Che la memoria sia un fenomeno antropologicamente quanto mai ricco e complesso è a dir poco evidente. Essa indica simultaneamente il “contenitore” in cui sono conservate informazioni e conoscenze, il “contenuto” che in quel deposito ciascuno di noi accumula nel corso della propria esistenza, e tutti i processi tesi al recupero e alla rielaborazione di quanto da quell'immenso scrigno viene custodito. In base alla durata della ritenzione di un ricordo si può, ad esempio, parlare di una memoria “a breve” e “a lungo termine”; dal canto suo, a seconda del tipo di nozioni coinvolte, quest'ultima abbraccia una modalità mnestica “implicita” o “procedurale” (che ha a che fare con i comportamenti automatici e le abilità routinizzate) e una “esplicita” o “dichiarativa” (inerente i dati comunicabili, richiamati in maniera conscia). A sua volta questa memoria dichiarativa - di fatto comunemente identificata con la memoria propriamente detta - può esplicarsi in forma di “tecnica” (ossia di qualunque processo meccanico finalizzato alla riproduzione formale e sistematica di un sapere ordinato) e di “facoltà” (che si configura piuttosto come una dinamica ricostruttiva del ricordo soggettivo e che al contrario è del tutto personale, contingente, fortuita); ars e vis, secondo la definizione datane alla fine del secolo scorso dall'egittologa e antropologa Aleida Assmann (Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, 1999), rispettivamente alle origini della tradizione retorica delle mnemotecniche e delle indagini di natura più specificamente psicologica.
Un fitto intreccio di prospettive e di sguardi, dunque, un'impressionante varietà di procedure e dinamismi, che l'incessante susseguirsi di un'infinita tipologia di stimoli e di suggestioni innesca senza sosta. Dal punto di vista strettamente linguistico, infatti, il termine “memoria” risale alla radice indoeuropea mer- che propriamente rimanda al sobbalzare dell'anima turbata da un'emozione improvvisa, al suo inquieto sussultare contestualmente all'esplodere di un desiderio, all'acuirsi di una preoccupazione, al disorientante accrescersi di un rimorso. E accanto a questi innumerevoli momenti di attivazione interna ad ogni individuo ricordante, una non meno ricca varietà di fattori agisce simultaneamente fuori di lui; nulla di diverso, per intenderci, dal principio che spinge a legare in un nodo l'angolo di un fazzoletto, a cogliere un nontiscordardimé o a regalare una viola del pensiero, e che viene sistematicamente incarnato da ogni genere di segnaletica, da una particolare ritualità o da una tradizione, da un libro, da un foglio di appunti o da qualunque altro supporto materiale che si avvalga della scrittura.
Persino da altri esseri umani, se si pensa al tempo remoto nel quale la sola forma possibile di comunicazione era affidata al canale dell'oralità; cos'altro rappresentavano, infatti, quei magistrati che in alcune città greche avevano il compito di tenere a mente l'intero sapere giuridico (mnemones) o il calendario liturgico (hieromnemones), o gli schiavi che a Roma erano incaricati di suggerire ai propri padroni i nomi dei loro ospiti o dei loro possibili elettori in tempo di campagna elettorale (fartores o nomenclatores), se non delle vere e proprie “memorie viventi”?
Addirittura da una divinità, perché, più ancora che a queste forme terrene di rammemorazione, era alla dimensione religiosa e soprannaturale che gli antichi legavano la loro concezione di una memoria attiva esterna. I Greci l'avevano sempre identificata con Mnemosyne, Memoria personificata e sacralizzata, madre delle nove Muse, ispiratrice di ogni canto poetico e assoluta garante della sua veridicità. Nella sua trasposizione latina, ella divenne Moneta; così la cita Livio Andronico (III sec. a.C.) nella sua Odysia, presentando appunto la mousa quale “figlia della divina Moneta”. Un non meglio identificato Igino di epoca tarda (II sec. d.C.) nella prefazione alle sue Fabulae avrebbe poi ripreso la stessa idea di una genealogia celeste delle Muse, facendone le discendenti di Giove e di Moneta, esattamente come nell'immaginario ellenico esse erano il frutto dell'unione di Mnemosyne con Zeus.
