Sono passati cinque anni da quando ho intervistato, per la prima volta, la scrittrice e saggista Erika Maderna. E ora l’ho incontrata di nuovo in veste di coorganizzatrice del Festival “Fiabando… nell’isola che c’è”, il suggestivo evento ideato da Maria Pia Minotti che si svolge sull’Isola Maggiore del Trasimeno – a settembre si terrà la VII Edizione – e che, come ogni anno, avrà come protagonisti adulti e bambini in un luogo magico nel quale luci, suoni e colori si fondono armonicamente col paesaggio. Ci siamo ritrovate, dunque, al termine dell’incontro che aveva come tema Un giardino di fiaba: come si coltiva un racconto. Perciò, chi meglio di Erika potrebbe coltivare il giardino della fiaba, del mito e delle Erbe? Esperta di Mito e Magia, Simbolismi e Archetipi, Regina per Aboca Edizioni di Piante e Aromi, Profumi e mitologie botaniche, è una profonda conoscitrice degli antichi saperi delle donne in medicina ed è autrice di numerosi studi, ricerche, articoli e libri fra i quali Medichesse: la vocazione femminile alla cura (2012) e Per virtù d’erbe e d’incanti: la medicina delle streghe (2018).
Perché la dimensione dell’Isola ci porta dentro le Fiabe, nel mondo incantato di Archetipi e Magia?
L’isola nella dimensione simbolica assume una fortissima valenza iniziatica. È uno spazio dell’immaginario, dove prendono vita le proiezioni dell’inconscio, dove l’Io trova rifugio e salvezza nel naufragio della vita e dell’identità. L’approdo all’isola definisce il contatto con un omphalós, un centro ideale geografico ed esistenziale, da cui è possibile contemplare l’infinito.
Sull’isola l’Eroe ha l’opportunità di recuperare energia psichica e di evolversi spiritualmente, ma essa segna anche metaforicamente un ritorno al grembo della madre. Nei miti, infatti, spesso è il luogo in cui il protagonista viene a contatto con il femminile attraverso incontri iniziatici significativi: è quanto accade, ad esempio, nell’Odissea, dove il viaggio di Ulisse è scandito dall’approdo in quattro diverse isole, nelle quali lo aspettano altrettanti incontri: Circe, il femminile archetipico e potente; Calipso, la donna che cura l’anima; Nausicaa, archetipo della figlia e portatrice di una profonda riconciliazione interiore; infine Penelope, la sposa, simbolo della sacralità del legame nuziale. È interessante notare come tutte queste donne, divine o mortali, siano figure di tessitrici: intrecciano il destino dell’uomo con la stessa abilità con cui da sempre le donne isolane annodano le reti da pesca per i loro uomini.
Tra Streghe e Fate, antiche e moderne, hai analizzato gli archetipi del mondo femminile, ricondotti spesso nella costola di altre divinità. Chi ha scippato il patrimonio ancestrale alle donne?
Il furto dei valori più profondi e reconditi del femminile è un processo cominciato ben prima di quanto siamo abituati a pensare. Lo troviamo già pienamente operante nel mondo greco che, nelle sue epopee e mitologie, dimostra di avere in parte dimenticato, o volutamente “addomesticato”, il substrato culturale pre-ellenico. Una traccia di questo processo è presente nei corteggiamenti (in realtà tentativi di stupro) del dio Apollo nei confronti delle ninfe di cui si invaghisce, delle quali usurpa valori e simboli. Così come è presente nella trasformazione culturale di Circe da dea (come ancora la chiama Omero) a maga, addirittura a protostrega. La narrazione nasconde, mistifica ma non cancella. In seguito, alle donne è andata anche peggio. Eppure i valori femminili, fortissimi, hanno resistito alle intemperie della storia: si sono ammaccati, hanno attraversato con tenacia i secoli oscuri, ma sono sempre riusciti a risorgere dalle proprie ceneri.
Oggi in una società di burattinai e burattini, risulta ancora attuale la fiaba iniziatica di Pinocchio (Pin-Occhio = Occhio Pineale ovvero Terzo occhio): un pezzo di legno, scolpito da un artigiano, al quale la magia di una Fata regala un’anima. In un mondo ormai ipertecnologico, dove gli scienziati hanno rimpiazzato gli artigiani, come descriveresti il Pinocchio “moderno”?
Oggi abbiamo dimenticato la natura divina che il mito attribuiva all’artigiano. Efesto, per i Greci, era un dio sensibile e raffinato, intenditore della bellezza e, non a caso, era lo sposo della dea Afrodite: un demiurgo esperto della magia del fare, un alchimista. Il potere insito nella capacità di forgiare la materia oggi ha lasciato il posto a una tecnologia che produce creature prive di corpo. E un Pinocchio moderno sarebbe forse così, disincarnato e virtuale, figlio di un artigiano tecnologico che collega bit ma non ha mani callose e sapienti. Ma non dobbiamo dimenticarci che Pinocchio è fatto di legno, di materia viva che cresce, respira, si trasforma. E non deve nemmeno stupirci il fatto che sia una Fata a insufflare l’anima nel burattino: come le ninfe, le fate sono anime vegetali e comprendono intimamente il “sentimento” degli elementi naturali. Probabilmente anche il nostro ipotetico Pinocchio tecnologico dovrà essere toccato da una bacchetta magica femminile, se vuole acquisire un’anima e diventare un bambino vero.
