Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione Giovanna Lacedra incontra Loredana Longo (Catania, 1967).
Le violenze e le sopraffazioni del contemporaneo, le tensioni del microcosmo familiare come quelle della politica mondiale, raccontate con grande raffinatezza attraverso il linguaggio dell’installazione e della performance. Questo è il leitmotiv della ricerca di Loredana Longo. Artista siciliana, profondissima e visionaria, che di tutto ciò che la colpisce fa materia da distruggere e ricreare. Materia da trasformare in opera d’arte, quando l’arte è testimonianza del proprio tempo storico. Loredana ha iniziato con le esplosioni, per tutto il suo percorso ha continuato a distruggere e ricostruire. Una poetica della ferita, del senso profondo di quello che resta, perché in tutto quello che resta c’è una nuova origine. Una vita che ha resistito. Loredana ha sempre affrontato argomenti delicati e pungenti, dalle esplosioni in Medio Oriente alle morti sul lavoro, dalle dittature ad episodi di condanne inaccettabili. I materiali con cui ha lavorato sono molteplici: dal cemento al vetro, dal marmo all’argilla, dal cemento agli arazzi. Ha fatto esplodere piatti, ha ricamato su grandi tappeti persiani frasi pronunciate dal Papa o da noti personaggi politici. La materia distrutta e riassemblata è stata – ed è – metafora della vita stessa, che Loredana riesce a comporre in maniera assai raffinata e caricando ogni installazione di una straordinaria forza comunicativa, in una “un’estetica della distruzione”, come lei stessa ama definirla, che ci sbatte in faccia le fenditure della nostra realtà.
Questa è la Voce Creativa di Loredana Longo per voi.
Chi sei?
Saperlo. Forse da fuori è più facile vederlo, o forse intuirlo.
In quale periodo storico avresti voluto vivere, se non in questo?
Primi del Novecento, solo per conoscere Marcel Duchamp.
Il ricordo più vivido della tua infanzia:
Un ricordo cattivissimo: io, i miei fratelli e alcuni amici catturavamo lucertole e poi le bruciavamo sopra dei fusti di metallo. Le catturavamo con lo spago e le tenevamo per il collo finché non morivano bruciate.
L’arte, perché?
Perché cos’altro c’è?
Catania, l’Etna, le meraviglie archeologiche della tua Sicilia… quanto c’è di tutto questo, nel tuo lavoro?
Ogni persona è un organismo, e in quanto tale assume delle forme e dei pensieri in corrispondenza del mondo esterno. Il territorio siciliano è fortemente caratterizzato, e la sua forza è nella tensione che si crea tra l’estrema bellezza del paesaggio e l’infinita bruttezza dello scempio che ne abbiamo fatto. Il risultato è una sorta di wunderkammer, in cui fanno capolino delle mostruosità che nel tempo si insinuano e diventano familiari. E non mi riferisco solo al paesaggio ma anche alla mentalità, tanto generosi e ospitali e tanto rassegnati davanti ad un destino che si pensa sia già tutto scritto. Tutto questo esiste nel mio lavoro.
Una paura che non ha raccontato mai a nessuno:
Essere vittima di un serial killer.
Chi sei quando non crei?
In sequenza: una donna, un’amica, una chef, una boxer e pescatrice di ricci di mare, una sartina.
Se non fossi un’artista chi saresti?
Credo che non sarei, o almeno non sarei nulla per cui valga la pena vivere. Pura sopravvivenza.
La tua ricerca si ispira spesso a fatti di cronaca alquanto feroci. Ci racconti come è iniziato questo percorso?
Non direi semplicemente feroci, ma che mi colpiscono direttamente e spesso sono legati a momenti particolari della mia vita. Ho iniziato con le Explosion nel 2006, una serie di installazioni in cui costruivo dei set teatrali che rappresentavano momenti di vita familiare per poi farli esplodere e ricostruirli. Credo che ci siano state almeno tre buone ragioni. Prima: i fatti di cronaca riportavano continuamente notizie sulle esplosioni in Medio Oriente, in Italia avevamo avuto molti episodi di stragi, soprattutto in Sicilia. Seconda: ho vissuto a Catania, città alle pendici dell’Etna e sono cresciuta con le esplosioni, le colate di lava e i terremoti continui. Terza: nel 2006 ho vissuto un brutto incidente, ho perso un rene e il lungo periodo in ospedale mi ha cambiato le prospettive. Vedevo il mio corpo in preda al caso, tutto succede così da un momento a un altro, come un’esplosione e non sai mai cosa succeda fino a quando non è successo.
