Africo, il paese arroccato sulle alture dell’Aspromonte, dove è ambientato all’inizio degli anni Cinquanta il nuovo film di Mimmo Calopresti Aspromonte, la terra degli ultimi, è un posto assai lontano dalla marina, che a guardarla dall’alto sembrerebbe vicinissima, ma in realtà è raggiungibile attraverso lunghi sentieri ripidi, tortuosi e strettissimi, percorribili solo a piedi o a dorso di mulo.
Ciccio Italia, detto il Poeta, forse il più affascinante personaggio del film, uno dei pochi adulti che sa leggere e scrivere, interpretato da uno strepitoso Marcello Fonte, dice alla maestra elementare arrivata coraggiosamente da Como, che lì ad Africo c’è tutto quello che si può desiderare, il sole, l’aria, la campagna e, la vista sul mare; ma gli si legge negli occhi che vorrebbe aggiungere che c’è solo quello. Ed è lo stesso Poeta che al bambino che gli chiede che vuol dire Aspromonte risponde che significa monte lucente, terra dei poeti, e poi confessa amaramente: “Per me è la terra degli ultimi.”
Di Africo ne esistono due molto distanti tra loro. Africo, a breve distanza dal mare Jonio, e Africo Vecchio, quello del film di Calopresti, che è stato abbandonato e ha oggi l’aspetto spettrale e desolato di un borgo fantasma, fatto di ruderi fatiscenti, di case diroccate e scoperchiate, di stradine interrotte che non portano più da nessuna parte. Il paese raccontato e descritto dal film è quello che nel 1948 fu oggetto del reportage di un diffuso settimanale dal quale risultò che le sue condizioni disperate erano rimaste le stesse drammaticamente denunciate venti anni prima da una commissione guidata dal famoso meridionalista Umberto Zanotti Banco.
E al centro del film di Calopresti c’è, vivacemente rappresentata, anche la cronaca di questo reportage. Giornalisti e fotografi, armati di taccuini, microfoni e flash si arrampicano fin lassù perché è giunta oltre regione la notizia clamorosa che gli abitanti si stanno costruendo da soli, con le loro mani e le loro forze, una strada per raggiungere la marina. La decisione, coraggiosa e temeraria, è scaturita spontaneamente dal basso, dagli abitanti, guidati dall’intemperante e coriaceo Peppe. C’è voluta, per fare maturare questa decisione, la tragedia: la morte di una partoriente che non ha potuto avere assistenza perché ad Africo non c’è un medico e non c’è neppure una strada che dalla marina avrebbe potuto portarlo speditamente. In attesa che il prefetto incontrato alla marina da un’arrabbiatissima delegazione, guidata proprio dal focoso Peppe, mantenga la promessa estorta quasi a furore di popolo di mandare un medico condotto, gli uomini di Africo si rimboccano le maniche.
Gli intervistatori arrivano col sussiego di colonizzatori. Guardano, commentano, domandano, fotografano. Si divertono quasi di fronte allo stupore di bambini che assaggiano per la prima volta una caramella passandosela di bocca in bocca meravigliandosi di trovarla buona. Alla pioggia di domande il roccioso Cosimo risponde con sbrigativa naturalezza che loro non si lamentano di niente e non chiedono niente; hanno bisogno della strada e se la fanno.
Ciccio il Poeta, legge poi ai compaesani l’articolo che pubblica il reportage e mostra le foto. Intorno a lui ci sono tutti, bambini e adulti. C’è come sempre in prima fila il battagliero Peppe, uomo dal parlare risoluto e dagli occhi incandescenti: un sanguigno e trascinante Francesco Colella in gran forma. E c’è anche la maestra, che ormai vive con passione e trasporto le sorti del paese: una splendida Valeria Bruni Tedeschi, comunicativa e convincente con la sua tenacia incrollabile, gli stupori improvvisi e le sorprese per scoperte inaspettate in un posto come quello tutto da conoscere e capire.