Come descriveresti un compagno di giochi che gli rammenta di non trascurare il “bambinello interiore”?
Un compagno che vede il mondo con occhi di meraviglia, invitandolo ad accogliere le connessioni misteriose, a scorgere l’invisibile dentro la trama della realtà. Oppure un aiutante magico capace di attivare il potere dell’intuizione, un po’ come fa la bambolina di Vassilissa nella fiaba russa della Baba Jaga.
Quanto è importante nella società dei consumi entrare in sintonia con “i semplici”?
Il contatto con “i semplici”, cioè con le erbe officinali comuni, ci riconduce al nostro legame profondo con la natura e ci aiuta a vivere il senso del sacro come cura e rispetto per ciò che ci circonda. La percezione della sacralità del creato è il recupero più importante che l’umanità può compiere se vuole accedere a un grado più evoluto e sostenibile di esistenza. Abbiamo un grande bisogno di quella “semplicità” grazie alla quale l’uomo antico capiva che ciò che è complesso può essere ricondotto a principi elementari, a energie pure, e che le piante umili, cioè “vicine alla terra” (humus), sono cosa gentile, benefica e preziosa per tutti noi.
Le costruzioni mentali dell’intelletto, se non vengono integrate dalla tessitura dell’intuito, rischiano di rimanere invisibili? Nel frastuono della mondanità, quanto spazio resta per ascoltare la propria musica interiore, i suoni della Terra e del Cosmo?
L’intuito è una grande risorsa dimenticata nel nostro tempo, eppure è importantissimo in quanto attiva la capacità di cogliere la realtà nella sua essenza. L’intuito può salvarci da un pericolo, ci evita di finire nei guai. Oggi, nonostante l’accesso a un livello di istruzione più elevato, sentiamo sempre di più il bisogno di esperti che regolino e gestiscano quasi ogni aspetto della nostra vita, sollevandoci dalla responsabilità di fare scelte errate, mentre dentro abbiamo un maestro saggio che urla per farsi sentire e per ottenere le nostre attenzioni. Ed è quella voce la nostra musica interiore, per usare la suggestione che proponevi nella tua domanda; ma il rumore di fondo che ci circonda spesso ci porta verso altri ascolti e ci distoglie da quelle note.
Quanto il continuo lamentarsi di tutto impedisce lo sviluppo di un individuo? Può il “Mugugno” incessante simboleggiare l’antagonista principale al cammino iniziatico del protagonista di una Fiaba?
Altroché se il mugugno può essere un antagonista! È un avversario che lavora instancabile e minuzioso fuori e dentro di noi. E la fiaba, che sempre fa da specchio a ciò che siamo e ci prende in giro presentandoci i tranelli della nostra psiche, ce lo dice a chiare lettere. Le nostre giornate sono scandite da un fastidioso e costante mugugno di fondo, quello dell’informazione, della società, dei triti luoghi comuni che pongono alla ribalta delle notizie solo ciò che non va, non funziona. In questo modo non riusciremo mai a migliorare. Ma quel che è peggio, quando questo spiritello maligno si infiltra dentro di noi, ecco che diventiamo bravissimi ad autosabotarci, a vivere di vittimismi. La fiaba può aiutarci a smascherare anche questi meccanismi deleteri.
A quale simbolismo ci collega l’esperto Profumiere delle Fiabe?
“Avere naso”, “andare a naso” o “avere fiuto” pone qualunque soggetto in una condizione privilegiata, legata all’intuito. Ma l’olfatto è anche un senso raffinato, spirituale, deputato più al piacere dell’anima che all’appagamento del corpo: ha un potere di profonda penetrazione della realtà ed è connesso ai centri della memoria. Il profumiere o la profumiera, dunque, in un’ottica archetipica o fiabesca, sono i depositari di un’arte capace di inebriare, di trasportare la mente e l’anima su note olfattive. E non è un caso che la terminologia del profumo spesso ricalchi quella musicale, e che la musica nelle fiabe spesso si configuri come il mediatore dell’in-canto, del sortilegio.
Nel mondo primitivo, quando ancora non si conosceva la funzione maschile nella procreazione, c’erano solo le madri, oggi esistono quelli che ho battezzato “Mammoy” – unione dei termini sardi “Mammay e “Babbay” – padre e madre contemporaneamente. Nelle famiglie dei separati o nelle famiglie arcobaleno, a quale simbolismo si possono associare?
Le recenti e veloci trasformazioni della società ci spingono a riflettere profondamente su schemi e modelli culturali per riformulare un concetto di famiglia che non rinneghi ma trasformi i valori del passato. In questo senso diventa importante, a mio parere, considerare la valenza del maschile e del femminile di cui ogni individuo è portatore, al di là del sesso. Quelle della “maternità” e della “paternità” sono elaborazioni che possiamo metaforizzare al fine di definire un’integrazione fra le due polarità, e la fiaba ci può far riflettere sull’importanza di questa integrazione. Le famiglie delle fiabe spesso propongono modelli per noi respingenti: genitori che abbandonano i figli nel bosco, padri che si risposano con donne opportuniste e incapaci di amare i figliastri, matrigne crudeli. Ma in fondo, alla fine, i Principi e le Principesse si salvano nel reciproco incontro indicandoci la necessità profonda di una riconciliazione fra queste due polarità. Perché le fiabe parlano sempre di noi, e ognuno dei personaggi messi in campo è la rappresentazione di un aspetto della nostra anima.