Nei pazienti coronaropatici la correlazione tra frequenza cardiaca a riposo (FC) elevata e prognosi negativa è dimostrata da molti anni1. La relazione tra FC e morbilità/mortalità cardiovascolare esiste non solo nei cardiopatici ma anche nella popolazione generale, come dimostrato in molti studi epidemiologici, ad esempio, il Framingham Heart Study2. Una FC elevata è un potente predittore dello sviluppo di ipertensione arteriosa, infarto miocardico, mortalità. La correlazione è presente per tutte le classi di età, indipendentemente dalla presenza di altre malattie coesistenti. Il potere predittivo sarebbe più basso nel sesso femminile, soprattutto per la mortalità coronarica, probabilmente per la molto più frequente comparsa della sindrome ipercinetica, caratterizzata da ipertono simpatico, nel maschio, o forse per il minor numero di morti cardiovascolari nelle donne. L’associazione persiste anche se si escludono dall’analisi i soggetti deceduti nei primi anni successivi alla valutazione iniziale. Questo dimostra che la FC non è un semplice indicatore di malattia cronica sottostante3.
Frequenza cardiaca come fattore di rischio cardiovascolare:
- associazione con mortalità totale o cardiovascolare in molti studi epidemiologici
- associazione indipendente da altri fattori di rischio cardiovascolare
- forza dell’associazione paragonabile a quella del fumo
- associazione presente in differenti contesti clinici e in soggetti con e senza comorbilità
- associazione presente a tutte le età
- associazione meno forte nelle donne
Come per gli altri parametri biologici, la correlazione è lineare e continua, pertanto l’individuazione di un limite superiore di normalità è di difficile soluzione ed esposta a possibili conclusioni arbitrarie. Nella maggioranza degli studi il limite inferiore del quantile più alto è risultato compreso tra 75-89 b/m nelle popolazioni non anziane e tra 74-84 b/m nelle anziane. Anche in queste ultime popolazioni non è stato peraltro riscontrato nessun aumento di rischio per FC < 60 b/m. In pazienti non affetti da bradiaritmie patologiche, si può pertanto affermare che tanto più bassa è la FC tanto minore è il rischio cardiovascolare.
Meccanismi fisiopatologici
L’aumento della FC a riposo sarebbe in parte di origine genetica e in parte ambientale. Rifletterebbe uno squilibrio autonomico caratterizzato dalla prevalenza del tono simpatico, a sua volta di origine primitiva, come nella sindrome ipercinetica, o secondario a patologie come lo scompenso cardiaco o le sindromi coronariche. L’elevata FC promuoverebbe le lesioni aterosclerotiche e ne favorirebbe lo sviluppo successivo aumentando lo stress emodinamico, in particolare le variazioni nella direzione dello “shear stress”, causando talvolta la stessa instabilizzazione delle placche aterosclerotiche. In presenza di cardiopatie l’aumento del consumo di ossigeno e la facilitazione dell’insorgenza di aritmie determinano un ulteriore impatto sfavorevole.
Nei mammiferi frequenza cardiaca a riposo (FC) e aspettativa di vita sono associate da una relazione semilogaritmica inversamente proporzionale: gli animali più piccoli hanno infatti una frequenza più elevata, cui corrisponde una più breve aspettativa di vita rispetto ai più grandi, caratterizzati da una frequenza più bassa. Inoltre, nonostante le enormi differenze di peso, portata cardiaca, volume ematico e durata di vita totale, il consumo di ossigeno e di ATP per unità di massa e il rapporto tra numero totale di battiti cardiaci e spettanza di vita sono pressoché costanti in tutte le specie, dal topo alla balena4. Poiché la spettanza di vita sarebbe predeterminata dal consumo basale cellulare, la FC può essere considerata un marker di consumo vitale: maggiore la FC, maggiore il consumo, minore la durata della vita. Un’eccezione a questa regola si trova nella specie umana che, avendo prolungato di molto la sopravvivenza, accumula nel corso della vita un numero maggiore di battiti cardiaci rispetto ai previsti, mediamente circa 30x108. Ciò è probabilmente dovuto al migliore controllo dei pericoli esterni, agli importanti risultati complessivamente raggiunti in ambito nutrizionale e preventivo, all’efficace trattamento di numerose malattie, in particolare le infettive5.