Installazione, performance, fotografia, pittura, video… nella tua ricerca intrecci diversi linguaggi visivi, ma quale di questo senti più tuo?
L’installazione, perché può contenere tutto e tutti i linguaggi visivi e non. E poi io sono una scultrice, anche nei lavori che sembrano dei pannelli, bidimensionali, scolpisco le immagini, le creo sottraendo materia. La materia la sottraggo col fuoco o con le esplosioni.
Marmo, bottiglie rotte, piante, luce… come scegli i materiali per le tue installazioni?
Mai legarsi ad un materiale, tutto può essere utilizzato per formalizzare un concetto. E poi che noia fare sempre le stesse cose! Si diventa artigiani della pittura, artigiani della fotografia, artigiani della ceramica…
“Victory”, un sostantivo su cui hai molto lavorato. Ce ne parli?
Victory nasce da un’immagine. TV, 2005, i Jihadisti distruggono parte del patrimonio archeologico in Iraq, le foto li ritraggono sopra le macerie con le braccia alzate in segno di Vittoria. Parte del meraviglioso e irripetibile patrimonio mondiale distrutto perché rappresenta altro da te. Ho realizzato allora delle sculture e la parola VICTORY su base in marmo, poi le ho distrutte con un martello e ricostruite. Nel mio lavoro il processo di distruzione e ricostruzione è molto importante. Le “Victory” sono anche delle immagini rubate in Internet da fatti di cronaca, riportate su grandi pannelli di velluto, ricavate bruciandone la superfice. Il disegno in pratica è l’assenza del manto vellutato, è una bruciatura. L’immagine in alto è sovrastata da una grande scritta VICTORY, una sorta di provocazione, un monito per ricordare che non esiste vittoria.
La tua performance più potente?
The Circle. Non si è trattato solo di performance, ma anche di installazione, scultura, fotografia e video. In The Circle io rappresentavo una serie di dittatori, ne parlavo anche le lingue vestendomi come un incrocio tra un imperatore e un dittatore sovietico (i vestiti erano stati realizzati da un giovane stilista Vincent Billeci), e indossando una maschera risultante da un morphing dei visi di 9 dittatori. Ho ideato un simbolo contenente particolari di segni presenti in bandiere o stemmi appartenuti a importanti dittature. In questa performance io avevo un mio popolo/esercito di performer che indossavano una maschera ricavata invece dal morphing del mio viso con quello di una pecora. Improvvisamente, come nel rovesciamento delle dittature, i performers del mio esercito giravano la maschera diventando essi stessi dittatori. Come in un cerchio infinito. Da questo deriva il titolo: The Circle.
Quale credi sia il compito di una donna-artista, oggi?
Non vedo differenza da quello di un uomo, siamo solo più arrabbiate. Comunque, credo che il compito di un artista o una artista sia vivere e rappresentare il proprio tempo, sempre, anche se dopo qualche anno tutto può sembrare datato, ma bisogna essere nel tempo.
Ad ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono letture particolari?
Fatti di cronaca e storia più che letture, ma se proprio parliamo di letture, amo la letteratura che mi porta fuori dal mio tempo o dal mio spazio.
Scegli tre delle tue opere per raccontarci il tuo lavoro.
