Ritratto d’ignoto è la mostra, appositamente pensata dall’artista siciliano Giovanni Leto per i suggestivi spazi della Cappella dell’Incoronata presso il Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo, che si sviluppa nella navata e nella sala ipostila con lavori che modulano l’ambiente espositivo dialogando con un “luogo” carico di storia e di cultura. La mostra, inaugurata il 5 dicembre e aperta al pubblico fino al 5 febbraio 2020, dà voce ad una personale e originale interpretazione dell’artista sul suo essere nel mondo, come in un gioco di scatole cinesi, attraverso altre “rappresentazioni” di mondo: le pagine dei quotidiani.
Materia, superficie e volume: sembrano essere queste alcune delle tematiche costruite a partire da una matrice artistica riconducibile ad una pittura “materica”, fortemente calata in un contesto pittorico “au delà de la peinture”: il confine entro il quale l’artista ha sperimentato le prime esperienze per approdare, poi, alle più recenti opere frutto di una ricerca in continuo divenire.
Come afferma Franco Lo Piparo, nel testo critico presente nel catalogo della mostra: “Le rappresentazioni artistiche di Leto sono costruite con la materialità di altri pezzi di mondo che sono essi stessi immagini del mondo”.
La scelta stessa del titolo allude alla rappresentazione di ciò che si ignora o non si può vedere. “Tutta l’arte religiosa e sacra - afferma nuovamente Lo Piparo - altro non è che la rappresentazione dell’invisibile. Si può dire di più, tutta l’arte figurativa è un mostrare ciò che non si vede. Anche l’arte cosiddetta realistica. Per il semplice fatto che in un’immagine c’è sempre un’idea. Un’immagine, qualunque essa sia, ha in sé un discorso o, ancora meglio, una molteplicità di discorsi possibili. Capire un’immagine equivale a spiegarne il senso con parole. Un’immagine conterrà tanti sensi quanti sono i discorsi possibili che la spiegano. Questo vale in special modo per le opere qui raccolte. L’oggetto rappresentato è altamente filosofico e (meta)fisico: la intelaiatura fondamentale dell’universo. Il tempo, la materia, la forma, l’energia, l’origine dell’universo. In poche parole, Dio nella versione della scienza contemporanea”.
La materia prima di qualsiasi interpretazione possibile, al di là di ogni significato e significante, è dunque protagonista in questa mostra.
Le opere, quadri e installazioni, si dispiegano nello spazio espositivo declinando quei concetti che stanno alla base del lavoro di Giovanni Leto – tempo, spazio, forma; materia, energia; memoria, oggetto, segno – ma sempre attraverso l’uso delle carte e delle stoffe arrotolate e fittamente addossate le une alle altre, secondo una pratica artistica, adottata a partire dagli anni Ottanta nella serie Orizzonti, divenuta cifra stilistica dell’artista. Tale pratica si evolve negli anni successivi in concrezioni che lievitano e crescono, delineandosi sempre più come oggetti tattili di rinnovata spazialità, oppure iniziano a sfaldarsi, lasciando il posto alla materia pittorica.
Sono le macerie della civiltà che da sempre mi affascinano nelle opere di Giovanni Leto. Quelle macerie che rivelano una ricerca costante, epifanica, stilisticamente incastonata nel suo tempo e, pertanto, in continuo divenire, una ricerca che risente dell’urgenza di una rivelazione, che “non dice né nasconde, ma accenna”; (come già aveva intuito Eraclito).
Gli oggetti tattili assumono un nuovo significato e trovano una nuova collocazione nel luogo “delle terre di nessuno, della assenza dell’uomo stampata negli orizzonti con tante schegge di sua passata e consumata presenza” (Marcello Venturoli, Giovanni Leto, Le terre di nessuno, ed. Associazione Culturale Hobelix, Messina, 1985).
La ricerca di Leto affonda nella fenomenologia dell’essere umano, nella ricerca incessante di una qualche forma di evocazione visiva. La spiritualità del suo racconto, memore di un’avanguardia recente ma comunque legata al passato di un’altra generazione, risente di uno slancio culturale dove pop e arte povera si intrecciano nella materia e attraverso la materia. In questo processo di accumulo materico e di stratificazione possiamo leggere una nuova architettura della narrazione, dell’arte di raccontare l’attuale o meglio, di raccontare la storia personale e collettiva in un gioco (e in un intreccio) di materiali e colori creando trascendenze pittoriche e suggestioni filologiche che richiamano i Sacchi di Burri e i décollages di Rotella.
In occasione della mostra Ritratto d’ignoto verrà presentata al pubblico, nello spazio vetrina di Palazzo Belmonte Riso, l’opera Senza titolo7, donata dall’artista per la collezione permanente del Museo, espressione di quell’evoluzione creativa dell’artista che criticamente mirava alla qualità della materia allo stato originario e all'idea di un'arte in grado di contraddire la tradizionale bidimensionalità del quadro per conferire all'opera qualità tridimensionali e rinnovate capacità di dialogo con il pubblico.