“Con loro riesco a essere felice”. La vita non finirà mai di sovvertire le regolette che, annaspando nel dramma fin dalla nascita, l’essere umano stila per cavarsela e, fra un tiro mancino e l’altro, elargisce sprazzi di gioia nelle situazioni più impensate. Massimo Altomare è felice in carcere. Diamine, va chiarito che non è un galeotto. Ma passa giorni dietro le sbarre e frequenta un manipolo di reclusi che fa cantare e suonare nella sua Orkestra ristretta. Cantante, in duo con Checco Loy negli anni Settanta, poi solista, poi sul palco con Stefano Bollani, poi ancora solista, da una ventina d’anni lavora con i detenuti di Sollicciano, a Firenze e dice: “Quando mi esibisco io, e ancora mi esibirò, non ho intenzione di appendere l’ugola al chiodo, anche nelle serate di più grande successo, perfino con Bollani, c’è sempre qualcosa dentro di me che non è andata bene. Invece se sento loro che fanno la cosa giusta e vedo il pubblico che li ama, ho una sensazione di profonda felicità”.

Altomare è nato a Verona, figlio di una veneziana e di un pugliese. Il padre era direttore di dogana e quindi la famiglia girava. Nel 1970, in piena epoca di beat, di swinging London, strinse un patto con la madre, suo padre non c’era già più: “Faccio la maturità, però dopo me ne vado a Londra”. A Londra incontrò “un tipo che si chiamava Francesco Loy detto Checco con il quale è nato un affiatamento pazzesco dal punto di vista musicale. Checco è più giovane di me: aveva sedici anni e io diciotto quindi eravamo ragazzi anche se allora a trent’anni s’era ‘omini’. Abbiamo cominciato a scrivere canzoni e il nostro obiettivo era quello suonare a Portobello road per fare due soldi. Come vedi non avevamo ambizioni sfrenate”.

Per mantenersi Massimo faceva il barman e Checco il dj nella stessa discoteca: “All’inizio pensava di essere sistemato meglio di me, in realtà sbagliava perché il dj era chiuso in un angoletto, non era un divo come oggi. Mentre il barman era circondato da donne che volevano cocktails per cui era molto vantaggioso”. Si pensa Giorgio Gaber: “No, per ora va bene, m'arrangio, lavoretti qua e là, saltuari, che se un domani uno fa lo scrittore, li mette nella biografia”. Anche se uno fa il musicista o l’attore di Hollywood, luogo che pullula di ex barman. Non c’è che dire, Altomare è un artista anche per quanto riguarda il “colore”.

Il sogno di esibirsi in Portobello road fu ampiamente surclassato perché, rientrati alla base, i due amici si fecero sentire da un discografico che li incoraggiò: “Ci hanno detto che dovevamo ancora lavorare, ma eravamo guardati di buon occhio perché siamo in Italia e contava che Checco fosse er fijo de Nanny Loy”. Tornai a Verona a studiare all’Università, poi mi trasferii a sociologia a Trento, mentre Checco rimase a Roma però dopo un anno mi stufai. Lui ebbe un’occasione e gli serviva un cantante”.

E nacque il duo Loy e Altomare?

Sì, abbiamo fatto un primo disco nel 1972, un altro nel ‘74 e l’ultimo nel ‘79. Pur non avendo avuto mai successo, Loy e Altomare hanno avuto un pubblico di nicchia molto affezionato. Eravamo un po’ snob, faccio autocritica. Abbiamo venduto poco, ricordo la delusione del primo disco che dopo sette, otto mesi aveva venduto diecimila copie. Oddio, rispetto alle vendite di adesso eravamo Michael Jackson! Oggi con diecimila copie ci sarebbe il disco di platino. A un certo punto Checco si innamorò di una fiorentina, ebbe un’eredità, comprò un fondo a Firenze e mi propose di fare uno studio di registrazione insieme. Io mettevo me stesso e lui metteva i soldi. Lo studio si chiamava Gas ed è stato molto famoso negli anni Ottanta, quando esplodeva la new wave a Firenze: ci hanno registrato tutti, a partire dai Litfiba, che abbiamo anche prodotto. Collaboravamo con Ernesto De Pascale. Ho fatto anche due dischi, diciamo belli, con Roberto Terzani, nel suo intermezzo fra i Windopen e i Litfiba. Tutti i miei dischi hanno il karma di non vendere però diventano rarissimi e costosi.

