Alla fine, quindi, invece di molti tempi possibili, possiamo parlare di un solo tempo: il tempo della nostra esperienza: uniforme, universale, ordinato. Questo è l’approssimazione di un’approssimazione di un’approssimazione di una descrizione del mondo presa dalla prospettiva particolare di noi esseri che ci nutriamo della crescita dell’entropia, ancorati allo scorrere del tempo. Noi, per i quali, come ci dice Qohelet, c’è un tempo per nascere e un tempo per morire. Questo è il tempo per noi: un concetto stratificato, complesso, con molteplici proprietà distinte, che vengono da approssimazioni diverse.
(Carlo Rovelli, L’ordine del tempo)
Molti di noi conoscono il secondo principio della termodinamica: questo principio parte dalla dimostrazione che in un sistema costituito da due corpi l’energia sotto forma di calore tende a distribuirsi dal corpo più caldo all’altro più freddo e che questa distribuzione, se lasciata a se stessa, non ha termine fino a quando entrambi i corpi non raggiungono la stessa temperatura, definendo ‘entropia’ questa trasformazione del sistema.
Non è possibile, invece, che avvenga il contrario: che il calore si muova da un corpo freddo verso un corpo caldo, secondo un movimento inverso. Questo processo sancisce quindi la propria irreversibilità: non è possibile tornare indietro, allo stato precedente. È con questa formulazione, elaborata da Clausius nell’800, che il tempo viene introdotto nella scienza, ed è l’unica formulazione scientifica che distingue un prima e un dopo, un passato e un futuro così come lo intendiamo noi: si muove in una sola direzione, sempre avanti, senza possibilità di muoversi in direzione opposta. È la ‘freccia del tempo’, che stabilisce la direzione della nostra vita e la misura di tutte le cose in giorni, mesi, anni.
Esiste un’ulteriore formulazione del secondo principio della termodinamica, sviluppata successivamente da Ludwig Boltzmann; egli si accorse che il calore deriva dal mescolarsi e scontrarsi delle molecole, le quali con il calore si agitano e aumentano il loro movimento. Il passaggio di calore da un corpo più caldo ad un corpo più freddo avviene grazie allo scontrarsi e al mescolarsi delle molecole calde con quelle fredde, e questo processo si ferma solo quando tutte le molecole, mescolandosi tra loro, hanno raggiunto la medesima temperatura. L’aumento dell’entropia può quindi essere interpretato come un aumento delle possibili configurazioni di un sistema, da poche e ordinate a tante e disordinate. Ci sono infatti pochissimi modi in cui le molecole - o le cellule, o i corpi, o l’universo – possono essere ordinate, e tantissimi altri modi in cui possono essere mescolate tra loro, disordinandosi. In termini di probabilità, si può anche affermare che la probabilità di configurazioni ordinate è molto bassa rispetto alla probabilità di configurazioni disordinate.
Considerando congiuntamente queste due formulazioni, possiamo affermare che, grazie al calore, tutto ciò che esiste si muove da uno stato di ordine verso uno stato di maggiore disordine; in altre parole, tutto tende verso la massima entropia. Possiamo anche affermare che il passato ha una minore entropia del presente; del resto, consideriamo l’invecchiamento come una perdita di ordine: un deterioramento progressivo degli oggetti, una perdita di freschezza e bellezza del nostro corpo.
Questa spinta verso il disordine, verso la dispersione, è definibile, pertanto, anche come la spinta verso l’equilibrio stabile cui tutte le cose di questo universo tendono, per quanto possa apparire, ad un primo sguardo, persino paradossale. È l’equilibrio termico, in cui il calore diviene omogeneo, distribuito in modo uniforme all’interno di tutto il sistema cui ci riferiamo. E questo sistema può essere piccolo come una cellula, o grande come l’intero universo. Un disordine graduale che trova come unico e possibile compimento l’equilibrio finale, la stasi, l’immobilità, in cui tutto si ferma per sempre, verso cui tutto tende. Massimo disordine, massimo equilibrio. Un equilibrio immoto, eterno, in cui nulla può più accadere. Il disordine perfetto. Il momento in cui non c’è più né movimento né cambiamento. La ‘morte fredda’ verso cui tende l’universo.
In base a questo processo, che si muove in un’unica e sola direzione, è possibile per noi riconoscere il nostro tempo, fatto da un prima e un dopo, un passato e un presente, e, forse, un futuro. Il passato è indicato, come un percorso segnato da pietre miliari che indicano il cammino fatto, da ciò che rimane come reperto ai nostri occhi e alla nostra mente: un reperto fossile, un reperto archeologico, un reperto mnemonico. Ciò che ci appare come ordinato, dato per sempre, diviene il nostro passato: ere geologiche, popoli scomparsi, memorie fissate in qualche angolo remoto del nostro cervello. Questo è ciò che chiamiamo passato: ci dà certezza perché ha raggiunto una configurazione ordinata rispetto al contingente che è ancora in divenire. È la possibilità che abbiamo di riconoscerlo a farcelo sentire dato per sempre, e a permetterci di delimitarlo come passato, escludendolo da quella confusa ‘presenza’ che frettolosamente chiamiamo, appunto, ‘presente’.
Distinguere il presente dal passato e dal futuro dipende dal nostro sguardo sul mondo: da quello che consideriamo ordinato e stabile rispetto a ciò che consideriamo ancora incerto e in divenire. Il criterio di ordine e disordine diviene così il nostro criterio per definire il tempo, la nostra storia, la nostra vita.