Se ho interpretato bene la mia parte, battete tutti le mani e, dal palcoscenico, licenziatemi con un applauso, recita Augusto prima di morire (Svetonio, Vita dei Cesari II, Augusto, 99).
Quello che declamava Augusto era il copione unico e irripetibile della sua vita, non una sceneggiatura qualunque. Se si pensa, inoltre, che, secondo i toltechi, ognuno vive nel suo personale sogno influenzato dall’ambiente familiare, sociale e dal contesto storico in cui si trova, possiamo immaginare che la vita di ognuno di noi si svolga sul palcoscenico della realtà e la sua sceneggiatura sia interamente scritta nel personale destino di ciascuno. Cosa fa dunque l’artista che crea una sceneggiatura se non dare una sua fantasiosa lettura degli accadimenti? E non è egli fortunato, visto che esplora altre possibilità oltre a quella che gli è consentito di vivere? E l’attore che interpreta il copione non è anch’egli chiamato ad approfondire personalità consce o inconsce attraverso cui mettersi profondamente in gioco? Cerchiamo di comprenderlo meglio attraverso l’intervista all’attore Luca Martella.
Quando ti viene proposta una parte – immagino attraverso un provino – come ti prepari per entrare nei panni del personaggio?
Dopo aver letto la sceneggiatura, cerco di documentarmi sul personaggio: se è vissuto realmente posso attingere a fonti reali che mi aiutano a entrare in contatto empatico con la sua personalità, con le sue manie, con la sua essenza; se, invece, si tratta di un personaggio nato dalla fantasia del suo creatore, sia esso lo sceneggiatore o l’autore dell’idea, devo fare lo sforzo di immaginarmelo, e questo è uno stimolo per me stesso perché mi costringe ad attingere le risorse per interpretarlo dalla mia stessa esperienza personale, dalle mie emozioni, dai miei traumi, dalle mie paure, dalle mie più profonde convinzioni, o dai miei più annosi dubbi…
Come influisce il tuo aspetto fisico per l’assegnazione della parte? Quali cambiamenti sono necessari?
Un tempo la fisiognomica dell’attore era fondamentale per la scelta del personaggio da interpretare. Mi ricordo che mio nonno, e poi mio padre, che possedevano un cinema, mi dicevano sempre che i personaggi dovevano avere “facce”, caratteristiche che raccontavano qualcosa. Oggi conta il fattore bellezza così come espresso dai canoni della pubblicità che spesso porta l’attore ad essere fuori ruolo. Io sono vicino ai canoni del cinema classico, per fare del cinema sono convinto che devi possedere la faccia giusta, per interpretare un ruolo, dovresti essere dotato di quel preciso aspetto, che non sempre converge con un canone di bellezza condiviso, ma che incarna il personaggio da interpretare. Le modifiche che si mettono in atto – farsi crescere la barba, i baffi, cambiare taglio di capelli – fanno parte del gioco…
Una volta che ti hanno assegnato la parte, come interagisci con il copione?
La passione per questo mestiere arriva a tal punto che il copione per me diventa una sorta di compagna di vita… Mi spiego meglio: se esco in macchina, il copione deve essere nel sedile accanto a me, se viaggio in treno, lui mi segue dentro lo zainetto che mi porto sempre dietro, se vado a dormire lo metto accanto a me e gli do il bacio della buonanotte… Insomma, una volta che mi viene assegnata una parte, il copione lo devo vedere ovunque, devo aver cioè presente la mia parte in qualunque situazione mi possa capitare, insomma ci vivo in simbiosi, e lei, la sceneggiatura/copione del momento, diventa la mia amante…
Preferisci interpretare un ruolo vicino al tuo modo di essere o una parte dove ricercare dentro di te una personalità più nascosta?
Preferisco senza dubbio interpretare un personaggio che non appartiene alle mie corde, così ho l’occasione di mettermi in discussione, di esplorare qualcosa di nuovo… se interpreto sempre lo stesso copione, lo conosco bene, lo padroneggio, ma magari non riesco a coglierne tutte le sfumature, proprio come fa una goccia dentro al suo mare… Invece sono molto stimolato dalla ricerca dentro di me di quella personalità che credo mi sia lontana… Mi accorgo paradossalmente, non so per quale perversa ragione, che, andando a scoprire a fondo il personaggio, alla fine lo trovo più vicino, simpaticamente posso scoprire parecchie cose del mio modo di pensare, di agire, insomma quella parte mi consente l’esplorazione, il viaggio verso verità che non erano ancora emerse…
Come influisce sulla tua quotidianità lo studio di un copione?
