È sotto forma di serpente che il Genius Loci
si manifesta per proteggere la sua dimora minacciata.(Friedrick Nietzsche, Lezioni di Basilea)
Nelle sue erudite ultime lezioni universitarie che Nietzsche tenne a Basilea tra il 1875 e i 1878 il concetto di “Genius Loci” ritorna più volte. Abbiamo scelto una scrittura con le maiuscole volutamente per sottolineare la sacralità della dimensione indicata, dove perimetrazione simbolico-sacrale di una porzione di territorio viene apprezzata quale “luogo vivo”, olos differenziale la cui violazione non è mai priva di conseguenze e reazioni. I tratti essenziali di tale realtà possono individuarsi nella sua orginarietà e nella presenza vivente che ospita e che non appare più distinguibile dalla specificità spaziale segnata e riconoscibile. Nelle sue analisi comparative sul tema dello “sviluppo dei simulacri” Nietzsche riflette sul Genius Loci quale cratofania emblematica per culti molto antichi come quello degli alberi sacri e dei serpenti, culti spesso incrociati tra di loro e localizzati in singolarità specifiche. Esisterebbe quindi un'evoluzione strutturante dentro la fenomenologia più antica del Genius Loci: prima divinità originaria, innominata, poi serpente-alberto specifico, attributo dell'eroe fondatore (Eretteo, Euriloco), associato al nume vincitore di culti più antichi (Apollo, Asclepio, Hermes), e infine sacralità localizzata presso camere ipogee come nel tempio di Demetra ad Eleusi o sotto la dimora delle Vestali a Roma, ancora esistenti al tempo di Sant'Agostino (Il fuoco e la religione di Roma). Non era anche a Delfi il serpente la presenza locale e oracolare originaria attraverso cui si manifestava la presenza di Gea e del suo sposo Poseidone, prima dell'arrivo di Apollo?
Le riflessioni del nostro filosofo-filologo ci aiutano a comprendere due polarità del concetto di Genius Loci: quella funzionale e quella contestuale. Possiamo indicare l'efficacia performativa della dimensione liguistica-animica del Genius Loci quale qualcosa di simile al concetto di archetipo. Come l'archetipo è una forma originaria, cioè manifestantesi come non derivante da forme pregresse o condizionanti, così il Genius Loci appare un fenomeno autogeno, radicale, immanente nel primo sorgere della percezione di un luogo e ad esso coessenziale, intrinseco alla sua stessa configurabilità. Il concetto di Genius Loci permette di identificare e coniugare tratti connotativi presenti in differenti approcci: dalle funzioni narrative di Propp alle “formule del pathos” di Warburg, dai “talismani iconici” su cui contempla Jung (come l'Abraxas), condensati immaginali reattivi, alle “strutture antropologiche” evidenziate da Gilbert Durant, che si rivelano come schemi baconiani latenti e dinamici, matrici semantizzanti.
Dentro l'esperire il Genius Loci si apprezza sia un movimento di simbolicizzazione e cristallizzazione “in uscita”, a cui possiamo associare quello che Nietzsche chiama i “sacra” del temenos, delle celle templari, della casa greco-romana, cioè quello che diacronicamente il Genius Loci genera, la sua ritualità e un suo sistema di corredi e apparati, a partire già dal culto degli alberi sacri (con i loro attributi cultuali: sonagli, lacci, bambole, altalene, corone, altari, ecc.), dall'altra si possono cogliere aspetti ideali-semantici non tanto “contestuali” cioè coagulanti un “tessuto” quanto funzionali, strumentali, performativi. In questa direzione l'indicazione di segni di riconoscibilità e mantenimento (recinti, pali, offerte di nutrizione), la stratificazione-associazione a divinità successive o altre, l'efficacia diretta elargitiva o maleditiva, l'aspetto narrativo.