Perché il duo si sciolse?

Diversità di valutazione. Negli anni Ottanta ho fatto tre dischi da solista molto mandati da Videomusic. Nei Novanta mi sono avvicinato al jazz ed è nata la mia fraterna amicizia con Stefano Bollani. Insieme con lui ho creato molti spettacoli, poi abbiamo fatto un’incisione di cui sono estremamente orgoglioso, la Gnosi delle fanfole, dalle poesie di Fosco Maraini, persona straordinaria, che ho avuto il privilegio e la fortuna di conoscere. Maraini aveva scritto queste poesie in una lingua inventata, però credibile. Molto sofisticato. Nella prefazione del libro, scriveva che avrebbe desiderato che le fanfole fossero recitate o meglio ancora cantate. Allora io telefonai, era sull’elenco, gli feci sentire registrazioni con Bollani per piano e voce. Fu entusiasta e abbiamo fatto un sacco di concerti, Stefano ed io.

Ora spalanchiamo le grate della gattabuia.

Verso il Duemila un amico mi suggerì di fare un ciclo di lezioni sulla canzone italiana nella sezione femminile del carcere di Sollicciano. Non ebbi reazioni di rigetto, di noia, di angoscia. Anzi, mi sembrava di essere utile. Rimasero colpiti dal mio approccio e mi proposero di passare a un programma più corposo. Sempre con la sezione femminile perché allora era molto diverso. Ci sarebbe da fare un discorso lunghissimo.

Accenniamolo…

La situazione delle donne in prigione era migliore. Erano più disponibili a partecipare alle attività, meno infelici, facevo le parodie e in tante venivano, si divertivano. Non è che in carcere si trovi gente che legge Cechov, ma in questo momento siamo ai minimi storici, culturalmente c’è stato un abbassamento ulteriore. Sollicciano è fatto a semicerchio e c’è lo spicchio femminile con più di cento detenute che è rivolto verso quello dei sette/ottocento i maschi. C’è una tradizione che si chiama panneggiare per cui donne e uomini si parlano da lontano muovendo dei panni. Quando una è innamorata mette un panno rosso: poi chiedono i colloqui per incontrarsi e alcuni di loro si fidanzano, ma molto spesso i detenuti non hanno una mentalità svedese, magari sono arabi quindi impediscono alle ragazze di venire al corso con me. Negli anni Novanta facevo solo il femminile, i maschi neanche lo sapevano. Poi ho cominciato anche il maschile e il problema è nato quando li ho fatti esibire insieme.

Lavoravi molto con Bollani: avevate progetti sugli anni Trenta, Quaranta, Sessanta. Il tempo per il carcere lo trovavi sempre?

Sempre. Anche se non ci mettevo l’impegno che ci metto oggi. Avevo bisogno di un’associazione che mi rappresentasse perché il Ministero di Grazia e Giustizia non pagava i singoli e, essendo storicamente di sinistra, mi sono affidato all’Arci. Nel 2011 fondai Orkestra ristretta. Dal 2014 ho cominciato a collaborare invece con Tempo Reale (Centro di ricerca Produzione e Didattica n.d.r.), al principio con un progetto loro che si chiamava Sollicciano tour o Leit motiv Sollicciano. Portavo dei piccoli gruppi di pubblico in giro per la prigione, biblioteca, scuola, al seguito di un marching band. E a un certo punto Orkestra ristretta ha veramente decollato.

Nel 2016 Orkestra ristretta ha inciso anche un disco, finanziato dalla Regione Toscana, Otto. Com’è?

