Al luogo del “limite all'infinito” proprio della “via dell'altro”
qui si ha il limite come infinito... L'effetto è contenuto nel fine
e l'opzione trae da sé medesima la sua materia(Evola, Teoria dell'Individuo Assoluto)
Perché un saggio di filosofia anni ‘20, Teoria dell'Individuo Assoluto di un giovane nobile romano di origini siciliane, Julius Evola, può essere visto quale opera somma culmine della filosofia del Novecento e apertura unica verso gli scenari del futuro? Cosa c'è di così originale e speciale in questa quasi dimenticata e pochissimo letta né studiata opera?
Evola introduce scientemente un nuovo tipo di pensiero che mutua da Hegel un senso cosmico-eracliteo di Dialettica: nell'antitesi fra idealismo classico razionalista, postkantiano e materialismo nelle sue varie anime (positivismo, marxismo, panteismo) Evola individua la superiore e ulteriore sintesi nell'idealismo magico, anticipato da Novalis, Fichte, Holderin e pone in essere una nuova forma, estrema, olistica, integrale, ultima, di idealismo magico, così profonda e coerente da superare il concetto stesso di idealismo e di dialettica hegeliana. Ho introdotto il neologismo di hegelismo di centro, proprio per qualificare la novità assoluta e singolare della filosofia evoliana quale terza via centrale tra l'idealismo liberale quale hegelismo di destra e il marxismo-materialismo quale hegelismo di sinistra che riprende i sofisti e i presocratici.
Il pensiero di Evola è un pensiero centrale, polare, polarizzante, che fa del Centro l'archetipo fisico predominante. Non devia né a destra e né a sinistra. Monito che compare anche nella Sacra Scrittura (Proverbi 4,27, Giosuè 1,7) Roma non ha avuto filosofi. Marco Aurelio espone un pensiero nomade, monadico, cosmista, disorganico, di pura saltuaria meditazione, dove l'uomo resta solo in una via eroica di autodisciplina e ascesi stoica. Non appare un vero filosofo, non la sua una vera filosofia. Non a caso l'imperatore scrive in greco. Non compare filosofia a Roma. Roma si identifica con la Legge, Legge data a se stessa. Roma appare Mito autofondante, rito e azione integrale, non speculazione.
Non si rivela pienezza di visione in questo pensiero. È uno stile di vita, una nobile ed etica praxis. Questa via eroico-pragmatica, dove la sapienza emerge nelle e dalle scelte individuali, viene ripresa e sviluppata da Evola ma con l'innovazione di inserirla in un sistema dove compare ancora il Logos aristotelico con i suoi concetti di forma, ordine e causa. Non compare il concetto di physys: sarebbe un limite al dispiegarsi dell'Io! In questo l'aristotelismo evoliano assomiglia al pragmatismo totale e misticheggiante di Francesco Bacone, a sua volta neoaristotelico, come Evola un Aristotelico eretico, disinibito, per il quale esiste l'yle, materia passiva manipolabile, ma non una physis cosmica data e autonoma dall'umano. Evola assorbe la causa formale aristotelica nell'esserci e nel dispiegarsi dell'Individuo Assoluto quale baconiana forma formante tra gli aristotelici poli di potenza e atto.
Possiamo definire l'evolismo una metafisica immanente dell'Atto e l'Atto evoliano una realizzazione pragmatica e integrale dell'equazione ontologica Io = Io, dove l'Io occorre intenderlo in senso sovrapersonale e ultra-invidualistico, quale autarchia piena, sovranismo spirituale, autodominio verticale, ascendente, mistagogico. Il termine mitogonico aiuta a comprendere Evola quale pensiero militante, combattivo e nel contempo espressione di un Logos trascendente e cosmico che il singolo appare chiamato a inverare e possedere attivamente. Filosofo romano anche in quanto il pensiero di Evola assume come dato dialettico e valoriale centrale il concetto di Limite, quale processo infinito di crescita dalla potenza all'atto.
Lo scegliere quale superare l'infinito che si apre e chiude prima e dopo la scelta come un mare rispetto ad una nave che lo solca. L'Io quale sovranismo e il rapporto con l'Infinito quale rapporto dinamico di possesso e riappropriazione. La vita quale continuo bivio tra Io e Non Io. Il bivio valoriale quale condizione esistenziale, crivello cosmico, setaccio essenziale per una trasformazione alchemica di se stessi. L'Io non desidera, ma compie il proprio stato attuale. L'oggettivo non possiede direzione o soluzione: appare quale semplice fuga continua dal suo essere incapace di sostenere l'a-peiron dell'Io e l'Io quale a-peiron. Mentre infatti l'Io in quanto incondizionato e dato prima della determinazione è chiamato a cogliere se stesso e a rispecchiarsi, il Non Io non riesce a incontrare se stesso o rispecchiarsi, ma solo re-sistere nel suo stato passivo di qualificazione e determinazione data. L'Io si rivela un infinito per il mondo del condizionato. L'Io quale limite, crinale, scelta, differenza, fra infinito e finito, e per l'infinito e il finito. L'unico processo identificativo totale viene posto come quello dell'Io con se stesso, quindi ogni differenziazione e differenza consegue da questo.
