Cade una bomba dal cielo e uccide o mutila chi trova. La guerra è precisa: lutti e rovine. Un soldato spara a colui che funge da nemico e lo ammazza. La guerra è precisa.
“La guerra è precisa. La pace, invece, è imprecisa” disse Cesare Zavattini del quale basta ricordare la sceneggiatura di Ladri di biciclette che elenca da sola i suoi talenti e la risonanza della sua mente nelle nostre vite.
La guerra è precisa, quindi atrocemente ‘facile’ da dichiarare, da combattere e da subire. La pace è imprecisa, quindi difficilissima da raggiungere e mantenere: fatta della volubilità di circostanze e umori, di fiammelle di candela esposte ai soffi di ogni vento, di bilanciamenti al milligrammo fra i valori dell’umanità e l’avidità cavernicola, la brama di sopraffazione. Siamo stati così dal principio, non idealizziamo i tempi trascorsi, ce lo insegnano la storia e le letture. Torturavamo e torturiamo. Per il potere, per il denaro, per sadismo, per insicurezza. Con la complicità del disimpegno interiore quotidiano che fa sgomitare a un rinfresco abbondante, che ci impedisce di riflettere (sennò sapremmo sempre che il nostro io splende nel considerare il mondo nel suo complesso, non viceversa). Con la complicità delle paure. E la paura delle differenze è una di quelle più torreggianti e strumentalizzate.
Le differenze che hanno sempre nutrito Maria Cassi. L’attrice internazionalmente fiesolana, a poche settimane dal debutto londinese con Crepapelle, porta spesso sotto i riflettori Zavattini: “La guerra è precisa. La pace, invece, è imprecisa”. Lo ha fatto anche in questi giorni di fronte a migliaia di allievi toscani delle scuole medie inferiori e superiori, in Story of my life/Mi rammento1, un canto corale, uno spettacolo di formazione, che la vede in scena con cinque giovani immigrati in Italia dall’Africa.
“L’idea era di far vedere ai ragazzi dei ragazzi. La pelle di colore diverso - spiega Maria Cassi - il cuore che batte all’unisono delle identiche emozioni. Una grande occasione per me, non avevo mai avuto un’esperienza del genere accanto a delle persone che hanno un’altra storia di vita. Come dico in scena: ‘The story of my life is not the story of their lives’. Mi metto nei loro panni, o perlomeno cerco, provo a dare un sostegno fraterno, in questo sento la cosa molto liturgica però laica, essendo io estremamente laica, ma credente nella fratellanza, anche su un palco. La fratellanza può creare fratellanza in qualcuno che la vede o, almeno, generare un dubbio. Li guardo mentre parlano e mi rendo conto di guardarli veramente con interesse. Un interesse che rinnovo e il teatro è questo: sennò rifai, rifai e rischia di diventare un po’ sterile”.
Interesse che i cinque protagonisti suscitano anche nel giovane pubblico: coinvolto già dall’oscurarsi della sala. Ammirato e divertito con i balli, la musica, e l’umorismo. Commosso quando Yahaya Ouedraogo, senza vittimismo, senza accuse, chiede: “Che cosa può succedermi che non mi sia già successo?” evocando l’inferno attraversato dalla Nigeria all’Italia, ma senza raccontarlo.
Yahaya è un po’ il portavoce dei cinque: “Per me essere sul palcoscenico, con questi spettatori che mi accolgono, attenti a tutto ciò che facciamo, è una gioia. Pensando al passato e a quello che sto vivendo adesso dico a me stesso che quello era il percorso per arrivare qui e per poter vivere la felicità. Il dolore mi ha portato alla gioia. E la gioia alla speranza”.
Yahaya ricorda il primo incontro con Maria Cassi, avvenuto nel centro di accoglienza San Domenico di Pistoia: “Mi sono accorto subito di essere davanti a una persona grandissima, di anima, di cuore e di professionalità. L’emozione è sapere che lei, conosciuta da tutti, in questo momento storico di rabbia, con i ministri che parlano con rabbia di immigrazione, abbia accettato di fare questo spettacolo. Non ha guardato a quello che può succedere, alla gente con le idee diverse: ha rischiato. Ci crede. Siamo tutti insieme in scena. Lei è bionda e noi scuri, lei è donna e noi uomini, e siamo insieme”.