“Purtroppo o per fortuna” influisce notevolmente. Se devo, per esempio, prepararmi a interpretare un personaggio un po’ violento, allora nella vita di tutti i giorni esaspero certi miei atteggiamenti e forse in quel momento vive più il personaggio che Luca. Per me è un piacere, per chi mi sta vicino può essere meno divertente… Del resto se devo interpretare, invece, un personaggio romantico, posso essere ancora più romantico, quindi, chi vive accanto a me può godere di questa nuova luce… Poi, quando sono alle prese con un nuovo personaggio, mi capita di isolarmi, di voler stare con il personaggio e quindi finisco con il confrontarmi e relazionarmi in quel modo… Può sembrare un assurdo, ma ognuno di noi, in questo lavoro di attore, si porta un po’ fuori dal palcoscenico il personaggio per un periodo più o meno lungo…
Ti è capitato di avere un passato in comune con il personaggio da interpretare?
Alla fine capita più spesso di quanto uno possa immaginare. Mi è capitato di interpretare personaggi con le mie stesse difficoltà esistenziali, con gli stessi conflitti, le stesse fobie, gli stessi dubbi, ma anche con gli stessi interessi. Mi ricordo come, nel film di Eugenio Cappuccio Uno su Due con Fabio Volo, ho dovuto avere a che fare con la stessa malattia. Nel 2004 ero stato operato per un brutto tumore alla tiroide, insomma, una di quelle malattie da cui non sai se esci vivo. È stato un periodo difficile, pieno di paura, ma anche di una grande forza. A un certo punto mi sono imposto di essere un guerriero che decide di combattere col male, ho pensato che dovevo farcela, per me stesso, per i miei figli, per la mia famiglia... Ero appena uscito dalla fase critica della malattia e lo raccontavo con coinvolgimento a un amico durante una cena. A fianco a me c’era Eugenio Cappuccio, io nemmeno lo conoscevo, ma lui mi prese da una parte e volle sapere tutto. Mi ascoltò visibilmente emozionato e dopo pochi giorni mi propose il ruolo dell’istruttore di parapendio. Fabio Volo interpretava la parte del malato e io gli insegnavo la magia del volo non solo in senso fisico, ma anche metafisico. Lo aiutavo a volare verso l’alto, verso l’altro e soprattutto dentro se stesso… è stata davvero un’esperienza straordinaria sia perché ho dovuto riaffrontare, come guida spirituale, il viaggio emotivo verso la guarigione, sia per la passione e amore con cui è stato gestito il set, proprio come me lo ero sempre sognato…
Preferisci interpretare la tua parte in teatro, in televisione o al cinema? Perché?
Preferisco il teatro perché sicuramente mi concede maggiore libertà e preferisco il cinema perché ho la possibilità di rivedermi, cosa che non succede a teatro. Questo è il dramma dell’attore in teatro… Infatti, a teatro, si sprigiona una potente energia dallo scambio con il pubblico… sul palcoscenico la senti e ti ricarica. Tu puoi anche riprendere la scena, non potrai però mai percepire questo scambio e non potrai mai immortalare l’emozione che vive l’attore in quel momento. Poi a teatro c’è un livello di attenzione che sicuramente è superiore. Riesco ad entrare maggiormente in ascolto con me stesso, c’è un silenzio emozionante, anche se poi non posso rivedermi. Credo che però ogni attore, così come capita a me, riesca anche a vedersi dal di fuori, attraverso lo sdoppiamento che è in grado di attuare sul palcoscenico… io divento la guida di me stesso, c’è un altro me che mi guarda dal di fuori e mi suggerisce lo spettacolo, come in uno specchio… Comunque anche il cinema mi piace molto e la macchina da presa ha il suo fascino…
Quale esperienza televisiva ti ha segnato maggiormente?