Perplessità
Nonostante l’evidenza epidemiologica e patogenetica il valore clinico della FC è sicuramente sottostimato, tanto che il parametro non è incluso tra i principali fattori di rischio per malattie cardiovascolari. Le principali perplessità sono relative al ruolo della FC come fattore di rischio indipendente e alla mancata dimostrazione dei benefici legati alla sua riduzione nei soggetti non cardiopatici, benefici invece ben noti negli infartuati e negli scompensati, soprattutto in caso di FC basalmente elevata. L’associazione tra FC elevata e altri fattori di rischio, in particolare l’ipertensione arteriosa, condizione anch’essa associata a elevata attività simpatica, è stata presa in considerazione in una serie di studi epidemiologici che hanno peraltro confermato l’associazione indipendente nei confronti della mortalità, sia cardiovascolare che per tutte le cause, anche dopo aggiustamento per i principali fattori confondenti, compresa l’ipertensione e gli altri maggiori fattori di rischio per aterosclerosi. In molti studi il potere predittivo della FC è risultato maggiore di quello della colesterolemia e della pressione arteriosa.
Restano inoltre ancora da definire le problematiche relative alla variabilità della sua rilevazione, dipendente da molteplici fattori, ad esempio attività fisica recente, stimoli psichici, posizione corporea, ecc. È inoltre necessaria una standardizzazione della misurazione, sia nella pratica quotidiana che negli studi clinici, che spesso non ne riportano la tecnica, in particolare chi ha effettuato il rilevamento, se medico o tecnico, e la posizione del paziente, se supino o seduto.
Conclusioni
I dati di letteratura mettono dunque in evidenza che anche una FC non particolarmente elevata è correlata ad un aumento di morbilità e mortalità cardiovascolare, oltre che ad una ridotta aspettativa di vita. Questo non solo nei cardiopatici ma anche nei pazienti non cardiopatici e negli ipertesi. Mancano peraltro studi clinici controllati e randomizzati in grado di indicare con chiarezza il comportamento migliore in questi ultimi pazienti.
Cosa fare dunque, in presenza di una FC aumentata ma non tachicardica, ad esempio per valori di 85-90 b/m? Anche se il parametro non trova posto nelle tabelle del rischio, i dati epidemiologici invitano sicuramente il medico ad una maggiore attenzione e consapevolezza. In prima battuta si devono escludere condizioni sottostanti in grado di aumentare la FC, ad esempio anemia, ipossia, alcolismo, stress, ansia, depressione, o farmaci tachicardizzanti, quali ormoni tiroidei, ecc.
In pazienti motivati, il consiglio più adeguato è quello di aumentare l’attività fisica aerobica, per spostare il tono autonomico verso una prevalenza della componente parasimpatica. Si devono inoltre sconsigliare abusi di caffè, nicotina, droghe. In presenza di ipertensione arteriosa sono preferibili betabloccanti o calcioantagonisti non diidropiridinici, soprattutto a scopo sintomatico.
La valutazione della FC può dunque essere presa in considerazione nella valutazione del rischio cardiovascolare globale, cercando peraltro di evitare una nuova occasione di medicalizzazione e soprattutto di suscitare allarme. Il battito del cuore è infatti da sempre il tramite dell’impatto emozionale con il mondo esterno, uno dei principali linguaggi per la comunicazione tra corpo e mente. Talvolta il suo lessico può assumere significati minacciosi e diventare motivo di allarme, ansietà, generando talvolta un circolo vizioso spesso di difficile interruzione.
1Dyer AR et al. Heart rate as prognostic factor for coronary heart disease and mortality: finding in three Chicago epidemiologic studies. Am J Epidemiol 1980; 112: 736-49.
2Kannel WB et al. Heart rate and cardiovascular mortality: the Framingham Study. Am Heart J 1987; 113: 1489-94.
3Palatini P. La frequenza cardiaca: un fattore di rischio cardiovascolare che non può essere ignorato. G Ital Cardiol 2006; 7 (2): 119-128.
4Levine HJ. Rest heart rate and life expectancy. J Am Coll Cardiol 1997; 30: 1104-06.
5Cook S et al. High heart rate: a cardiovascular risk factor? Eur Heart J 2006; 27: 2387-93.