Maria Cassi mai professorale, mai politicamente corretta. “Maria è importante per me” dice Babalola, un altro degli interpreti di Story of my life/Mi rammento. “Io penso che lei è se stessa, quello che prova è quello che racconta - spiega Yahaya - ha i mezzi dell’attrice, ma quello che rappresenta è la sua anima”.
“Provo il piacere di essere con loro - riprende Maria Cassi - e oggi l’ho percepito maggiormente, e siccome tengo molto alla tenerezza volevo che ai ragazzi arrivasse anche questo, la mia compartecipazione. All’inizio delle prove, ero con cinque sconosciuti che si mettevano nelle mie mani, artisticamente, e mi sono detta: forse non è nemmeno opportuno che io sappia troppo di loro. È probabile che da questo mistero, da questa magia, possa nascere qualcosa e non mi sono nemmeno messa a investigare: chi sei, cosa fai, da dove vieni. Ci sono stati momenti di crisi, piccole discussioni, ritardi. Ho chiesto: vi fidate? E mi hanno detto sì. Perché io ho un modo di lavorare che se lo domando a me medesima: qual è il tuo modo di lavorare? Boh? Mi rispondo. Percorro una strada mia, da tanti anni, che è mentale, scritta, poi di nuovo mentale poi di nuovo scritta e ho dato anche loro questa possibilità per costruire lo spettacolo, ma non fissarlo, che è la forza del teatro, la pulsazione del teatro, la vita del teatro”.
Dopo la recita alla Compagnia di Firenze, la Cassi è stata avvicinata da una studentessa: “Ho pianto, ho riso e mi sono venuti i brividi. Dovreste rappresentarlo in tutti i teatri d’Italia”. Nel foyer si è sentito un altro studente affermare con i compagni: “L’attrice ha detto che le differenze sono una ricchezza”. Ed era un concetto già assimilato, magari nessuno glielo aveva spiegato prima.
“Si deve fare tanto, ognuno come può: i genitori, le nonne, le zie - continua Maria Cassi - non bisogna pensare che niente sia inutile, mai. Io ho trovato i ragazzi maturi, e ho fatto i complimenti ai docenti. È un momento di social, di telefonini: i ragazzi vivono adesso, se si nasceva quando non c’era la penna stilografica si scriveva con la penna d’oca. Forse vanno un po’ aiutati perché il mondo sta andando verso una deriva, tornando a delle cose orribili, violente, discriminanti.
Ti seguono. C’è un silenzio impressionante in platea. Bisogna dare delle chiavi. Io le ho ricevute da bambina delle chiavi: dai domenicani, da tanta gente, dal gatto e attraverso quelle sono cresciuta.
Negli anni Ottanta quando mi esibivo nelle piazze con il duo Aringa e Verdurini ci tiravano le pietre, non erano idilliaci. Questi ragazzi di oggi qualche mezzo in più ce l’hanno; se i genitori e gli insegnanti sono così bravi da fargli capire che con Internet puoi affinare la conoscenza (è di un comodo), ma ci vuole il discernimento, è fatta. Aiutiamoli a pensare con la propria testa, a rifiutare gli stereotipi, gli slogan, la paura del diverso che è micidiale, cavalcata, con grandi bugie. Nelle sei repliche, l’ho trovati, vabbè, ho un po’ di capacità comunicative [sorride autoironica n.d.r.], maturi, impegnati, presenti. Non si possono demonizzare perché noi eravamo… Ma che eravamo?! Ma dove?!”.
Cassi & Boys vagheggiano di portare Story of my life/Mi rammento al pubblico tutto. Essere stati promossi cum laude dagli studenti è incoraggiante. “Non è uno spettacolo per le scuole, appartiene a chiunque. I ragazzi - conclude la Cassi - sono molto più critici degli adulti. E se è stato godibile per loro…”.
1 Story of my life/Mi rammento. Da un’idea di Lorenzo Cipriani e Marco Imponente. Scritto diretto e interpretato da Maria Cassi, con la collaborazione di Neri Monici. Con Henry Obgoin, Babalola Olokunboyo, Yahaya Ouedraogo, Paul Okoye, Godspower Job. In collaborazione con Arkè Cooperativa Sociale. Allestimento tecnico: Diego Costanzo. Presentato da Controradio Club e Controradio. Progetto promosso e cofinanziato dalla Regione Toscana.