“Questa canzone era in un disco che è uscito nel 1970. Che per me significa cinque minuti fa”. Quando il 7 luglio Elton John pronuncia queste parole, davanti ai ventimila di Lucca, proprio sotto alle Mura storiche, molti vorrebbero rispondere: anche per noi. E non perché siano tutti coetanei. Vale anche chi è nato dopo quel 1970, per chi ha conosciuto le canzoni del suo secondo album, Elton John, quando magari erano vecchie già di quindici o vent’anni. Ma senza stare a sottilizzare tanto sull’anagrafe, quello che sta nascosto in quelle poche parole, e nella risposta silenziosa di quella folla (almeno quelli che erano lì per ascoltare e non per farsi i selfie e far vedere che c’erano) è questo: c’è stato un momento, nella prima metà degli anni Settanta, in cui Elton John ha goduto di una forza creativa prodigiosa, in cui ha fatto la storia del pop. E quindi la musica composta in quel lasso di tempo - vale anche per i testi di Bernie Taupin - sembra inventata ieri, oggi. E naturalmente lo sa anche lui. Serve una prova? Basta prendere la scaletta di Lucca e fare due conti: diciannove delle ventiquattro canzoni eseguite sono uscite nell’arco di quei sei incredibili anni, dal 1970 al 1975.
Andiamo nel dettaglio. Sei brani vengono da Goodbye Yellow Brick Road (1973) ed è normale, visto che il tour di addio del musicista britannico sostituisce la parola Goodye con Farewell ed è incentrato soprattutto su quel disco, generalmente considerato il migliore: Bennie and the Jets, All the girls love Alice, Candle in the wind, Funeral for a friend/Love lies bleeding, Saturday night's alright for fighting e Goodbye Yellow Brick Road. Tre sono tratte da Elton John (1970): Take me to the pilot, Your song e Border song. Altre tre da Madman across the water (1971): Indian sunset, Levon e Tiny dancer. Due da Caribou del 1974 (Don't let the sun go down on me e The bitch is back), e due da Captain Fanstastic & the Brown Dirt Cowby del 1975 (Someone saved my life tonight e Philadelphia freedom). Una a testa per Honky Chateau del 1972 (Rocketman), Tumbleweed Connection del 1970 (Burn down the mission) e Don’t shoot me I’m only the piano player del 1973 (Daniel).
Cinquant’anni di carriera in tutto, diciannove canzoni per raccontarne sei, e cinque per descriverne altri quarantaquattro. Che significa? Che Elton John dal 1975 non ha azzeccato quasi nulla? No, non esattamente. Significa che una serie di capolavori - uno dopo l’altro - come ha sfoderato lui in un tempo così breve si è registrata raramente nel corso della storia della musica pop. I Beatles, ovviamente, e pochi altri.
A Lucca è arrivato con la solita sobrietà: completo celeste con i revers tempestati di lustrini, così come gli occhiali. Dopo la partenza a razzo di “Bennie” c’è stato qualche momento meno avvincente. Non so quanto incidesse il fatto che dal prato, dov’ero io, i primi dieci pezzi della scaletta si sentissero poco e male per via di un problema tecnico che ha fatto fuori gli altoparlanti delay, quelli a metà prato, ma ho chiesto anche a persone che stavano davanti al palco, con le casse accese, e hanno avuto la mia stessa impressione: arrangiamenti pericolosamente lunghi, voce che qualche volta (pur senza stonare) sembrava a corto di fiato, atmosfera un po’ moscia. Niente di tragico, qualcosa che non andava qua e là. Con il passare dei minuti, però, il ragazzo si è scaldato, ha picchiato forte quelle ditone tozze sui tasti del pianoforte e si è fatto spingere a dovere dalla band. Per qualche sprazzo sembrava l’Elton John resident artist del Caesars Palace, sembrava lo spettacolo per un pubblico da oliva nel Martini, in altri frangenti, complici i filmati di repertorio che lo riprendevano saltellante in giro per i palchi di tutto il mondo, veniva voglia di ballare e si respirava aria di rock and roll.
A un certo punto, sottolineando il significato di un tour d’addio, ha spiegato al suo pubblico: “Sapete che non tornerò mai più, le cose stanno così. Ma devo ringraziarvi: perché avete comprato i dischi, i cd e i dvd, e soprattutto perché avete pagato i biglietti per i miei concerti. Quello che mi piace di più, come artista, è suonare dal vivo, davanti a esseri umani che mi danno in cambio una risposta”. E la risposta del pubblico di Lucca, di varia provenienza (Toscana, Italia, ma anche una bella percentuale di stranieri) c’è stata, e somigliava all’abbraccio per quel vecchio amico di cui tutti conoscono le canzoni, anche quelli che non hanno i suoi dischi a casa, quel tipo dall’aspetto ordinario e che, conciato in quel modo, è inevitabilmente buffo e allo stesso tempo assolutamente credibile. Un ragazzetto basso e cicciottello che smise di andare a scuola pochi giorni prima della maturità perché gli avevano offerto un posto da fattorino in una casa editrice di Denmark Street, la via della musica di Londra, quella dove gli Who o i Led Zeppelin andavano a comprare gli strumenti. E lui voleva stare dove c’era la musica, dove si facevano i dischi.
Un fattorino che, in mezzo secolo, di belle canzoni ne ha consegnate parecchie, ma che soprattutto in quei sei anni ha letteralmente padroneggiato la magia.
Sono otto album, i titoli li trovate qui sopra. Andate subito a comprarli, o almeno ascoltateli.