È in mostra al Museo e Real Bosco di Capodimonte la mostra Jan Fabre. Oro Rosso Sculture d’oro e corallo, disegni di sangue a cura di Stefano Causa.
È dal 1978, durante una delle sue prime performance, My Body, My Blood, My Landscape, che Fabre ha usato e usa il proprio sangue come mezzo espressivo. Da allora l’artista ha affrontato, nel corso della sua carriera, diverse volte questo tema. “Il sangue oggi è oro” – dice Fabre, riferendosi alla somiglianza con il corallo, ribattezzato anche oro rosso per la sua preziosità, con le vene e le arterie del corpo, rendendolo un perfetto rappresentante del ciclo vitale.
Oltre alle quindici opere esposte nel 2016 all’Ermitage e a sessantaquattro disegni realizzati col “sangue”, anche dieci nuove sculture in corallo create per la mostra, che poste al termine delle gallerie del barocco napoletano, dialogano con alcuni capolavori del museo e di altri musei locali, in un allestimento creato ad hoc. The Red Gold Passion, che riprende l’icona del sacro cuore di Gesù, è un cuore anatomico ricoperto di cornetti da cui sembrano quasi fluire, come le vene, nove rami di corallo, lucidi come il sangue. The Red Gold Artist Skull, è una sorta di autoritratto dell’artista che si fa ispirare dai capolavori fiamminghi; qui, è la testa di un teschio ad essere ricoperta di coralli, questa volta a forma di occhio. Sulla nuca, invece, una stella che allude a qualcosa che va al di là della percezione visiva/estetica.
Il corallo poi è l’essere vivente più longevo in natura, appartenente a tutti e tre i regni naturali (vegetale, animale, minerale) che porta l’immagine della sua morte all’esterno, il guscio. Fabre aveva già affrontato il tema della corazza protettiva, coi suoi scarabei, simbolo di metamorfosi. Li ritroviamo nell’opera, The Devilish Bridge between Life and Dealth, dove ali piedi della croce-albero troviamo uno scarabeo. The Devilish Passion è un mosaico scultoreo a forma di cuore da cui spuntano due corna, simbolo di lussuria, come accadeva nell’antica Roma. The Devilish Love for Death, è un teschio formato da centinaia di roselline intarsiate, e dal ghigno beffardo che allude al trionfo della Morte, e al fascino della “Santa Muerte” fiamminga. Un moderno Bosch. Ma l’uomo non ha corazze che lo proteggano, ecco perché Fabre realizza The Dagger of an Angel, un pugnale interamente ricoperto di corallo rosso che potrebbe essere simbolo di salvezza, quanto di castigo.
The Sword of an Angel, ricorda la spada che l’artista impugnava nella sua video-performance Lancelot del 2004, in cui combatteva per cinque ore un avversario che non vediamo mai, quasi come se in realtà stesse combattendo contro e in difesa di sé stesso.
Sono un donatore universale? È come se volessi fare una trasfusione al mondo.
(Jan Fabre, I am blood (A medieval fairytale), 2001)
Già nella performance del 2001, Sanguis/Mantis, Fabre vestito da cavaliere medievale, disegna col sangue. In mostra, l’elmo che nella performance era la testa di una mantide, presenta una versione a due facce, una rifinita e l’altra abbozzata, come per evocare la dualità in tutte le cose. Fabre usa la forma della novella medievale, presente anche nella performance teatrale Je suis sang nel 2001, proprio per rafforzare questo concetto e indagare sul legame tra passato e presente. Se ne possono vedere gli effetti sui disegni, dalla carta ingiallita e dal color del sangue scurito.
Fanno parte dei disegni di sangue, che per libertà espressiva ricordano ancora una volta quelli fantasmagorici di Bosch. anche diciannove Prayer Cards Collage Drawings, realizzati tra il 1993 e il 1995, ed esposti per la prima volta in occasione della mostra. Per realizzarli, il “santo anarchico di Anversa”, come ama definirsi, ha utilizzato i tradizionali santini cattolici decorati, gli stessi che, come si legge in una intervista con Larry List, facevano parte della collezione della madre. Probabile frutto delle sue notti insonni, questi collage hanno la dimensione del cuore umano e hanno tutti il sangue dell’artista al centro con una pallida filigrana vascolare.
Oltre al Museo di Capodimonte, Fabre ha voluto coinvolgere il Pio Monte della Misericordia, per cui ha realizzato The Man Who Bears the Cross, che dialoga con le Sette opere di Misericordia di Caravaggio, il Museo Madre, esponendo una nuova versione del The man who measures the clouds, e la storica Galleria Studio Trisorio, per cui realizza, con la mostra Tribute to Hieronymus Bosch in Congo, opere realizzate con mosaici di scarabei, ispirate alla violenta colonizzazione del Congo.