Se è il “luogo” quale incorporazione perimetrale della totalità ad essere connesso con l'aspetto contestuale, il “genius” esprime la dimensione “funzionale” cioè l'imprevedibile differenziale, lo “spirito” inabitante, non facilmente controllabile e percettivamente ambivalente fra presenza e non immediata visibilità. Una “funzione” apprezzabile anche in senso di utilità orientativa e culturale e nell'essenza epifanica e presenziale, partecipativo-conservativa. Il rapporto fra locus e genius appare chiaramente dialettico e processuale: se il luogo è luogo inabitato, tutt'uno con il suo “spirito”, è lo stesso luogo che in un solo esserci cela e rivela la divina presenza, in uno stadio antecedente ad ogni antropomorfismo o allegorismo. Sul tema dell'albero sacro negli elementi italici della religiosità greca Nietzsche riflette in modo simile quando parla di una sorta di reversibilità della semanticità del simbolo, cioè fra simbolo quale riferimento rinviante e simbolo quale fatto performativo, implicante: “...questi tre stadi: incarnazione reale, luogo di visita degli dei, legame ideale trapassano facilmente uno nell'altro”.
La stessa “democrazia” quale sistema statuale fondato su culti centralizzati che assorbono culti locali perifericizzati rinvia per gradi a culti intermedi, anfizionici e propri delle fratrie, a loro volta fondati su culti specifici di clan e di famiglie-stirpi nobili. Il Genius Loci quindi appare duplice anche nella sua tipologia generale di localizzazione: la casa quale santuario dove ogni spazio è dedicato-abitato da più divinità intessute nel vissuto quotidiano e anche nella funzionalità pratica dell'abitazione e la porzione di bosco recintato, e quindi sacralizzato, per mantenerne l'essenza di luogo mai calpestato, mai reso impuro dall'uomo, origine prima del culto greco-italico.
Roberto Calasso sottolinea con efficacia l'identificazione fra occhio, sorgente e serpente nel tema della ninfa oracolare Telfussa, colta nel difficile rapporto con Apollo quale nuova divinità non greca che irrompe nella sacralità di una Grecia disabitata dall'umanità ma inabitata da ninfe-sorgenti pre-oracolari (La follia che viene dalle ninfe, Adelphi). Qui viene sottolineato giustamente come l'unico tratto descrivibile di tale luogo sacro parlante sia il suo apparire quale “apemenon”, incontaminato, non conosciuto da uomo, ma invece visitato da dei, come Apollo. Telfussa è sacra anche prima dell'arrivo di Apollo, e cerca di difendere la sua natura incontaminata persino dalla sua divinità.
Curiosamente nella lettera ebraica Samek sono contenuti tutti questi sensi-immagine: serpente, occhio e il “divino inviato” (Messia). Nietzsche indica quindi il Genius Loci quale uno dei “requisiti fondamentali di un culto”, uno degli elementi stabili e persistenti che funge da perno e da base per lo sviluppo delle religioni antiche a livello di contese e lotte fra culti. Come per il culto degli alberi così anche per il concetto di Genius Loci può vedersi quale “sincretismo più antico”, radice capace di accogliere più innesti, contenitore di successive fondazioni ierofaniche. Funzione di resistenza e funzione di condensazione. Come nel caso del passaggio violento di Apollo che assume tra le molte due nuove configurazioni da due specifici limitrofi luoghi sacri che profana e riconsacra: Apollo Delfinio e Apollo Telfusso. Circolare il rapporto fra divinità in visita-conquista e luogo sacro come circolare il rapporto fra spirito-daimon e suo luogo: “il genius loci deve assumere la difesa della traccia divina e dell'altare, per questo presso tutti gli alberi sacri compare il demone epixorios, il serpente”.
La funzione del Genius Loci è quello in primo luogo di autopreservare la propria originaria ieraticità, acheropita, non derivante da una consacrazione umana e capace al contrario a sua volta di conferire eroicità e sacralità a chi si pone come profanatore/disvelatore. Tra le righe delle riflessioni filologiche nicciane emerge con forza e chiarezza anche il delinearsi originario del museo quale Genius Loci strutturato, ordinato. Il museo quale concetto implicito nelle gallerie templari greche dove si affastellavano in modo ordinato tripodi, statue, immagini sacre. Il museo quale forma di accumulazione di valore separato, dedicato. Ascoltiamo ancora il nostro professore di Basilea: “per mettere al sicuro i doni consacrati si dispongono nelle vicinanze dell'albero sacro tesorerie e rimesse, che sono costruzioni più antiche del tempio stesso”. Il concetto stesso di “galleria” trova la sua origine negli spazi grechi templari, accessori al tesoro dei templi: “gli intervalli tra gli spazi delle colonne vengono impiegati come cappelle, anch'esse senz'altro chiuse da inferriate, per i simulacri divini e gli anathemata. Nel caso di templi stracolmi di ricchezze lo spazio viene raddoppiato tramite l'installazione di portici superiori ai quali si può accedere tramite una rampa”.