Ma perché Moneta? Cosa si cela realmente dietro questo teonimo? Dove rintracciarne le origini? Gli studiosi tendono a riconoscere in questo termine una formazione linguistica arcaica, generatasi dall'incontro del verbo causativo moneo (“faccio ricordare”) con il suffisso di azione -ta (accanto a Moneta, i Romani veneravano, ad esempio, Genita - “colei che fa nascere” - dea della generazione e della fertilità, e Tacita - “colei che fa tacere” - dea degli Inferi e personificazione stessa del silenzio).
E in effetti, del tutto in linea con un simile indirizzo interpretativo, Moneta compare curiosamente in alcuni episodi significativi della storia di Roma (ben più antichi dell'opera di Andronico) in qualità di epiteto di Giunone. Tito Livio racconta che durante l'assedio messo in atto dai Galli di Brenno intorno al Campidoglio (390 a.C.) fu lo starnazzare delle oche tenute all'interno del recinto sacro alla dea a richiamare l'attenzione delle sentinelle distratte e a consentire a Marco Manlio di respingere l'assalto nemico; da quel momento, alla sposa di Giove fu associato anche l'appellativo Moneta (l'Ammonitrice) e in suo onore nel 345 a.C. fu eretto un tempio proprio nell'area dell'antica dimora dell'ex-console Manlio (nei pressi, tra l'altro, dell'auguraculum, l'antichissimo tempio a cielo aperto nel quale gli auguri fornivano i loro auspici). È Cicerone, dal canto suo, a ricordare come in occasione di un preoccupante terremoto la voce potente della divina si fosse levata dal colle intimando ai sacerdoti di placare la dea Tellus attraverso il sacrificio di una scrofa pregna. Esempi tutti che riconducono l'intervento salvifico del nume all'urgenza di scuotere la mente annebbiata o smarrita degli uomini, alla necessità di risvegliarne la coscienza dimentica di sé; che paiono confermare la parentela del lemma Moneta con il verbo moneo, rinsaldano il legame tra i suoi usi e la dimensione della memoria.
Come spiegare, allora, che in occasione della guerra contro Pirro (280-275 a.C.) fosse stata ancora Iuno Moneta a rassicurare i Romani, vessati da una grave crisi finanziaria, in merito alla loro vittoria e che di lì a poco (269 a.C.) proprio nei locali del suo tempio venisse collocata la prima zecca di Stato? Che poi a partire già dall'epoca repubblicana la figura di Moneta avesse assunto un'autonomia sempre maggiore fino a differenziarsi nettamente da quella di Giunone, a comparire sui denari quale personificazione stessa della monetazione (la sua Musa?), dotata di bilancia e cornucopia al pari di Aequitas, preposta alla supervisione del corretto svolgimento delle operazioni di conio, oggetto di un culto autonomo non diversamente da Concordia, Honos, Fides? Che la denominazione Moneta finisse presto per fare il suo ingresso anche nel lessico economico, indicando non solo l'officina, ma naturalmente anche ciò che vi si produceva?
La risposta, forse, va ricercata proprio nella forza con la quale gli antichi credevano nell'azione costante e misteriosa di fenomeni ed enti sovrumani sulla psyche dell'uomo. Ecco, dunque, l'eco potente di moneo dentro ogni moneta, straordinario oggetto semiotico che è insieme unità di misura e forma d'arte, insostituibile segno mnemonico capace di raccontare, celebrare, eternare. Ma eccola anche dentro ogni “monumento” volutamente posto a promemoria di eventi e di persone, veicolo di valori e tradizioni, sia esso un'opera scultorea o architettonica, un complesso ambientale o urbanistico, un prodotto della creatività figurativa o letteraria. Eccola dentro ciò che noi chiamiamo comunemente “mostro” e che viene dal più antico monestrum, ossia tutto ciò che si distacca dalla norma e dalla regola, che ha il potere di smuovere l'animo, di affinare la percezione, di riaccendere la consapevolezza. Eccola persino dentro ogni monitor, moderno e indispensabile suggeritore.