Sicuramente il personaggio che mi è rimasto più dentro e che mi ha dato più notorietà è stato quello del gangster irlandese che interpretai nel 2005 nella fiction Orgoglio. Intanto era una fiction in costume ambientata a fine ottocento e il costume già parla per te… in secondo luogo, chi è che non ha mai sognato di fare il cattivo? Di ammazzare qualcuno? Del resto è nell’immaginario collettivo… tant’è che la Fiction ha avuto un indice di ascolto con punte fino a 14 milioni di telespettatori. Siccome il pubblico si immedesima nel personaggio e nella storia, mi è capitato che la gente per strada mi fermasse e mi scambiasse realmente per quel gangster. Qualcuno mi diceva delle parolacce, a volte mi offendevano perché erano arrabbiati per il massacro che avevo fatto sullo schermo, non comprendendo più il limite tra la realtà e la finzione... Ma del resto tutti i grandi attori – Al Pacino, De Niro, e il nostro Remo Girone, ecc. – sono passati almeno una volta per il ruolo del cattivo…
Quale film ti ha mostrato una faccia inaspettata di te stesso? È stato per via del copione? Per le persone che hai incontrato? O per il luogo dove è stata girata la pellicola?
Sono un po’ innamorato di tutti personaggi che io interpreto con la stessa professionalità e passione, perché in ogni personaggio ho trovato o scoperto qualcosa che mi apparteneva, certi lati del mio carattere, certi miei comportamenti… ma, quando mi sono trovato a recitare con dei grandi attori, quell’esperienza mi ha cambiato. Nel 2003 ho avuto la fortuna di incontrare Nino Manfredi sul set di La notte di Pasquino, di Luigi Magni e lavorare con un mostro sacro come Manfredi mi ha consentito di entrare più facilmente in empatia col mio personaggio e poi è stata una vera scuola, quando vedevo recitare lui, con quella sua gestualità, quella sua mimica… mi si è aperto un mondo e ho amato anche di più il mio personaggio, la mia piccola luce diventava ancora più luminosa avendo davanti il faro Manfredi. Mi sono poi addirittura stupito e impressionato quando, nel 2005 nella fiction Psyco - Delitti per gioco di Davide Mazzoli, ho interpretato la parte di un criminologo insieme a Remo Girone, quel Tano Cariddi de La Piovra che avevo conosciuto e apprezzato tantissimo quasi trent’anni prima. Trovarmelo davanti in tutto il suo spessore, mi ha consentito di dare il meglio di me stesso. È stato faticoso imparare tutto a memoria, ma facendomi guidare da quella sua faccia che parlava anche senza parlare, la mia interpretazione è stata una delle migliori della mia carriera…
Se io fossi un’attrice mi piacerebbe interpretare il copione a modo mio, vale a dire apportare delle piccole modifiche alle battute imposte dal copione. Ma io non sono un’attrice. A te che sei un attore capita di discostarti un poco dal copione per cucirtelo meglio addosso?
Non è così semplice, difficilmente ti puoi discostare dal copione. Devi imparare quello che gli sceneggiatori hanno scritto per te, per il personaggio. Poi, magari, qualche modifica è concessa sempre dopo aver parlato con il regista, l’ultima parola spetta sempre a lui. Quello che posso dirti è che, ogni volta che interpretiamo un personaggio, affrontiamo un viaggio, raccontiamo una storia e quello che io posso fare è che la storia sia il più possibile emozionante e avvincente. Il racconto diventa mio, perché quelle parole del personaggio, sono parole vuote se io non do un senso mio, ogni attore nella sua testa compie il suo personale viaggio prestando le sue emozioni al personaggio, sarà sempre quella storia, pronuncerai quelle esatte parole, ma riempirai il tuo racconto con le emozioni che troverai dentro di te, con il tuo viaggio, con la tua storia…
Quanto ti impegna la comunicazione non verbale nelle tue interpretazioni?
Direi che è basilare. Io ho studiato al Teatro dè Cocci – ci tengo a dirlo perché da quella scuola sono usciti tanti grandi attori – e una delle prime cose che mi hanno insegnato è che il bravo attore si vede proprio nei piani di ascolto, quando cioè non recita verbalmente, in un dialogo in cui non è lui a parlare, l’altro parla e lui è in fase di ascolto. Non è che posso recepire in maniera passiva le parole del mio collega, in qualche modo devo saperle vivere. Nella seconda puntata di Un caso di coscienza 5, Una promessa mantenuta con Sebastiano Somma trasmessa da poco su Rai1, dove ho interpretato il ruolo di un secondino imputato in un caso di omicidio, ho dovuto vivere tutte le fasi del processo quasi senza parlare mentre ascoltavo tutti i capi d’imputazione o il verdetto di condanna. In questo caso è stata essenziale la mia reazione non verbale. I piani d’ascolto, quindi, sono stati fondamentali. È chiaro che deve essere bravo il regista – in questo caso Luigi Perelli – a saper cogliere questi momenti nello sguardo dell’attore. A differenza del teatro, dove anche il corpo, la gestualità giocano un ruolo fondamentale, davanti alla macchina da presa l’attore dev’essere bravo a raccontare con gli occhi e il regista deve saper cogliere questo racconto in quello sguardo…
Oltre che rappresentare un copione da attore, ti è capitato di rappresentarlo come regista?