Lo specifico del Genius Loci è dato dalla compresenza di aspetti organici nella verticalità della sua singolarità e di aspetti performativi nella sua orizzontalità ramificante. Il Genius Loci è matrice di simulacri ma resta alieno nella sua unicità quale spazio di distanza e di irripetibilità di una dimora/passaggio. Unica e irripetibile per lo stesso divino quale sua manifestazione irretrattabile e singolare nelle sue connotazioni.
Queste dinamiche proprie del sacro le ritroviamo anche nel caso singolare della Certosa di Pavia, fondazione sacrale che si eleva all'improvviso dall'indifferenziato delle selve venatorie del Parco Visconteo. Qui abbiamo una simile stratificazione a più livello di singolarità differenziale. Prima il parco nobiliare e la residenza di caccia, su cui si innesta il voto mistico della prima duchessa di Milano, Caterina Bernabò Visconti, per la nascita di una discendenza e per la conversione del marito Giangaleazzo Visconti, investito primo duca di Milano dall'Imperatore Venceslao.
La fondazione-laboratorio del santuario-basilica dedicata a Maria “Madre, Figlia e Sposa di Dio” e Madre delle Grazie, prende circa un secolo, dal 1396 al 1497, data in cui il tempio viene consacrato e inizia ad essere usato per il culto e data in cui Ludovico il Moro fa realizzare e porre nel transetto sinistro il proprio cenotafio che lo ritrae insieme alla moglie Isabella d'Este. Una sacralità duplice quella della Certosa: femminile e maschile, nobiliare e religiosa. La costruzione si conclude poco dopo la fine del dominio dell'ultimo duca di Milano, Francesco II Sforza. Come per Santa Maria delle Grazie di Milano l'alleanza tra ordini monastici e stirpi ducali dimostra la sua forza. Il periodo di fondazione è lo stesso dell'elevazione del Duomo di Milano e la conclusione della maggior parte del tempio si sovrappone alla conclusione di Santa Maria delle Grazie di Milano, con il suo refettorio leonardiano e del Duomo di Pavia.
Un fine Quattrocento dinamico e inquieto, mistico e apocalittico, umanista e monacale. Non a caso l'immaginario dell'Apocalisse di Giovanni unisce la vetrata centrale dell'abside del Duomo di Milano agli affreschi della cupola della Certosa di Pavia, dove viene celebrato un passo giovanneo particolare e iconograficamente rarissimo: la gloria di Dio Padre sul suo trono vivo di arcobaleno con i 24 Vegliardi che gettano ai suoi piedi le loro corone auree (Ap. 4,2-10). Tre quindi le anime che dimorano in questo Genius Loci pavese e padano: l'anima teofanica, l'anima ducale e l'anima mitopoietica data dalla ripresa umanistica degli immaginari e dei corredi dell'antichità greco-romana, con le sue sirene, satiri, mascheroni fitoformi, centauri, pegasi e ippocampi che affollano gli spazi certosini. A loro volta l'Ordine fondato da San Bruno di Colonia e chiamato da Siena a Pavia da Giangaleazzo cela e svela una sua propria spiritualità ascetico-penitenziale riservata, sobria, laconica, la cui segnalazione è affidata quasi esclusivamente ai manti bianchi degli affreschi che ritraggano i monaci e alle sette stelle che ricordano i primi monaci che fondarono con San Bruno la prima Certosa vicino a Grenoble.
Monaci eremiti che si cibavano di magro per tutta la loro vita come regola e si riunivano insieme solo di domenica e di giovedì ma che nel contempo amavano l'arte rivelandosi ottimi e colti committenti per quattro secoli, fino a metà Settecento. Monaci che chiamarono in Certosa a dipingere il Guercino, il Cerano, Procaccini, ben oltre le scelte ducali di Luini, Bergognone e Bartolomeo Montagna e che si fecero ritrarre in affresco in figure realistiche che si affacciano scherzose e ambigue.
