Ravenna sta come stata è molt’anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
Uno dei cadeau o souvenir più richiesti o offerti nelle botteghe della Romagna è il sale di Cervia, confezionato elegantemente, con tanto di nastrini e lustrini dorati o usato come ingrediente stravagante, ad esempio, nelle tavolette di cioccolato.
Niente di male in tutto ciò, anzi, valida alternativa alla classica caraffa di Sangiovese, al testo per piadina o alla riproduzione a mosaico di Teodora; pochi sanno, però, che questo sale è all’origine della malattia e della scomparsa dell’illustre ospite ravennate Dante Alighieri, di cui si stanno approntando le celebrazioni per il centenario della morte.
Agli inizi del ‘300, la Repubblica di Venezia era in piena espansione e tentò di giocare la fondamentale carta di impossessarsi di Ferrara e della foce del Po per controllare definitivamente la navigazione e gli sbocchi del fiume, arteria imprescindibile per le comunicazioni ed i commerci con la pianura padana.
Naturalmente, le città interessate si coalizzarono per impedire la mossa e trovarono valida sponda nella Curia pontificia, che vantava diritti di tutela su Ferrara stessa, e che giocò la fin troppo facile ma vincente carta “dell’interdetto”, che colpiva i veneziani nelle pratiche religiose, ma soprattutto nel portafoglio, perché impediva commerci, testamenti e traffici marittimi.
Nonostante la proverbiale fierezza, i Veneziani furono costretti a rinunciare al loro progetto strategico e a sborsare a papa Clemente V ben 90.000 fiorini.
Di questa situazione di debolezza approfittarono subito gli avversari, e in particolare Ravenna, che da sempre si contendeva con Venezia l’egemonia su Cervia e le sue saline; nel giro di pochi anni, tuttavia, la Repubblica di San Marco si riprese e cercò nuovamente di allungare le mani sulla costa e l’entroterra cervesi.
E qui entra in gioco il “divino poeta”: ramingo dopo l’esilio fiorentino, deluso nelle sue aspettative politiche filoimperiali per il fallimento della missione di Arrigo VII, era alla ricerca di un porto sicuro e tranquillo e di una città con uno “Studio”, cioè una sorta di università che gli permettesse di dimostrare la validità e la versatilità della nuova lingua volgare: Ravenna possedeva questi requisiti. Nel suo peregrinare per la Romagna, i contatti con la città e il suo reggitore Guido Novello da Polenta si fecero sempre più frequenti, tanto che Guido pensò di sfruttare la cultura e l’eloquenza dantesche anche a fini diplomatici e, nel 1314, lo spedì a Venezia nel tentativo di appianare la rovente controversia sulle saline.
Dante, grande poeta, ma anche uomo di parte e di poca modestia, si presentò al senato veneziano sicuro di un’accoglienza adeguata al suo ruolo e alla sua presunta fama, ma fu praticamente e quasi letteralmente trattato a pesci in faccia (se è vero l’aneddoto per cui, a pranzo, gli furono serviti i piccoli pesci rifiutati dagli altri commensali).
Della sua ira invelenita dà testimonianza una lettera, indirizzata a Guido Novello, fino a qualche anno fa considerata apocrifa, ma, oggi, rivalutata nella sua veridicità. In essa l’Alighieri si lamenta “dell’ottusa e bestiale ignoranza” del senato veneziano: il poeta, infatti, si presentò col suo bel discorso in latino che si apriva con l’elogio al nuovo doge, “con la facondia romana in bocca… a rallegrarmi della novella elettione di questo Serenissimo Doge… mi fu mandato a dire che cercassi d’alcuno interprete, o che mutassi favella”. Dunque, per il latino ci voleva il traduttore, ma non miglior sorte ebbe il suo tentativo di eloquio in toscano, “quella lingua che portai meco dalle fasce, la quale fu loro poco più familiare et domestica che la latina…”, che i maggiorenti veneziani dissero di non capire o, per dileggio, finsero di non capire…
In pratica, gli fu fatta un’imperdonabile “villania”, che Dante ripagò con altrettanto disprezzo, scrivendo che era logico che i Veneziani non capissero il latino o il toscano perché non erano, come lui, discendenti da nobili romani, ma da “Dalmati et Greci e… altro non hanno che pessimi e vituperossissimi costumi, insieme con il fango d’ogni sfrenata lascivia”. E concluse, rivolgendosi sempre a Guido Novello, con la ferma richiesta che “quantunque ogni autorità di comandarmi habbiate, a simili imprese più non vi piaccia mandarmi…”.
Purtroppo, questo proposito non fu mantenuto quando il poeta, stabilitosi definitivamente a Ravenna, accolto degnamente e stimato da tutta la città, non poté dire di no a una nuova richiesta di ambasceria a Venezia, sempre per l’annosa vertenza su Cervia e le saline.
Era l’agosto del 1321: Dante affrontò ancora una volta lo sfiancante viaggio verso la laguna sotto la canicola estiva, ma anche questa volta pare che non riuscì nemmeno a conferire coi maggiorenti della Repubblica e, anzi, gli venne anche rifiutato di rientrare a Ravenna via mare.
Lo attendevano tre giorni di viaggio: il primo, in barca, per attraversare la laguna fino a Chioggia e poi, via terra fino a Loreo, il secondo fino a Pomposa con sosta nell’abbazia benedettina, il terzo per raggiungere Ravenna, attraversando una zona malsana dove l’Alighieri contrasse, probabilmente, la malaria.
Arrivò in città stremato e, nel giro di pochi giorni, rese l’anima circondato dall’affetto dei figli e dalla stima di tutta la cultura ravennate; aveva chiesto di essere sepolto in abito di terziario francescano e per questo fu tumulato nella chiesa di San Piero Maggiore (attuale San Francesco), sede di una comunità francescana.
Così, per un pugno di sale, si spense un dei più grandi poeti universali, costretto, per obblighi cortigiani, a sperimentare, letteralmente, “come sa di sale/lo pane altrui…”.