La domanda che oggi si pone riguarda il paradosso del ruolo delle donne nelle arti applicate e nell’architettura: come mai, nonostante pioniere straordinarie abbiano spianato il cammino per generazioni future, la loro presenza nelle grandi infrastrutture e nei progetti urbanistici rimane marginale, soprattutto in Europa?
Questo interrogativo è particolarmente significativo considerando che già alla fine dell’Ottocento le donne avevano trovato spazio nei movimenti artistici e architettonici come il Liberty e le Secessioni. Tuttavia, mentre queste correnti aprivano nuove strade creative, le donne si scontravano con barriere culturali e patriarcali che spesso relegavano il loro lavoro a contesti meno prestigiosi.
Contemporaneamente, in paesi come Stati Uniti, Africa, India e Sud America, la scena architettonica contemporanea offre esempi di donne che guidano progetti innovativi. Perché dunque il Vecchio Continente sembra rimanere indietro in questo scenario di cambiamento globale?
Alla fine dell’Ottocento, il Liberty e l’Art Nouveau offrirono alle donne un’occasione per esprimere il loro talento creativo, permettendo loro di entrare in un contesto artistico dominato dagli uomini. Un esempio significativo è rappresentato da Maria Calvi Rigotti, figura emblematica di questa trasformazione. Formatasi all’Accademia Albertina di Torino, Rigotti lavorò a stretto contatto con il marito Annibale, condividendo i principi del movimento Arts and Crafts e realizzando opere innovative nei ricami a riporto. La sua abilità nel coniugare geometrie e motivi naturali fu premiata con la medaglia d’argento all’Esposizione Internazionale d’Arte Decorativa Moderna di Torino del 1902.
Rigotti non fu un caso isolato: Margaret Macdonald Mackintosh, moglie del celebre Charles Rennie Mackintosh, contribuì a definire l’estetica del Liberty scozzese. Eppure, come per Lilly Reich nel Bauhaus, il loro contributo venne spesso ignorato o oscurato dalla figura maschile dominante.
Il primo Novecento segnò un periodo di trasformazioni culturali e sociali, ma anche di rigide barriere patriarcali. In Italia, l’ascesa del fascismo limitò ulteriormente le possibilità per le donne di affermarsi in campi tradizionalmente maschili. Molte collaboravano negli studi di grandi architetti uomini, ma il loro lavoro non era riconosciuto con pari dignità. Persino negli anni del dopoguerra, quando le opportunità lavorative aumentarono, le donne continuarono a essere relegate a ruoli secondari.
Marta Lonzi, architetta e teorica femminista, analizzò in profondità queste dinamiche, sottolineando come il sistema professionale limitasse la possibilità delle donne di emergere. Parallelamente, figure come Cini Boeri si distinsero nel design e nella progettazione degli interni, ma incontrarono difficoltà nel vedersi affidare grandi progetti infrastrutturali.
Fuori dall’Europa, il panorama fu più favorevole. Negli Stati Uniti e in Sud America, figure come Lina Bo Bardi e Carmen Portinho emergono come protagoniste. Lina Bo Bardi, trasferitasi in Brasile, seppe coniugare modernismo e tradizione locale, creando opere che rispondevano alle esigenze delle comunità. Carmen Portinho, ingegnere e urbanista, lasciò un segno indelebile con progetti di edilizia popolare come il complesso del Pedregulho. Tuttavia, il suo contributo fu spesso oscurato dal collega Afonso Eduardo Reidy.
In Africa e Asia, architette come Mariam Kamara e Marina Tabassum stanno riscrivendo le regole del gioco. Mariam Kamara, nigerina, si focalizza su un’architettura che rispecchia l’identità culturale locale, utilizzando materiali tradizionali e tecniche sostenibili. Un esempio significativo è il centro culturale a Dandaji, dove le sue scelte progettuali si sono intrecciate con le esigenze della comunità.
Marina Tabassum, invece, rappresenta una delle voci più influenti dell’architettura globale. Il suo progetto Khudi Bari, pensato per i senzatetto del Bangladesh, dimostra come una struttura modulare in bambù possa rispondere a esigenze di sostenibilità, scalabilità e adattabilità. Questo progetto, supportato dall’Agenzia Svizzera per lo Sviluppo e la Cooperazione, è stato applicato nei campi dei rifugiati Rohingya, dimostrando come il design possa affrontare le sfide sociali ed ecologiche.
Nonostante questi esempi di successo globale, l’Europa continua a mostrare un significativo ritardo nel riconoscere il contributo delle donne all’architettura. Movimenti come quello delle donne Bauhaus hanno lasciato un’eredità importante, ma spesso trascurata dalla narrazione storica.
Dal 20 settembre al 2 ottobre 2024, lo spazio MAC – Micromega Arte e Cultura di Venezia ha ospitato la mostra itinerante (In)visibili, un progetto dedicato a far emergere il contributo delle donne all’architettura del XX secolo. Dopo le tappe di Nantes e Tolosa, l’esposizione, organizzata dall’Ordine degli Architetti di Venezia e dalla sezione locale di AIDIA, ha portato in Italia un messaggio chiaro: riconoscere il ruolo fondamentale delle donne nella storia dell’architettura e rivedere una narrazione che ha spesso relegato nell’ombra il loro operato, attribuendo meriti esclusivamente a figure maschili.