La fine dell'italianità del Ducato di Milano non rappresentò la fine dell'identità lombarda e ducale, come dimostra e confermano due opere pregevoli: la nobile facciata seicentesca del “Palazzo Ducale”, ora sede del Museo della Certosa, che si estende sul lato destro del cortile nobile guardando la bella facciata rinascimentale (che sembra un fondale teatrale romano e non una Chiesa!) e il più antico “Studiolo Ducale” o “Stanza del Priore”, di metà Cinquecento la cui duplice denominazione segnala il passaggio dall'intensità della presenza politica milanese al quasi monopolio monacale certosino. Questa duplicità unitaria di carismi si ritrova nella facciata del Palazzo ora Museo, e all'interno tra i reperti architettonici, dove il biscione visconteo e lo stemma sforzesco si alternano alle sette stelle certosine. Una foresteria nobile, che celebra un secolo dopo le glorie viscontee e sforzesche e che raccoglie come preziosi resti opere che vengono dalla Certosa vissuta, con i suoi cambi di gusto, di allestimento e di gestione degli spazi. Sculture rinascimentali e affreschi trecenteschi staccati dal chiostro grande, terrecotte e quadri sei-settecenteschi che celebrano San Bruno e i santi certosini insieme a numerosi cardinali.
Un Palazzo-Museo che ripropone la stratificazione e condensazione semantica che è il Genius Loci di Certosa. Relitti, scarti, dimenticanze che riacquistano nella serialità allestitiva l'originaria sacralità estetica, fra copie e originali, gessi, calchi e statuaria. Palazzo dove alloggiavano gli ospiti nobili e di riguardo in visita-pellegrinaggio alla Certosa, Re, Papi, imperatori, e gli intellettuali e artisti europei protagonisti del Grand Tour italiano, ma che a sua volta, negli affreschi dello Studiolo, rivela ancora l'indipendenza indomabile propria del Genius Loci. Questi affreschi dello Studiolo infatti sostanziano una vera e propria deliziosa camera picta dove il racconto di storie di santi eremiti immersi in ampi paesaggi, simili agli affreschi di Aurelio Luini a San Maurizio al Monastero Maggiore di Milano, si intreccia con vicende di re e imperatori narrati nelle lunette monocrome: Valentiniano, Totila, Alboino, Teodosio. La stessa scelta identitaria dei santi dipinti appare non casuale: tra i molti appare il beato certosino Guglielmo, che affronta briganti armati come un novello Sansone, armato di una coscia di asino e il cavaliere Sant'Uberto che durante la caccia si converte incontrando un cervo cristico che gli parla. Cavalieri che diventano santi eremiti boschivi e santi eremiti che combattono come cavalieri.
L'archetipo si fa contesto, inclusivo di dinamiche reversibili! Al centro della volta un tentativo di sintesi e compendio nella duplicità imperiale-sacrale di Costantino, colto nella sua la visione della croce, in forma di sogno, come nel ciclo della Croce di Piero della Francesca. Tutt'attorno una selva di simboli, decorazioni alla “pompeiana”, apparati decorativi e le allegorie delle sette arti liberali. Come un'intensificazione microsistemica del theatrum mundi della facciata dove due grandi sirene itto-ornitoformi scandiscono l'equilibrio del lato destro e sinistro della stessa composizione: Gian Galeazzo a destra e S. Ambrogio a sinistra! Nello Studiolo il Genius Loci tiene a dimora in una singolarità differenziale irriducibile vivaci e vasti carismi, tra cui lo stesso conflitto mai concluso fra il sacro quale separazione dal mondo e il sacro quale sua dominazione regale. È forse un caso che il serpente, immagine primordiale del Genius Loci, compaia ovunque in Certosa, dalle code serpentine delle due grandi sirene della facciata all'emblema visconteo che investa ogni dove fino ai più monaci scolpiti nei capitelli dei portici dei chiostri con in mano un serpente?