Inutile negarlo, il Coronavirus ha slatentizzato la paura di morire.
Come un coperchio che viene alzato su una pentola che bolle, si è visto un magma di paura fino ad allora malcelata. Questa paura è poco definita, indistinta, non razionale.
Ma di che paura si tratta? Vediamoci meglio, cerchiamo di inquadrarla questa paura, di leggerla, di capirne le caratteristiche.
Riporto qui un’interpretazione personale, che mette in relazione le paure del contagio e le paure dell’altro in generale, che si concretizza nell’esplosione di fenomeni di ritorno all’antisemitismo, al neofascismo e così via.
A mio avviso, alla base di tutti questi fenomeni, c’è il timore che l’altro, colui che consideriamo “diverso da noi”, ci invada, prenda il nostro posto, annienti la nostra esistenza.
L’emarginazione che viene fatta a danno dei cinesi durante il manifestarsi di questa epidemia di influenza, emarginazione di fatto molto simile a quella nei confronti dell’ebreo o dell’extracomunitario o del diverso, sembra esprimere l’angoscia di morte, di annullamento, di vuoto, cioè la paura più forte e ancestrale che esista.
Sembra che, in tale frangente, la razionalità venga messa da parte, anzi sia messa decisamente al bando, tanto che dimentichiamo:
• che ogni individuo - noi compresi - ha un sistema immunitario, che va mantenuto integro e forte;
• che chi si ammala è debole, cioè non è riuscito a far fronte all’aggressività dell’agente esterno;
• che non è un fattore di razza o di etnia, cioè siamo tutti uguali;
• di più, che tra gli uomini non esiste razza se non la razza umana;
• che siamo - o almeno così ci professiamo - portatori di valori, in particolare del valore del rispetto dell’altro.
Ebbene, tutti questi concetti sembrano essere stati spazzati via, con un colpo di spugna, da quando la paura ha preso il sopravvento.
Nell’altro non vediamo più il simile, ma il diverso, l’estraneo, il nemico, il pericolo.
Che ne è del Paese pieno di umanità, dove il volontariato sociale la fa da padrone e sostiene il regolare svolgimento di mille attività, che ne è dell’apertura all’altro, che ne è dei valori che la nostra Civiltà ha promosso e diffuso nel mondo? Che ne è del concetto di Umanesimo? Che ne è delle menti brillanti, creative, adattabili, flessibili, ricche delle caratteristiche che nel mondo tutti ci invidiano? Che ne è della capacità di adattamento, dell’abilità nel trovare continuamente nuove soluzioni a nuovi problemi?
Che ne è della nostra proverbiale resilienza?
Vogliamo iniziare a mostrare tutte queste nostre caratteristiche, vogliamo rispolverarle, vogliamo svegliarci, reagire, mostrarci maturi, ragionare, pensare, riflettere prima di esprimere con le parole qualunque bassezza ci venga fuori per una paura che non sappiamo o più spesso non vogliamo gestire?
Vogliamo smetterla di attribuire agli altri le cose negative che non riconosciamo in noi? Non vediamo che il cinese che si ammala è debole, che il cinese che vive in Italia e cammina per le strade è spaventato quanto noi italiani?
Non riusciamo più a guardare negli occhi l’altro?
L’empatia, cioè la capacità di mettersi nei panni dell’altro, è più facile da raggiungere se guardiamo negli occhi l’altra persona.
Sempre che ne abbiamo il coraggio.
O pensiamo che il contagio passi anche dallo sguardo?