Sì, quando faccio il regista e l’attore dei miei spettacoli o quando metto in scena uno spettacolo con gli allievi dei miei laboratori teatrali: in questi casi in qualche modo li guido ma mi lascio anche guidare. La cosa che mi piace dei giovani è che paradossalmente sono loro che mi insegnano forse più di quello che io insegno loro, hanno la capacità di farmi comprendere cose che avevo dimenticato. Perché il teatro non è altro che un gioco, anche se un gioco serio, con le sue regole, e quest’aspetto, quando diventiamo adulti, tendiamo a dimenticarcelo. Tant’è che per gli inglesi recitare è to play…
Quanto conta la scenografia all’interno di una sceneggiatura al cinema? E a teatro?
La scenografia è come l’abito del personaggio, nella finzione recitare in un ambiente che in qualche modo mi ricorda il periodo storico, l’epoca, la situazione è chiaro che mi condiziona e mi stimola aiutandomi a vestire i suoi panni. Spesso chiedo aiuto al Maestro Scenografo Osvaldo Desideri - Premio Oscar per L’Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci – e a sua moglie Ewa, che vestono con passione e intuito il palcoscenico dei miei spettacoli interpretando al meglio il copione. Se al cinema la scenografia sembra qualcosa di fondamentale, a teatro, un tavolo, una sedia, o i pochi oggetti a disposizione, sono addirittura essenziali. Siccome il teatro è minimalista, ogni piccolo oggetto mi racconta qualcosa e mi consente di giocare di più. Mentre al cinema la scenografia dà forza all’attore, a teatro è l’attore che dà forza all’oggetto, che lo fa vivere. Sei lì che parli con una candela o con una bottiglia, è una cosa che può succedere soltanto a teatro, su un palcoscenico e così in quel momento l’oggetto prende vita. Una sedia a teatro può anche parlare. Quando faccio il monologo di Gaber La sedia da spostare, la sedia comincia a parlare, mi fa quasi da spalla. È pur vero che anche nel cinema d’autore, per esempio in Bergman o anche in film come Interiors di Woody Allen, dove le scenografie sono minimaliste, la scena è nella forza degli attori, nella recitazione ma anche nei dialoghi, nella forza della sceneggiatura.. In effetti, alcune scene sono quasi dei fotogrammi e ricordano l’atmosfera teatrale…
Qual è per te il palcoscenico ideale? Preferisci rapportarti con il pubblico del teatro o con l’occhio magico della macchina da presa?
Come ti ho già detto, il palcoscenico mi piace di più per certi aspetti, la macchina da presa per altri, però quando faccio uno spettacolo a teatro e sono padrone della scena, come quando interpreto i monologhi o le canzoni di Giorgio Gaber, allora quella è la mia dimensione ideale. Mi immedesimo talmente nel personaggio, nell’uomo, nel filosofo, nel poeta, nello scrittore, nel cantante naturalmente, che mi sento quasi più a mio agio che nella vita reale. Avere la possibilità di suscitare nel pubblico che ho davanti lo stupore, il sorriso, la commozione, il dubbio, la rabbia, la lucida riflessione, mi stimola a fare nuovi spettacoli. Il pubblico, infatti, mi ricarica di energia: in questo mio racconto mi emoziono con la speranza di emozionare. Quando poi interpreto il Signor G, ho la sensazione che, attraverso di lui, posso avere una sorta di missione da compiere, come risvegliare le coscienze e produrre anche se solo culturalmente, un cambiamento, una trasformazione interiore. Il mio palcoscenico ideale, quindi, è senza dubbio quello del Teatro-Canzone di Gaber-Luporini…
Quando ti è nata la passione per il cinema? C’è un accadimento, un luogo o una persona che ti hanno stimolato?