Man mano che la partita di scacchi avanza il gioco diventa maggiormente fatale e differenziato. Similmente per l'ambito dell'Individuo Assoluto nel tempo: si compie come destino e come differenza sempre maggiormente distanti, sempre maggiormente singolari. L'Io assoluto nel suo essere questo Io e nel poter esserlo. Ogni scelta o autoposizionamento dell'Io implica sia l'Infinito che il determinato. Io quale termine sia di una propria ontica che di una propria deontica. Ecco inverato il nicciano darsi una legge quale piena autonomia ontica del singolo. L'Io non desidera, ma compie il proprio status attuale. Il di-venire quale desiderio, uscita dall'Io. La Legge biblica comandava: Non desiderare! (Edmond Fleg, Mosè secondo i saggi) L'oggettivo non possiede direzione o soluzione: una semplice fuga continua dal suo essere incapace a sostenere l'a-peiron dell'Io e l'Io quale a-peiron. Il di-venire quale infinito apparente, infinito di secondo grado, che appare come dis-corso, de-corso, de-cadenza.
Per l'Individuo Assoluto l'unico reale si riduce all'assoluto stesso, all'a-peiron, quindi al proprio ambito di realizzazione. La natura del divenire risiede nella crisi del soggetto quale soggetto che si autoaliena, che si coglie dall'esterno quale stato passivo e indeterminatezza. L'Io che emerge dalla dipendenza appare quale Io che media tra l'a-peiron e la negazione del Non Io. Il di-venire quale riduzione alla monodimensionalismo della ripetizione dell'infinito dato quale tutto presente, che si deve assumere e non fuggire o scindere. La posizione dell'Individuo Assoluto si pone come quella di un risveglio radicale, di una presa di possesso verticale, di un ritorno al centro. Il carattere romano di questo pensiero assume molti significativi e coerenti tratti: il generare uno stile di vita di autodisciplina di fronte a se stesso, il considerare il determinato superiore all'indeterminato, quello che opera nell'Io superiore ad ogni fenomenismo contingente (innatismo assoluto), il concepire un'unione nel profondo fra stato libero e stato necessitato, volere e conoscenza, ontica e deontica.
È grazie al Limes che il singolo cresce riscoprendosi epifenomeno dell'Individuo assoluto. Il pensiero di Evola pone le condizioni di esclusione di quello che non ritiene rilevante quale filosofia di rifondazione del giudizio di valore. Ogni giudizio di valore è un ritorno dell'Io a sé, è un moto di libertà che si relazione con sé e si auto rispecchia. Il di-venire è dato dal susseguirsi di atti determinativi posti dall'Io i quali contengono tutti sia una negazione che un'affermazione. All'Io spetta il valore sia nel senso di giudizio sintetico, movimento di totalità, che nell'aspetto esistenziale di auto-ri-appropriazione dell'Io rispetto alla sua libertà che, uscita nel determinare, ritorna nella forma del valore. Questo pensiero è un pensiero deontico anche in quanto presenta quale uno dei suoi aspetti fondamentali il concetto di possesso. Per Evola ogni conoscenza e ogni scelta è possesso, quale nuovo equilibrio dinamico e tensione vitale fra determinato e indeterminato, fra Io quale limite e Io quale ambito. Il valore è possesso, l'Io implica possesso in quanto sovranamente autarchico. Ma non si tratta del possesso quale alienazione, nella visione di immediato utilitarismo edonistico propria dell'Unico di Stirner ma di possesso quale dimensione in dispiegamento tra potenzialità e attualità, quindi quale traccia e percorso di un auto rivelamento identitario. Il possesso evoliano è mediazione assoluta, forma incondizionata, trasparenza dell'Io riconquistata tramite un’esperienza non alienante del e nel Non Io. Il possesso quale processo di mediazione fra identità e differenza.