2009, Nothing is as it seems per la Biennale di Marrakech. Ero in Marocco per una residenza di un mese in cui realizzavo il lavoro per la Biennale e conobbi un giornalista. Il giorno dopo, questo giornalista doveva affrontare un processo poiché aveva disegnato una vignetta sul re in un quotidiano. Gli diedero sei anni, per una vignetta! Pensai che l’unico lavoro che potevo fare fosse una prigione che avesse la forma di un’unità carceraria ma che sembrasse altro, un po’ come la falsa democrazia marocchina. Scelsi la cella di Guantanamo per la sua dimensione. La costruì in legno e la rivestii di specchi, in modo tale che l’angusto interno si riflettesse all’infinito. Nel soffitto vi erano decine di lampade che si accendevano e spegnevano ritmicamente, una sorta di tortura, la sollevai dal pavimento con enormi catene e lasciai il pavimento con la latrina per terra. È stato forse il mio lavoro più bello, ma purtroppo il perfido curatore di questa mostra un certo Abdellah Karroum, la fece distruggere. Fu una sorta di vendetta per non aver accettato le sue avances. Democrazia marocchina per l’appunto.
2012, Floor#5 triangle shirtwaist fire: un’installazione realizzata appositamente per la Biennale Donna al PAC di Ferrara. Si è trattato di 146 grandi mattonelle in cemento in cui erano immerse camice da donna bruciate. 146 erano le vittime di un incidente sul lavoro nel Triangle Shirtwaist Factory a New York nel 1911, una fabbrica di camice. Morte in un incendio perché chiuse dentro la fabbrica durante la pausa pranzo. Un’opera sulle ingiuste morti sul lavoro, le mattonelle come lapidi, cemento che contiene il ricordo dei loro corpi.
2018, Gold Heel. In un video in bianco e nero si vede un sacco da boxe, una donna in tailleur nero lo prende a pugni e calci. Infine, si toglie la sua scarpa décolleté laccata oro e la pianta sul sacco. Il sacco è in ceramica fresca, e grazie alla tecnica di un amico ceramista, Lorenzo Zanovello, il sacco rimane appeso e non si rompe e cotto viene appeso alle sue catene ed esposto a Palazzo Magnani di Reggio Emilia per la mostra curata da Marina Dacci dal titolo La vita materiale. La stanza in cui viene appeso il sacco presenta diversi interventi miei, ma il titolo è ispirato ad una celebre frase di Muhammad Ali: “Float like a butterfly, sting like a bee”.
L’opera d’arte che ti fa dire: “Questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?
Una settimana fa a Londra nella mostra di Antony Gorley alla Royal Academy ho visto una serie di sculture in cemento. Erano delle forme geometriche con le dimensioni di un corpo umano, ma poste in diverse posizioni. Ai lati si vedevano dei buchi, era come se fossero le dita o la calotta cranica o le dita dei piedi. La forma in cemento aveva contenuto il corpo, ma ora al suo posto c’era il vuoto lasciato da esso.
Un o una artista che avresti voluto esser tu:
David Bowie.
Un critico d’arte o curatore con il quale avresti voluto o vorresti collaborare?
Non saprei risponderti, mi piacerebbe lavorare più all’estero al momento.
Tre aggettivi per definire il sistema dell’arte in Italia:
No, no, no.
In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?
Cucina, cucito. Cuocere e cucire, si somigliano anche.
Work in progress e progetti per il futuro:
Un progetto a cui tengo molto, curato da Elisa Fulco e Antonio Leone, L’arte della libertà, che mi vede protagonista di un workshop con decine di detenuti, membri della polizia penitenziaria e diversi operatori sociosanitari. Il progetto è molto ambizioso, avrà durata di un anno e verrà svolto nel Carcere Ucciardone di Palermo. Stiamo lavorando alla realizzazione di una mostra che si allestirà negli splendidi spazi di Palazzo Branciforte sempre a Palermo, sede della Fondazione Sicilia, partner del progetto. I workshop si alternano in un laboratorio e vedono anche la presenza di altri artisti o testimoni culturali. La mostra, interamente realizzata da tutti i componenti del gruppo, sarà costituita da diverse installazioni e video sul tema della libertà. Una sfida, un esperimento, una visione soprattutto. Un altro, nuovo progetto che ho in cantiere si chiama CRASH. Spero di non farmi troppo male.
Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore:
“Float like a butterfly, sting like a bee” di Muhammad Ali.