Dai cartoni che ci insegnano a sentire, ai volti vuoti della cronaca. Cosa succede quando le emozioni prendono il sopravvento?

Ricordo la prima volta che vidi Inside Out. Un film d'animazione che, con semplicità e coraggio, metteva in scena l'interiorità: la mente di una bambina abitata da Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto. Emozioni personificate, ciascuna con un ruolo. Nessuna buona o cattiva. Nessuna da mettere a tacere. Vedere che la tristezza aveva un significato, che la rabbia poteva proteggere, che ogni sfumatura contava, ha avuto su di me l'effetto di uno schiaffo gentile. Un cartone animato che parlava più agli adulti che ai bambini e che ci metteva di fronte a una verità dimenticata: il sentimento è il primo passo per capire chi siamo.

Il cinema e l’introspezione: da Woody Allen a BoJack

Negli anni, altri film e serie hanno provato a fare la stessa cosa, ognuno a modo suo. In Madness, l’ansia diventa un personaggio, caotico e fragile. In BoJack Horseman, la depressione prende forma nel disordine emotivo, nella solitudine mascherata da sarcasmo. Woody Allen – in Tutto quello che avreste sempre voluto sapere sul sesso – immagina una scena surreale e indimenticabile: spermatozoi che parlano tra loro prima dell’eiaculazione, ognuno con dubbi, paure, aspettative. Una parodia, certo. Ma anche un modo per dire che le emozioni più intime meritano una voce. Anche quelle che fanno ridere. O che fanno paura.

Il cinema, la narrativa e perfino l’animazione hanno cominciato a dare parola a ciò che per troppo tempo è rimasto nell’ombra. Hanno iniziato – con ritardo, forse – a costruire mappe per orientarci tra le emozioni. Un’alfabetizzazione sentimentale che si è fatta spazio in un’epoca iperconnessa ma emotivamente disorientata.

Eppure, se guardiamo fuori dallo schermo, sembra che molte menti siano rimaste mute. O forse, piene di voci, ma senza una grammatica per riconoscerle. Quello che non impariamo a nominare, rischia di trasformarsi in qualcosa che ci comanda.

Analfabetismo emotivo

Mi capita spesso, leggendo certi fatti di cronaca, di chiedermi cosa ci sia nella testa di un ragazzo che uccide una ragazza. Un femminicidio non nasce in un istante. È la fine di una catena: fatta di silenzi, di assenze, di segnali ignorati. Ma ancora prima, è un vuoto.

Uno spazio in cui le emozioni esistono, ma non trovano un nome. Nessuna Gioia. Nessuna Tristezza. Solo la Rabbia che cresce. La Paura che si maschera da potere. La Fragilità che viene espulsa come un corpo estraneo.

Il caso di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta è stato uno dei più visibili. Ma non è stato il primo, né l’ultimo. Pochi mesi dopo, nel gennaio 2024, Sabrina Galli è stata uccisa dal compagno in provincia di Como, davanti alla figlia di tre anni. A marzo, Elena Di Carlo, 28 anni, è stata colpita con diciassette coltellate dal suo ex a Bari, dopo averlo lasciato da settimane. E ad aprile 2025, il caso di Martina Russo, strangolata a Roma da un coetaneo con cui aveva avuto una breve relazione, ha riportato sotto i riflettori un copione sempre uguale: la violenza maschile che si attiva nel momento della perdita del controllo.

In molti di questi casi, gli aggressori erano giovanissimi. Universitari, lavoratori precari, ragazzi apparentemente "normali". Ma cresciuti in un contesto dove l’educazione emotiva non esiste.

Dove le emozioni non si nominano, si soffocano. Dove il dolore è debolezza, il rifiuto è umiliazione, e l’amore è ancora confuso con la proprietà. Non c’è un vuoto di emozioni: c’è un caos non ascoltato. La rabbia si ingigantisce. Il disgusto si trasforma in giudizio e disprezzo. La gioia si assottiglia. La tristezza si nasconde. Non riconoscere quello che sentiamo significa lasciarlo crescere senza controllo.

Un problema culturale non solo individuale

Come scrive Martha Nussbaum, "l’educazione sentimentale è una competenza politica, non solo privata." E Daniel Goleman ha parlato più volte di analfabetismo emotivo come fallimento educativo. Una società che reprime i sentimenti o li ridicolizza finisce per produrre adulti che non sanno affrontare né la frustrazione né il rifiuto.

E quando questo si somma a una cultura patriarcale che insegna il dominio anziché la relazione, il risultato può essere tragico. Il dolore non viene pianto. Viene agito. Non c’è nulla da giustificare. Nessuna comprensione può mai alleggerire il peso dell’atto.

Ma ignorare il prima, evitare di guardare dove nasce quel buio, significa permettere che si ripeta. Se tutto quello che sappiamo dire è “mostro”, senza chiederci “da dove arriva quel mostro”, allora stiamo zittendo anche la possibilità di prevenirlo.

Forse, è tempo di tornare a parlare delle emozioni come strumenti di sopravvivenza. Di costruzione. Serve che i ragazzi sappiano che sentire è umano. Che la rabbia si può gestire, la tristezza si può accogliere, la paura si può dire. Serve una nuova educazione emotiva, onesta, profonda. Che non eviti il conflitto, ma lo attraversi.

E serve anche un’altra cosa, semplice ma urgente: chiedere aiuto.

Farsi aiutare da uno specialista non è una sconfitta.

Sentirsi fragili, confusi, arrabbiati o in bilico capita. Ma quando le emozioni sembrano prendere il sopravvento, parlarne può fare la differenza. Può salvare chi sente e chi sta intorno. Può salvare tutti. Dentro ogni mente ci sono voci. Alcune sono luminose, altre disturbano. Ma tutte, se riconosciute, smettono di fare terrore.

Forse è questo che ci insegnano certe storie, certi film, certe narrazioni: che ciò che possiamo nominare, possiamo anche attraversarlo. E forse, salvarlo.

In memoria

A tutte le sorelle perdute, ai nomi pronunciati troppo tardi, a chi resta a contare silenzi. Perché nessuna debba più morire per aver detto no.