L'Io in quanto è si coglie quale continuità incessante ed unitaria di una singolarità irriducibile che, in quanto tale, genera sempre relazioni di differenza con il contingente e di identità con se stesso. L'Io determinando si determina quale differenza assoluta e determinando genera la materia del suo dispiegarsi. Lo spessore esistenziale del determinato non supera il valore che è implicito nella possibilità dell'Io. L'esistere quale continua compresenza istantanea di affermazione e negazione, teticità dell'Io e non sussistenza autonoma del Non Io. Esistenza quale processo di scelta. Il di-venire si produce dall'autonegazione dell'Io, matrice del Non Io. In questa logica il possesso è l'ambito dell'Io nel movimento di ritorno a sé dal Non Io. Se infatti il divenire si può visualizzare con l'equazione B = B, dove B è qualsiasi momento, fatto, segmento di un decorso indifferenziato, Io quale assoluto si pone oltre sia il concetto di infinito che quello di divenire. L'infinito sarà infatti assorbibile nell'indeterminato della potenzialità del manifestarsi dell'Io e il determinato sempre sovrastato dall'Io quale principio, non determinato, di determinazione. Ecco l'idea suggestiva e tradizionalmente assai romana di un infinito nel limite.
I romani veneravano come nume Terminus. Roma nasce dalla sacralità di un solco tracciato, limite invalicabile pena la morte. L'unica attività assoluta resta quella dell'Io la cui trascendenza è data nei termini del ciclo fra potenzialità e attualità dell'Io stesso, fra l'Io quale passività, quale persona, cioè maschera, e l'Io auto risolto come assoluto cioè ritornato alla sua autarchica sovranità. Ogni giudizio e atto si dà come mediazione, quindi non esce dalle polarità dell'Io. Un soggettivismo così assoluto, spersonalizzante in senso evolutivo, da esaurire l'idealismo e farsi realismo trascendentale. L'Io quale status verticale che risolve in se stesso ogni antitesi ponendosi quale infinito del finito o infinito nel finito. In questo senso comprendiamo perché Evola consideri tutto il contingente un processo simbolico e rivelativo, nell'ascesi e per l'ascesi dell'Io. L'ascesi evoliana verso l'autorealizzazione dell'Io assoluto procede per gradi di una sempre maggiore contingenza in quanto non avanza verso l'indeterminato ma verso una singolarità determinante sempre più individua. L'affermazione e la negazione infatti procedono entrambi sempre dall'Io. L'esserci dell'Io pone le condizioni della simultanea presenza del Non Io. Non solo: il fenomeno non avendo radice in se stesso si riduce a processo rivelativo e simbolico della trascendenza dell'Io e dell'Io quale trascendenza. L'ambito del Non Io è l'esistenza stessa che è materia e passività dell'Io. Il Non Io si dà solo quale possesso dell'Io, in quanto non esiste in realtà un'equazione B = B quanto esiste l'equazione fondante Io = Io. La mediazione pura tra Non Io e Io è data solo quale possesso dell'Io. L'oggetto si concepisce sempre eterotetico e il soggetto sempre autotetico. È l'Io che genera sia la possibilità che la non possibilità del Non Io.
Il mondo dell'Individuo assoluto è il mondo del telos, cioè della forma e del compimento, dove il finale e l'ultimo è superiore alla virtualità germinale in quanto perfezione della volontà e dell'atto. L'Io appare quale unico termine sia di tale virtualità germinale che del suo compimento formale. La finalità nel divenire è posta solo dall'Io quale istanza incondizionata, che non ha ragione d'essere fuori di se stessa. È il cosiddetto autotelos dell'Io, fondamento del fatto che per questo pensiero il reale è ciò che è veramente voluto e in quanto tale si tratta di uno status superiore al semplice esistenziale esserci. L'esperienza reale è solo quella posta, scelta, voluta dall'Io, altrimenti resta indeterminatezza muta, priva di valore. Il reale è ciò che non sfugge al dominio dell'Io ma tale dominio si apprezza a livello di incondizionatezza, cioè della libertà fra l'essere e il non essere. Nell'atto quale espressione di autosovranità l'Io si possiede liberamente, si dà e si riprende. Quella di Evola è sempre una logica posizionale, come quella degli scacchi. Non a caso il verbo più utilizzato in riferimento all'Io è il suo porsi, cioè la sua mera presenza. Questo perché tale pensiero procede implicitamente per un assioma secondo il quale la vera libertà è libertà anche da se stessa, quindi deve potersi dare anche quale indifferenza rispetto all'essere e al non essere, alla libertà e alla necessità voluta. Così l'indeterminatezza e arbitrio del contingente viene colta e assunta quale riflesso dell'incondizionatezza dell'Io e via, dentro la determinazione, per il ritorno manifesto e lucido dell'Io quale “divenire delle forme”, principio centrale. Non si coglie allora più alcuna separazione tra un'esperienza vissuta quale totalità e una tensione e un anelito ideale.
Bastino questi pochi accenni per comprendere come solo il pensiero di Evola appare oggi un pensiero filosofico ancora vivo, inclusivo e ampio, capace di dare conto delle grandi questioni esistenziali e valoriali in una società dominata dal concetto di individuo e dal concetto di limite. Dimensioni già affrontate e a suo modo risolte dal nobile romano.