Due viaggi hanno inizio nei primi libri dell'Odissea. Quello del figlio, Telemaco, che sotto la discreta e sapiente guida della dea Atena trova il coraggio di allontanarsi da casa, da Itaca, e di prendere finalmente in mano il proprio destino di giovane uomo; e quello del padre, Odisseo, cui gli dei dopo tanto tempo accordano il permesso di lasciare l'isola di Ogigia e la ninfa Calipso, di fare rotta verso l'amata patria. È un viaggio “di andata” quello del figlio, di esplorazione del mondo e di sé, un viaggio innescato dall'urgenza di ricomporre l'immagine di quell'illustre genitore di cui la madre gli ha sempre decantato le gesta e del quale tutto il mondo celebra la gloria, di quell'uomo mai conosciuto dal quale nondimeno sa di non poter prescindere (molto gli somiglia, così si sente continuamente ripetere), di colui che è garante della continuità dell'intera stirpe e dal quale discende per lui ogni possibilità di futuro; è al contrario un viaggio “di ritorno” quello del padre, di lenta e faticosa riconquista di quell'identità minacciata che troppe volte si è visto sottrarre e che soltanto il ricongiungimento con i luoghi cari del proprio passato potrà definitivamente restituirgli.
Approda a Pilo il figlio. Nera ecatombe di tori si compie sulla rena del mare a beneficio di Poseidone sovrano. Ed è subito incontro. Nel forestiero che si era presentato giorni prima alle soglie del suo palazzo Telemaco non aveva potuto riconoscere le sembianze di Mente, capo dei Tafi, antico frequentatore della sua famiglia, e nemmeno la veneranda presenza della dea aveva intuito sotto quelle spoglie l'ingenuo erede di Odisseo; eppure, l'aveva immediatamente sollecitato a entrare e l'aveva nutrito, adirato con i superbi pretendenti per averlo lasciato lì, sulla soglia, ad aspettare, perché a lui era bastato riconoscere in quella figura i tratti dello xeinos, di “uno al quale offrire asilo perché venuto da fuori” secondo i dettami di quell'inviolabile ospitalità che rende un uomo degno di essere detto tale. Così è trattato a sua volta Telemaco nella terra del sapiente Nestore, invitato a sedere, messo a parte del sacro banchetto, riverito perché xeinos, onorato in quanto “straniero da omaggiare come uno di casa”. E soltanto dopo il cibo, ecco venire le parole, le domande, i racconti. Rispetto per rispetto, devozione in cambio di devozione, civiltà in risposta a civiltà.
Poi è la volta di Lacedemone e tutto si ripete identico: l'arrivo, la celebrazione di una festa (addirittura la festa di nozze per il figlio e la figlia del re Menelao), l'immediata accoglienza, il convito generosamente condiviso, di seguito gli interrogativi, le narrazioni, e questa volta anche le lacrime. Amare e copiose rigano i volti dei presenti al ricordo della sorte di quanti non sono rientrati da Troia, finché la bella Elena, sposa dell'Atride, non prende ad offrire agli astanti coppe di vino in cui ha disciolto una prodigiosa sostanza “che l'ira e il tormento placa, silenzio di tutte le pene” (IV, v. 221). Difficile dire cosa sia, più facile intuirne lo straordinario potere di guarigione, la strepitosa forza consolatrice; “nepente” la chiama Omero, perché della memoria annienta il penthos di cui essa spesso si fa portatrice, il “dolore soverchiante” che rischia di paralizzare, la “sofferenza acuta” che schiaccia. Che Elena abbia somministrato la stessa misteriosa bevanda al proprio sposo, lenendone le ferite di uomo tradito e abbandonato, ingenerando in lui indulgenza verso le proprie colpe di donna sconsiderata e infedele? Che sia questa la ragione per la quale egli può ascoltarla mentre ancora dopo tanto tempo parla di sé come di una “cagna” (IV, v. 145), pur avendola riammessa al talamo nuziale?
È sulla riva di una strana terra che giunge, invece, il padre. Non sono affatto ostili i suoi abitanti; Lotofagi sono detti, “Divoratori di loto”, cibo fiorito e profumatissimo che essi senza riserva alcuna offrono ai compagni di Odisseo appena sbarcati. Eppure, un pericolo mortale serpeggia silente in quell'idillio fiabesco ai confini del mondo civile e presto tale condizione edenica così simile alle primitive stagioni della storia del mondo rivela il suo volto mortifero. Non mangiano pane, i Lotofagi, ma come animali “pascolano” i dolci frutti che la terra spontaneamente regala, oggetto di nessuna cultura, prodotto di nessuna cucina (IX, v. 97); non conoscono il lavoro, ne hanno completamente scordato la necessità, non conservano sentore del suo valore; e soprattutto non consumano il pasto insieme, i Lotofagi, il loro nutrirsi non richiede condivisione, non crea socialità, e al di fuori di ogni apparato ufficiale di commensalità essi ricevono chiunque incontrino. È una xenia distorta la loro, che annulla l'identità degli ospitati cui è negata ogni reale possibilità di confronto con l'identità assente degli ospitanti, altrettanto evanescente e inconsapevole; così come è un alimento velenoso quello che da loro proviene, che disumanizza e strania, che anestetizza l'animo con le lusinghe dell'atarassia.
Perché pericoloso è l'oblio - questo sembra voler enunciare con insistenza il poeta - persino laddove assume i tratti di un miracoloso sollievo, anche quando è invocato quale indispensabile rimedio. Salva Telemaco dalla disperazione, il nepente, eppure a definirlo è il termine pharmakon (IV, v. 220), vox media per eccellenza della lingua greca, parola antichissima e profondamente ambigua. Sulla scia - pare - di ancestrali pratiche rurali, pharmakos era stato un individuo deforme e ripugnante, che si faceva emblema di tutto il male di cui la comunità simbolicamente lo caricava e di cui altrettanto simbolicamente si liberava, scacciando con violenza lo sciagurato innocente e scaricando su di lui le proprie paure e la propria aggressività; una primigenia (e ancora attualissima!) forma di catarsi sociale in cui il pharmakos giocava insieme il ruolo del maledetto e del salvatore, del reietto e del guaritore, fino a quando la sua duplice natura fu fatta propria dal lessico magico-medico e pharmakon divenne ogni sostanza, erba, droga, intruglio e preparato foriero di cura o di morte a seconda dell'uso che di esso veniva fatto. È forse possibile immaginare qualcosa di più abominevole di un figlio nel quale sia stato a tal punto inibito il pianto da non vederlo commuoversi neppure di fronte alla scomparsa del padre o della madre? Di un fratello o di un genitore in cui ogni palpito di umanità sia stato a tal punto tacitato da non cogliere in loro neppure il più piccolo segno di strazio davanti alla barbara uccisione di un fratello o di un figlio (IV, vv. 222-226)?
Più forte che mai la dea infonde in Telemaco il ricordo del padre, prima che egli salpi per la sua missione (I, v. 321-322), sono le sue lacrime di figlio a renderlo immediatamente riconoscibile agli occhi di Menelao (IV, v. 116). È a forza di pianto che Odisseo ricaccia sulla nave i compagni sazi di loto, strappandoli al loro limbo di incoscienza e ridestandone il desiderio del ritorno (IX, v. 98). Penoso è il risveglio della memoria per Odisseo che ascolta fremente il canto dell'aedo alla corte dei Feaci, nondimeno è l'inconsolabile esplodere del suo dolore a consentirgli di riappropriarsi del proprio nome e della propria storia (VIII, vv. 520 ssgg.).