualcuno vicino a noi è allegro e ride, viene da ridere anche a noi senza nemmeno saperne il motivo. Così per la tristezza, o il disgusto, o la rabbia. Nel nostro corpo si attivano gli stessi meccanismi, come facessimo da specchio alle emozioni dell’altro. Gli studi delle neuroscienze hanno avvalorato quella che è un’esperienza che tutti conosciamo, il contagio emotivo, definendo delle aree del nostro cervello – quelle dei neuroni specchio – che si attivano quando percepiamo un’emozione nell’altro, simulandola a nostra volta e provandola nel nostro corpo.
La paura è una delle emozioni più potenti e, quindi, una delle più contagiose. Se qualcuno vicino a noi si spaventa per qualcosa, ci spaventiamo anche noi senza nemmeno aver avuto il tempo di capire di cosa ci stiamo spaventando. Solo la riflessione successiva può aiutarci a comprendere se vi è un giusto motivo per spaventarci e poter superare la paura provata. Senza riflessione, il rischio è di cadere nella paura della paura, molto più contagiosa della paura stessa. E senza via di uscita.
La paura del contagio
C’è un aspetto, non certo secondario, che riguarda la paura del contagio. A differenza di altri elementi che possono spaventarci, il contagio è legato indissolubilmente al nostro essere esseri sociali. Per questo la paura del contagio è una delle paure più antiche dell’uomo, ed arriva non solo a paralizzare la razionalità, ma addirittura a sfiorare l’irrazionalità dei nostri comportamenti.
Di fronte alla paura del contagio, la reazione immediata vince sull’azione ponderata e riflessiva. La reazione immediata, se non si hanno strumenti adeguati a combattere il virus, non può essere quella di attaccare. Non rimane che quella di fuggire dal pericolo di rimanere contagiati e, solo nel caso non sia possibile fuggire, quella di rimanere paralizzati, come morti.
Non può spaventarci il coronavirus in sé, per quanto vi siano nei media immagini che lo rappresentano. È troppo astratto e quindi non significativo per poterci realmente spaventare. Ciò che ci spaventa è la possibilità di rimanerne contagiati da chi lo ospita: un altro essere come noi, in cui nulla esternamente lascia trasparire la presenza di un virus pericoloso. Anche il fatto che l’altro possa avere il raffreddore, o la febbre, o la tosse non è sufficiente a indicare i segni del contagio. Occorre che si senta male per poter valutare la presenza del virus.
Ne consegue che tutti, indifferentemente, siamo potenziali portatori di virus e, quindi, pericolosi. La paura del contagio non può che essere contagiosa. Riguarda tutti noi.
La via della fuga
Da un paio di giorni ho il raffreddore; e se fossi portatrice inconsapevole del coronavirus? Questo pensiero fatica a lasciarmi, e in queste sere, prima di addormentarmi, temo di potermi svegliare in piena notte con difficoltà respiratorie. Come se non bastasse, non volendomi trovare nella condizione di essere stata un potenziale diffusore, ho cominciato a riflettere su quante persone ho incontrato nei giorni precedenti l’inizio del raffreddore: tante, tantissime, quasi un’infinità, per quanto io non sia una persona particolarmente dedita alla vita sociale. Ogni nostro atto è inserito in un contesto sociale: dal prendere il caffè al bar la mattina, ai mezzi di trasporto affollati che usiamo, alle persone che incontriamo al lavoro, ai luoghi dove facciamo la spesa, alle serate a cena con gli amici, ai concerti, ai cinema, agli eventi a cui partecipiamo. Un elenco infinito. E se ognuno di questi momenti è potenzialmente pericoloso, come fuggire? E da chi fuggire? Da tutto e da tutti, nessuno escluso.
La via della paralisi
Non rimane che la via della paralisi: fingersi morti. Rimanere bloccati come in uno screenshot, o un fermo-immagine. Non fare più nulla: chiudersi in casa con scorte di cibo e aspettare che tutto finisca. Fermare noi stessi sperando che il nemico non ci trovi, confinandolo fuori dalla nostra porta. È un meccanismo che certamente aiuta a proteggerci, ed è un modo per rallentare l’estendersi del contagio. È capitato a tutti di prendersi un’influenza e di dover restare a casa per un paio di settimane, e certo non è cascato il mondo. Peccato che non siamo i soli a chiuderci in casa. Gli altri faranno la stessa cosa che facciamo noi. Per poterci permettere di fermare le nostre attività esterne confinandoci in casa, abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri che possano fare al posto nostro. Qualcun altro che lavori per noi e che ci procuri tutto ciò di cui abbiamo bisogno: che faccia la spesa per noi, che ci porti la posta a casa, che ci curi se ci sentiamo male. Quello che abbiamo escluso come fonte di pericolo di contagio è proprio quello di cui non possiamo fare a meno. Abbiamo bisogno dell’aiuto del nostro potenziale nemico. E, a nostra volta, siamo potenziali nemici delle persone di cui abbiamo bisogno. Perché mai qualcun altro dovrebbe consegnarci il cibo, o prestarci le cure di cui abbiamo bisogno, se anche noi siamo potenzialmente pericolosi? L’esclusione dell’altro – compresi noi stessi – rischia di divenire la regola sociale. Una catena a cui non c’è fine.
In questi giorni sento spesso richiamare il libro di Saramago, Cecità. Tocca un tema simile a quello che stiamo vivendo: il contagio da “mal bianco”, una forma di cecità sconosciuta e contagiosa che colpisce le persone che entrano in contatto tra loro e da cui non si sa se sia possibile guarire. Il contenimento dell’epidemia passa attraverso la segregazione dei contagiati e delle persone che sono entrate in contatto con loro in luoghi presidiati dall’esercito, in cui nessuno può entrare od uscire. L’unico collegamento con l’esterno è il cibo che viene lasciato all’interno dei luoghi presidiati, senza nessun contatto diretto. Il contagio, tuttavia, si propaga nel paese, svuotando le strade, i negozi, gli uffici pubblici, i servizi di assistenza, l’esercito. Tutti diventano ciechi, e scompare qualunque regola di convivenza sociale. Saramago descrive tutto questo attraverso la storia di un gruppo di contagiati, mostrando la progressiva e inesorabile rottura dei legami sociali durante la convivenza forzata, arrivando alla degradazione individuale e alla distruzione della realtà collettiva. Solo alcuni, nel gruppo, continuano a rispettarsi e ad aiutarsi.
È un libro che ho letto casualmente a dicembre, poco prima che si scatenasse l’epidemia da coronavirus in Cina. E mi viene naturale fare confronti tra ciò che accade in questi giorni e ciò che il libro ha lasciato in me. Tantissimi sono gli elementi di similitudine, purtroppo.
Tuttavia, per quanto drammatico, vi è una nota profonda che accompagna tutto il libro: tra tante persone cieche, occorre che ve ne sia almeno una in grado di vedere. E che, pur avendo paura di rimanere contagiata, si faccia carico di aiutare chi non vede. Sarà lei a guidare il gruppo di ciechi fuori dal luogo dove erano rimasti rinchiusi e abbandonati a sé stessi. Senza di lei, probabilmente, sarebbero morti. Solo così si può cercare di non arrivare a una cecità. Totale e assoluta.
Abbiamo bisogno dell’altro, proprio nel momento in cui ne abbiamo più paura. Ed è necessario aiutare l’altro, proprio nel momento in cui ci fa più paura.