Devo tutto a mio padre e a mio nonno che, come ti ho già detto, possedevano un cinema a Ciampino e io sono cresciuto là dentro. Una delle esperienze più forti che ho provato nel film dove ho interpretato l’irlandese è che era prodotto dalla Titanus, un marchio storico che inizialmente faceva solo ed esclusivamente cinema. Ricordo che da piccolo vedevo quella sigla con una specie di cuore a tre punte e mi figuravo un intero pianeta di immagini, forse il cinema stesso, per cui, quando ho firmato il contratto con la Titanus, non ho difficoltà ad ammettere che mi tremava letteralmente la mano. Mio padre mi ha trasmesso questa grande passione per il cinema, senza poi considerare il fatto che quando, con mio padre e i miei due fratelli, andavamo alla Titanus a prendere le pellicole, le cosiddette “Pizze” e mi capitava di vedere Gassman, la Loren, Manfredi, Sordi, Mastroianni e poi quelle stesse persone rispuntavano incredibilmente dalle pellicole materializzandosi sullo schermo, io non comprendevo: per me che ero molto piccolo questo era un miracolo inspiegabile. E forse è per questo che ho voluto dedicarmi alla magia del cinema e poi del teatro…
C’è un personaggio che hai amato particolarmente? Per quali motivi?
In assoluto Gaber è il personaggio che ho amato di più e che tuttora amo di più, come avrai già capito… Lui non mi abbandona mai, è l’unico copione che voglio sempre accanto a me, direi che la cosa tragicomica è che mi rivedo integralmente nei suoi copioni, tutto quello che ha scritto sembra scritto per me. E anche gli spettatori, dopo lo spettacolo, spesso si avvicinano stupiti per aver intravisto questo mio sdoppiamento in lui. Gaber mi ha insegnato e ancora mi insegna più di qualunque scuola, addirittura abbiamo avuto le stesse vicissitudini e anche la stessa malattia, da cui io, per fortuna, sono guarito… Per cui quando finisce lo spettacolo non vedo l’ora di ricominciare come fosse quasi una droga. Del resto, con questo naso, uguale al suo e con questa mia somiglianza anche esteriore era quasi un destino che lo dovessi incontrare e il suo teatro è talmente vasto, profondo e vario che è difficile annoiarsi e pensare di averlo compreso pienamente e intensamente…
Come ti ispira il personaggio di Gaber e il rapporto con il suo eterno fratello Luporini?
Gaber e Luporini hanno interpretato la crisi dell’uomo a tutto tondo senza mai pretendere di dare delle risposte ma semplicemente cercando di suscitare dei dubbi. Negli innumerevoli monologhi e canzoni che hanno scritto, hanno poi interpretato lo spirito del loro tempo che però è anche quello dei nostri tempi, vivo e vero come non mai in questo momento storico di crisi economica, sociale, delle coscienze, dei valori, dei rapporti, della famiglia, dell’amore…
Qual è il tuo più grande Sogno come attore?
Vivere girando i palcoscenici dei più grandi teatri italiani portando il messaggio gaberiano in ogni luogo disposto ad accoglierlo, magari anche nelle scuole dove una coscienza più giovane può assorbirlo più profondamente. Vivrei facendo trecentosessanta spettacoli l’anno a trecentosessanta gradi… E non mi risparmierei sulla durata – sarei capace di fare tre ore di spettacolo senza fermarmi – se non temessi di annoiare lo spettatore… e nemmeno sul numero dei bis… Poi magari mi intratterrei con gli spettatori per comprendere se posso migliorare qualcosa dello spettacolo: dall’uomo della strada all’intellettuale alla più ingenua donna di casa… del resto questo amava fare anche il Signor G… Sembra proprio che il destino non me lo abbia fatto incontrare per caso. Il primo monologo della mia carriera di attore, infatti, al tempo del Teatro dè Cocci, fu appunto La Paura di Gaber e da quel momento ho cominciato a superare la mia…
Di quale film vorresti essere protagonista?
Il mio sogno sarebbe quello di poter interpretare il personaggio di Gaber al cinema, la sua vita, i suoi desideri, le sue delusioni, i suoi sforzi per comprendere ogni cosa, il dialogo incessante con il suo amico e coautore Luporini in questo scambio che ha prodotto tutto il Teatro-Canzone… Penso che ci metterei veramente tutto me stesso, come faccio sempre del resto…
Dopo queste appassionanti risposte di Luca Martella sul copione è interessante esaminare quanto questo tema sia legato alla psicanalisi. Secondo lo psicologo canadese Eric Berne (1910–1970), padre dell’analisi transazionale, ogni individuo segue il suo copione esistenziale: “Un piano di vita inconscio che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori (attraverso messaggi verbali e non verbali), giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva”.