Due mentalità inconciliabili si scontrano in questo momento con durezza: quella primaria di alimentarsi per vivere e di faticare duramente per poterlo fare, e quella, tutt’altro che secondaria, di sapere. Una giovane bellissima donna, orgogliosa e combattiva come un felino in gabbia, che sembra non aver mai conosciuto un sorriso, contesta il Poeta che legge l’articolo, eccependo che la carta scritta non si mangia, e perciò non serve a niente, e lui, con molta semplicità, ribatte che la lettura nutre il cervello.
Mimmo Calopresti ci racconta con le sue note capacità di descrittore, di ritrattista e di narratore la sua Calabria, quella dei suoi avi e dei suoi fratelli. Che non è quella marinara, spensierata e solare dei turisti o quella dei viaggiatori stranieri alla ricerca del folklorico, del caratteristico e del pittoresco, e nemmeno quella resa nota dalle cronache della ‘ndrangheta. È piuttosto quella aspra e dominatrice delle gole montane, spesso ovattate di nebbia, dei picchi ventosi, delle terre scoscese, dei fitti boschi, della natura inquieta e ruvida che deve essere domata dal lavoro. È quella che entra quasi nel sangue se capita di viverci solo qualche mese con una sorta di insidioso e ineluttabile “mal di Calabria” che coinvolge e avvolge, come accade alla maestra, la settentrionale maestra che, abituata a vivere di regole, di certezze e di presenza dello Stato, si trova ad essere partecipe, prima stupita poi sempre più emozionata, di una rivoluzione. La maestra non ha mai problemi a penetrare il dialetto che vi trova. Ma anche noi spettatori potremmo fare a meno delle didascalie in italiano che scorrono sulle scene, perché quel dialetto strettissimo, ricco di grecismi, è reso accessibilissimo dalla semplice ma efficacissima drammaturgia filmica di Calopresti.
La costruzione della strada, che impegna tutto il paese, bambini compresi, è ostacolata dalla miopia di una burocrazia ottusa che reclama, coadiuvata dalla forza pubblica, autorizzazioni e certificati, e ancor più dalla crudeltà atavica e implacabile del prepotente della zona, don Totò, un truce e algido Sergio Rubini, che, fieramente avverso a qualunque iniziativa innovativa, opprime e decide con la paura che incute e con la minaccia del fucile. Perché la strada porterebbe il cambiamento, servirebbe a rompere l’isolamento, a comunicare, a creare contatti e rapporti, a trasportare, piuttosto che fuggire. Del resto ad Africo la gente è semplice e ospitale. Alla maestra sono istintivamente tributati subito rispetto e simpatia, perfino affetto. Il Poeta le offre collaborazione nell’allestimento dell’aula e piccole perle di saggezza locale; lo scontroso Peppe le porta pane, formaggio e qualche consiglio spassionato, come quello di non fumare in pubblico; gli scolari simpatizzano subito con lei.
Gli abitanti di Africo alla fine, soli e sconfitti, abbandonano quel paese, dove anche la sopravvivenza più sofferta è impossibile, portandosi quel poco di cui possono caricarsi: meglio il rischio dell’ignoto che quel posto inaccessibile dove non sono riusciti a scuotere l’ineluttabile immobilità delle cose.
Seguendo con commozione le scene dell’abbandono, allo spettatore viene da pensare che la fuga non ci sarebbe stata se quella strada, tanto desideratala e tanto osteggiata, fosse stata realizzata. Probabilmente c’è un invito in questo film a smetterla di alzare muri e cominciare ad aprire nuove strade per accogliere. E viene istintivo pensare a quello che ha fatto a Riace Mimmo Lucano per aprire porte, barriere e confini non per continuare a fuggire ma per ospitare. Ha avuto coraggio, perciò, il vecchio Fulvio Lucisano a produrre Aspromonte, la terra degli ultimi di Mimmo Calopresti, un film da non perdere.