Rap anche se non canonico. Il rap canonico è basato quasi unicamente sull’elettronica ed è molto semplice armonicamente, a volte anche uno o due accordi: ha una sua cifra particolare. Questo è un rap da galera perché c’è una parte di suono dal vivo. Live spacchiamo, come direbbe Sfera Ebbasta.

Date le circostanze in Orkestra c’è un bel via vai?

Tutti gli anni cambiamo. Sollicciano non è una casa penale, è una casa circondariale. Quindi sono pochissimi quelli che hanno condanne lunghe da scontare. Quasi tutti sono di passaggio per due o tre anni, al massimo. Però il repertorio ormai c’è. Ora sto lavorando con un rapper nero super e un nigeriano che sembra un cantante americano soul, voce stupenda, alla Otis Redding.

Come scegli i componenti?

Faccio una sorta di casting all’inizio di ogni stagione chiedendo: sapete suonare o cantare? Quest’anno il 10 settembre ci sarà un concerto serale per il pubblico, quindi farò il casting a ottobre. Penso che la musica sia un deterrente per il crimine: in galera sanno suonare pochissime persone. Si trovano percussionisti, ma la gente che suona strumenti armonici è rara. Poi magari invito qualcuno quasi sempre nell’ambito di Tempo Reale. Mi trovo bene con loro, con Francesco Giomi, sono molto professionali.

E chi non ha esperienza ma è attratto?

Lo faccio provare. Se non prendono nemmeno il tempo, magari li tengo e danno una mano con i microfoni. Perché sono severo, veramente una carogna. Con il buonismo di ‘poverino, sta in galera’ diventa una roba da dama di San Vincenzo. Gli agenti amano tantissimo questa mia intransigenza. Io non sono né un giudice né una guardia: o mi fai star bene con la musica o non mi interessa tanto. Invece nel volontariato a volte la mentalità del ‘poverino’ è dannosa. La mia severità, l’essere rompiscatole termina al concerto. Divento San Francesco d’Assisi, faccio passare qualsiasi magagna, cerco di sorridergli. Oltre a essere il capobanda, compongo, e suono con loro. Il mio strumento è la voce, ma le canzoni le scrivo al piano, suono la chitarra e un po’ la batteria. Non mi sarei mai dedicato a uno strumento con questa cura se non fosse stato per loro. Soprattutto sono entrato nel mondo del rap, fatto che alla mia generazione di solito non capita.

Il pubblico?

Impazzisce. È pronto ai ‘poverini’ e quando sente questi che spaccano, lì per lì è allibito, poi trascinato. I ragazzi delle scuole urlano, delirano.

Ci sono dei reati che impediscono la partecipazione alla band?

I detenuti non vogliono pedofili e violentatori. È anche un pregiudizio perché alcuni di questi hanno delle facce da poveri cristi. Ma qualcosa sta cambiando: è stato appena ammesso nel gruppo uno che proviene dalla sezione dei reati sessuali.

Ogni quanto vai a Sollicciano?

Tre volte alle settimane, due dai maschi una dalle femmine. Ma essendo un artista –per artista intendo dire uno che lavora con l’arte, non significa che sia bravo, tengo a chiarire questo equivoco – con la mia capoccia sto sempre sul pezzo. L’impegno mentale in questo momento è costante. Per esempio, e lo dico in anteprima: vorrei fare un album-concept sul carcere in cui mettere le nostre canzoni e anche momenti musicali, a cura di Tempo Reale. Per l’occasione vorrei scrivere un pezzo che poi canterò anche io, mi farebbe piacere. Magari uscirà nel ‘21. In una fase in cui la discografia non esiste, questo progetto mi sembra culturalmente interessante: restituire il carcere come lo possono vedere musicisti professionisti e quelli che stanno dentro. Non voglio dire che è un disco necessario però non è inutile.

Con loro, Massimo Altomare riesce a essere felice.