Esiste, quindi, una stretta analogia tra copioni di vita e copioni teatrali, perché questi ultimi, “derivano da copioni della vita reale”. Come scriveva già lo stagirita Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.): “Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia… dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni”. Per questo motivo sempre secondo Berne: “Anche le scene dei copioni di vita devono essere programmate e prestabilite esattamente come quelle dei copioni teatrali”.
Ciascuno di noi, infatti, recita sul palcoscenico della vita un dramma che ha un inizio, un punto di mezzo e una fine. Le prime decisioni che abbiamo preso nella vita sono quelle più profonde e immutabili e determinano in maniera fondamentale l'assunzione del ruolo con cui recitiamo la nostra parte sulla scena del mondo. La liberazione dal ruolo determinato dal contesto in cui ci siamo formati avviene, quindi, attraverso un lungo percorso, un copione che continua a svilupparsi verso la libertà, la realizzazione e il benessere personale in una tensione continua che ci porta a interpretare sempre nuovi soggetti. Del resto secondo il più eminente drammaturgo della cultura occidentale William Shakespeare (1564–1616): Tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nel tempo che gli è dato, rappresenta diverse parti (Come Vi Piace, Iacopo: atto II, scena VII).
Dal canto suo, lo psicologo tedesco Bert Hellinger (1925), partendo dalla considerazione che, spesso, la nostra esistenza appare condizionata da destini e sentimenti che non sono veramente propri e personali, ma che appartengono a "grovigli" del sistema-famiglia, cerca di portare alla luce questi meccanismi attraverso il processo delle Costellazioni Familiari. Si tratta di una terapia riprodotta da rappresentanti che, affidandosi all’istinto, mettono in scena i meccanismi comportamentali esistenti tra i membri di una famiglia o di un gruppo, evidenziando le dinamiche inconsce che causano sofferenza nelle relazioni affettive e professionali o nel rapporto con il denaro e con la salute.
Per far fronte all’azione che questa struttura arcaica, cieca e inconscia, esercita dentro di noi, potremmo affidarci a questo semplice suggerimento di Albert Einstein: Ogni essere umano è parte di un tutto chiamato Universo. Egli sperimenta i suoi pensieri e i sentimenti come qualcosa di separato dal resto: una specie di illusione ottica della coscienza. Questa illusione è una specie di prigione. Il nostro compito deve essere quello di liberare noi stessi da questa prigione attraverso l'allargamento del nostro circolo di conoscenza e comprensione, sino ad includere tutte le creature viventi e l'interezza della natura nella sua bellezza.
E dunque è l’attore colui che affronta continuamente il piacevole viaggio verso la comprensione e guarigione di se stesso approfondendo la miriade di personalità e sotto-personalità che lo fanno agire per acquisire la sua interezza! Secondo il metodo proposto dal drammaturgo russo Konstantin Sergeevič Stanislavskij (1863 – 1938) risulta, infatti, fondamentale per diventare davvero credibili sul palcoscenico "il lavoro dell’attore su se stesso" e "il lavoro dell'attore sul personaggio".
Se è vero, dunque, che un attore che si rispetti si mette continuamente in discussione attraverso l’affascinante gioco del palcoscenico, cosa facciamo, invece, tutti noi per diventare credibili nel tragicomico palcoscenico della vita? Ci immergiamo coraggiosamente nella nostra storia cercando di trasformare quello che non ci appartiene o ripetiamo infinitamente e fissamente lo stesso copione? Ma del resto cosa c’è di realmente vero nella nostra esistenza?
Luca Martella: Rispondo con i primi due versi del sonetto di Gigi Proietti Teatro: Viva er teatro dove tutto è finto/ ma gnente c’è de farzo e questo è vero.
Così come Qualcuno disse: Siamo noi gli unici attori e registi della nostra vita, ognuno ha in mano il proprio copione da scrivere prima, e recitare poi... il singolo individuo è l'unico selettore delle sue scelte e dunque l'unico responsabile delle conseguenze che da esse derivano. Esso decide se e quali maschere indossare in ogni circostanza, esso decide se VIVERE o SOPRAVVIVERE durante la sua permanenza in questa breve vita, esso sceglie se mettere in scena – su quel freddo e apatico palcoscenico (il mondo) che lo ospita temporaneamente in attesa di volti nuovi e sceneggiature nuove – un ruolo da protagonista o uno da comparsa.
Del resto Oscar Wilde diceva: Vivere è la cosa più rara al mondo. La maggior parte della gente esiste... e nulla più.
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