Attrice di temperamento, il suo repertorio spazia dalla tradizione milanese - con le sue interpretazioni nella compagnia stabile del Teatro della Memoria e una particolare affinità con la rappresentazione della donna in Carlo Porta – alle novità contemporanee. Ultimamente si è cimentata nel cinema, interpretando il ruolo della figura mistica in Dante va alla guerra.
Le gioie più grandi: una famiglia vasta e meravigliosa, che mi ispira e sostiene umanamente e nel lavoro, e uno straordinario fidanzato, con cui divido spesso anche l’attività scenica. I dolori più grandi: alcuni lutti, a partire da quello, prematuro, per mio padre. Non riesco a dire altro: chiamiamola “cognizione del dolore”, citando l’adorato Gadda. Sogno di essere riconosciuta (magari anche in un foyer) come attrice di temperamento, in grado di coniugare tradizione e piglio contemporaneo.
Quali esperienze, incontri, l’hanno portata al teatro?
La proposta, da parte di un’amica di famiglia cui sono tuttora molto affezionata, a partecipare ad alcuni spettacoli: ero un’adolescente con qualche problema di identificazione coi miei coetanei, e il teatro mi regalò un sorprendente benessere interiore, legato anche a una nuova forma di riconoscimento da parte di compagni e insegnanti. Una rivalsa, per dirla tutta.
Che processo mentale ed emotivo la trasforma, da persona in personaggio?
In genere, mi piace lavorare a tavolino per conto mio, oltre alle prove “ufficiali”, perché alcune preziose suggestioni possono non essere immediate, ma affiorare successivamente, magari mentre si fa tutt’altro. Amo anche ispirarmi, ove possibile, a materiali artistici attinenti. Sul piano personale, cerco di individuare i punti maggiormente coincidenti con le mie esperienze emotive (a volte può trattarsi di ricordi e immagini minuscoli), per costruire una griglia salda su cui lavorare di sfumature, insieme a regista e, quando ne ho la fortuna, autore.
C’è qualche personaggio da lei rappresentato, a cui si è sentita particolarmente vicina?
Sono affezionata soprattutto a personaggi che mi hanno indelebilmente cambiata, tanto è stato faticoso raggiungerli: dovevo mostrare orgoglio, autorevolezza, rabbiosa superiorità, anche un certo cinismo. Lati caratteriali “scorretti”, che il quieto vivere giornaliero impone rigorosamente di celare, al punto di faticare a disporne quando, un pochino, servirebbero. In scena, cresce anche “l’erba voglio”!
Una delle sue più intense interpretazioni è la Ninetta del Verzee, che denuncia una degradante condizione femminile di abuso e sfruttamento: può ancora essere di attualità?
Senza dubbio! Già è immensa l’attualità di linguaggio e forma: chi ama, per esempio, le donne testoriane, penso ne possa intravedere, qui, uno sbalorditivo precedente. Per quanto riguarda il tema, trovo particolarmente dolorosi i passaggi legati allo sfruttamento, col sacrificio dei ricordi personali, e la vendetta finale, non dissimile dall’odierno stalking.
Yin e Yang: femminile e maschile nell’arte e nel teatro…
Ho la fortuna di poter parlare per esperienza: intravedo e auspico un’osmosi sempre più profonda e gioiosa tra le due sensibilità. Bisognerebbe potersi mettere in gioco per quello che si è e si fa, indipendentemente dal “ruolo” sessuale.
Che impatto ha avuto il suo debutto nel mondo del cinema?
Per ora, ho avuto esperienze tanto belle quanto limitate, in ambito indipendente. Ammetto di sentirmi più a mio agio col teatro, per le mie caratteristiche personali. Un sogno nel cassetto, però, c’è: un horror vecchio stile, come quelli con Bette Davis, poca tecnologia e moltissima tensione. Speriamo….
Ci può sintetizzare la storia e le finalità del Teatro della Memoria e della sua compagnia stabile, con cui ha realizzato molte delle sue interpretazioni?
Devo moltissimo al suo fondatore e direttore, Aleardo Caliari, e ai suoi più assidui collaboratori, per avermi “tenuta a battesimo” sul palcoscenico, con un’infinità di insegnamenti storici e pratici, in scena e dietro le quinte, e per avermi dato possibilità lavorative difficilmente pensabili altrove. Insediatosi stabilmente nel 1998, ma culturalmente attivo dal 1980, il Teatro si caratterizza per il costante omaggio alla tradizione culturale milanese e non solo, dal Medioevo ai giorni nostri. Un omaggio frutto di ricerca storica e filologica, in cui il dialetto, declinato nelle sue varianti secolari, è parte fondamentale; l’approccio è, però, sempre consapevole, lontano da certa dialettalità sguaiata, pretestuosa, qualunquista, dannosa per il dialetto stesso e per chi lo ama con intelligenza. Ma “Memoria” significa anche affettuosa riscoperta di eleganti forme teatrali d’epoca: café chantant, operetta, chansonniers, rivista, cabaret di qualità. Indimenticabili, sul suo palco, Piero Mazzarella, Walter Valdi, Nanni Svampa, Roberto Brivio, Roberto Negri, Enrico Beruschi; tra le donne, Chicca Minini, Rosalina Neri, Anna Priori, Mirton Vajani, Marina De Juli.
Come giudica la risposta dei cittadini e delle istituzioni alla tutela dell’identità e della tradizione ambrosiane?
A volte, mi piacerebbe vedere atteggiamenti più festosi, innocenti, meno collegati a strumentalizzazioni di potere e polemiche. Quando la nostalgia, da ricordo poetico, diventa fanatismo e chiusura mentale, la cultura stessa ne soffre. D’altra parte, convivenza non deve significare prevaricazione, né tolleranza giustificare abuso, in alcun caso; anche perché è molto difficile che, a una provocazione, non ne consegua una opposta.
Nel suo repertorio usa sia la lingua milanese, sia l’italiano: c’è un approccio diverso?
Ho sempre amato lavorare con e sulle parole, mi piace farle vivere, vibrare. Dedico al dialetto lo stesso rispetto che dedico all’italiano, in termini di articolazione, dizione, studio sonoro, etimologia, rapporto tra significante e significato. Ne vale la pena: è un insegnamento trasmessomi in famiglia, parecchi anni prima dell’approccio con il teatro. Mi infastidisce udire dialetti scimmiottati a caso: è ledere un patrimonio meraviglioso, che i filologi esteri ci invidiano. Purtroppo, spesso i dialetti veri e propri vengono confusi coi localismi stereotipati trasmessi da certi film e spettacoli, e trovo che il danno culturale prodotto in questo senso sia enorme, perché si contribuisce a fomentare reciproci luoghi comuni sgradevoli e ingiusti.
Come si manifesta la “milanesità” nella letteratura, nel teatro, nella poesia?
Secondo me, nel ritmo, nell’arguzia, nella misura: mai gratuiti nella sfrontatezza, mai debordanti nel dolore. Parole e sonorità “ottime e abbondanti”, da assaporare una per una, come in un bel piattone di cucina tradizionale. E determinazione, sguardi fieri e teste alte, anche quando si parla di ceti umili o di eventi tragici.
Immagini di improvvisare una sua recita in un luogo di Milano all’aperto: dove si sentirebbe più ispirata?
In qualche bellissimo cortile antico, magari col profumo di piante in fiore.