Curata dal collettivo francese Mémo, la mostra ha proposto ritratti di architette come Lilly Reich, Marion Mahony e Aino Marsio, sovrapposti ai volti dei loro celebri colleghi uomini, tra cui Mies Van der Rohe, Frank Lloyd Wright e Alvar Aalto, creando un potente contrasto visivo e concettuale.
L’inaugurazione, avvenuta il 20 settembre, è stata arricchita da una tavola rotonda che ha riunito esperti italiani e francesi per discutere delle disparità professionali ancora presenti nel settore dell’architettura, evidenziando come, nonostante il 45% delle iscrizioni agli Ordini sia femminile, le donne continuino a occupare ruoli subalterni con minori responsabilità e retribuzioni.
Per questa tappa veneziana, (In)visibili si è arricchita di un nuovo contributo: un ritratto dell’architetta veneziana Egle Renata Trincanato, il cui prezioso lavoro è stato spesso oscurato dalla figura di Giuseppe Samonà, grazie all’omaggio reso dall’Ordine APPC e da AIDIA Venezia.
La mostra, che è stata visitabile gratuitamente fino al 2 ottobre, ha rappresentato un momento importante di riflessione e celebrazione, invitando a immaginare un futuro più equo e inclusivo per il ruolo delle donne nella progettazione del nostro patrimonio architettonico.
Le sfide non riguardano solo l’architettura, ma si estendono al più ampio ambito delle discipline STEM. Le donne continuano a incontrare ostacoli sistemici, ma il loro approccio, caratterizzato da un equilibrio tra innovazione tecnica e sensibilità sociale, offre un’opportunità unica per costruire un futuro più equo e sostenibile.
Neri Oxman, con il suo lavoro che fonde biologia, arte e tecnologia, è un esempio di come il progresso tecnico possa essere umanizzato per affrontare le sfide globali.
Negli Stati Uniti con il movimento femminista degli anni '70, le donne iniziarono a organizzarsi per ottenere una maggiore visibilità e pari opportunità. L’istituzione di gruppi come l’Organization of Women Architects and Design Professionals (OWA) nel 1973 rappresentò un punto di svolta, offrendo una piattaforma per discutere le disparità e promuovere l’avanzamento delle donne nella professione.
Architette come Denise Scott Brown emersero in questo periodo, pur affrontando enormi difficoltà. Scott Brown, partner professionale e personale di Robert Venturi, giocò un ruolo fondamentale nello sviluppo della teoria postmoderna dell’architettura. Tuttavia, per anni il suo contributo fu ignorato, come dimostrato dal fatto che solo Venturi ricevette il prestigioso Pritzker Architecture Prize nel 1991. Solo nel 2013 una petizione globale sollevò il caso, spingendo a una riflessione critica sull’esclusione delle donne dai grandi riconoscimenti.
Si ripete la storia di figure come Marion Mahony Griffin (1871-1961), collaboratrice di Frank Lloyd Wright, che dimostrarono il ruolo cruciale delle donne nei grandi studi. Mahony Griffin contribuì allo sviluppo del Prairie Style, disegnando spettacolari renderizzazioni architettoniche, ma il suo contributo fu spesso oscurato dal nome di Wright.
Riconsiderare il ruolo delle donne nell’architettura contemporanea significa ripensare il passato per costruire un futuro inclusivo. Progetti come il WAA (2024) e MoMoWo (2018) dimostrano che l’architettura può essere uno strumento di giustizia sociale e innovazione, un cantiere aperto che attende di essere completato con il contributo delle donne come protagoniste.
Il Women Atlas Archive (WAA) è un’iniziativa che mira a documentare e celebrare il contributo delle donne nell’architettura, nel design e nelle arti applicate. Questo progetto combina ricerca storica e narrazione visiva per mappare le opere e i profili di figure femminili spesso dimenticate, ma che hanno avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo di queste discipline.
L’obiettivo è creare un archivio che renda giustizia al lavoro di queste professioniste, offrendo uno strumento di ispirazione per le nuove generazioni e promuovendo un modello di inclusività e riconoscimento. WAA si inserisce in un movimento più ampio che mira a riscrivere la storia con una prospettiva equa, evidenziando le disparità di genere e celebrando le donne come protagoniste del cambiamento.
In questo contesto si colloca anche il progetto MoMoWo – Women’s Creativity since the Modern Movement, un’iniziativa europea lanciata nel 2014 e conclusa nel 2018 grazie al finanziamento del programma Creative Europe. MoMoWo ha avuto come scopo la valorizzazione del contributo femminile in architettura, design, ingegneria e urbanistica, partendo dal periodo del Movimento Moderno del XX secolo fino ai giorni nostri.
Coinvolgendo sette paesi europei, il progetto ha dato vita a mostre, conferenze, pubblicazioni e workshop, creando una piattaforma di dialogo e confronto tra professionisti, studenti e pubblico. Tra le iniziative più significative del 2018, anno conclusivo del progetto, spicca una mostra itinerante che ha attraversato diverse città europee, celebrando figure di spicco come Eileen Gray, Charlotte Perriand e Gae Aulenti. MoMoWo si è distinto per l’approccio multidisciplinare, unendo ricerca accademica, divulgazione culturale e formazione, contribuendo a sensibilizzare sul ruolo delle donne nelle discipline progettuali e promuovendo una rilettura della storia attraverso una lente più inclusiva e consapevole.