Faceva fresco ed era piacevole viaggiare scoperti. L’odore della salsedine si mescolava a quello della collina, degli alberi, della campagna. Abbordammo un piccolo tornante. Improvvisamente il cielo di un profondo blu notte si aprì sulla visione della riviera con le strisce luminose delle automobili, i fari, le insegne degli alberghi non più distinguibili se non in confusi bagliori luminosi. E le città, le città dai nomi così perfettamente turistici – Bellariva, Marebello, Miramare, Rivazzurra – apparvero come una lunga inestinguibile serpentina luminosa che accarezzava il nero del mare come il bordo in strass di un vestito da sera. Poiché se da un lato tutta la vita notturna rifulgeva nel pieno del fervore estivo, dall’altro esistevano solo il buio, il profondo, lo sconosciuto; e quella strada che per chilometri e chilometri lambiva l’Adriatico offrendo festa, felicità e divertimento, quella strada per cui avevo da ore in testa una sola frase per poterla descrivere e cioè ‘sotto l’occhio dei riflettori’, ecco, quella stessa scia di piacere segnava il confine fra la vita e il sogno di essa, la frontiera tra l’illusione luccicante del divertimento e il peso opaco della realtà.
(Pier Vittorio Tondelli, Rimini 1985)
Nel celebre Rimini di Pier Vittorio Tondelli, pubblicato nel 1985, la riviera romagnola viene identificata come un corpo seducente e marcatamente postmoderno; negli svariati chilometri del litorale italiano, tutto, è stato descritto dall’autore come un immenso parco divertimenti - i gesti, gli oggetti, il linguaggio, il comportamento, più generalmente l’attitudine di questo non-luogo consente ai turisti e alle persone di passaggio di staccare dall’ordinario - dal quotidiano - per entrare in pompa magna - in una dimensione dicotomica sospesa tra l’atmosfera sognante che ci ha regalato il cinema di Federico Fellini e quella più smaccatamente kitsch - opulenta, esuberante e colma di eccessi - come un grande bicchiere da cocktail trasbordante. La trasgressione della riviera consente, quindi, una costante dualità: diurno/notturno; estivo/invernale, ordinario/straordinario, poetico/grottesco, reale/surreale.
Il lavoro dell’artista Alessandra Brown riflette proprio su come il fenomeno di questo tipo di turismo di massa abbia cambiato e cambi ogni anno il volto degli oggetti che costellano questo panorama italiano. L’artista, nativa romagnola, ci fornisce una lettura semiotica sui protagonisti di questi scenari, passando frequentemente dal significato al significante - dal contenuto al contenitore - per poi ridarne altri possibili suggestioni e letture.
La Brown utilizza uno degli strumenti più interessanti utilizzati nella pratica artistica contemporanea, e cioè l’archivio. Il bisogno di dare ordine, di catalogare, collezionare, raccogliere è più che mai un’urgenza in questo caotico presente; e l’artista in questo caso sceglie di rivolgere il proprio sguardo e la propria attenzione ad alberghi, stabilimenti balneari, parchi tematici e gli oggetti ambigui che ne derivano: fontane spente, scheletri di ombrelloni, piante incappucciate da teli di plastica, insegne spezzate, passerelle impraticabili, boe che galleggiano sulla sabbia - tutti elementi di una scenografia di fenomenologia dell’abbandono (tanto per citare Tondelli) - quell’abbandono avvolto nella nebbia che la riviera subisce successivamente alle belle, solari, affollate e sudate stagioni.
Nella serie fotografica De-Generazioni (2018), la Brown lavora su due tipologie parallele di archivio - l’artista isola elementi, prima da un archivio di foto di famiglia, poi dal catalogo visivo proprio della riviera romagnola - con oggetti che passano da un’attitudine pop a sfumature più poetiche, che ricordano le eleganze dei fantasmi di Luigi Ghirri. Prendono così vita, anziché collages, autentici “montages”, come definisce la stessa artista - suggerendo l’esistenza di una dimensione aggiuntiva e cioè quella temporale - che può essere piegata, trasformata e condensata. Nella stessa immagine, priva di sfondo - possono coesistere soggetti metafisici fluttuanti in un nebbioso vuoto- surreali come, ad esempio, corpi di donna in costume con teste incappucciate alla stregua di statue - zie o nonne, che anche qui, al posto del volto vengono sovrastate da palme insacchettate - e ancora, una signora china su un oggetto misterioso sostituito da tronchi ricoperti da delimitazioni urbane.
La maggior parte degli oggetti ripresi e isolati sono spesso caratterizzati da una copertura, da un velo metaforico di Maya che ne celebra l’ambiguità coprendone la forma e la visibilità - operazione che riporta inevitabilmente ai celebri “impacchettamenti” di Christo e Jeanne Claude.
Per essere visto, l’oggetto nella sua banalità, ha quasi l’urgenza di essere isolato, coperto, evidenziato, differenziato, traslato.
Tempo della memoria (con le foto di famiglia) e tempo di osservazione (con le fotografie dei paesaggi e delle cose) si congiungono e convertono per darci una narrazione plurima, allo stesso tempo avulsa dal tempo, ma ricca di diversi spazi temporali. La Brown condensa l’immagine attraverso una composizione formale elegante, ben calibrata, nulla eccede, il kitsch viene soavemente assolto per scivolare in uno spazio raffinato, elegante, dove i contorni delle figure umane sembrano opachi, avvolti nella nebbia di un bianco e nero, mentre quelli degli oggetti sono marcatamente definiti, colorati.
Memoria e realtà si rendono scenografia a due quinte nella personale visione teatrale della Brown - un teatro fatto di pochi elementi, sempre ben selezionati.
Tant’è, che non a caso, i materiali che l’artista predilige sono la carta velina (materiale plastico che riconduce agli impachettamenti) e il vetro sabbiato - il gioco di trasparenze, ambiguità, dissolvenze e piani differenti - ritorna frequente con la volontà di far congiungere elementi distanti nell’impossibilità di un reale incontro.
Le immagini non si “toccano mai”, vige sempre un sussurro, uno spiraglio, uno spazio di intimità, il quale non è possibile oltrepassare.
Ed ecco che prende corpo il tema dell’interstizio e dell’infrasottile che ben spiegò Marcel Duchamp e che l’artista ha citato nella sua tesi:
Quando
il fumo del tabacco odora
anche della bocca che lo emette,
i due odori
si sposano nell’infrasottile”.
I soggetti umani fotografici in bianco e nero (quelli dell’archivio familiare), assumono tal volta pose statuarie - perlopiù classiche - ed ecco che riferimenti dalla cultura “alta/classica” e “bassa/popolare” si incontrano alla perfezione in Ashtray-Venus, 2018 una statua in gesso, un oggetto turistico che l’artista ha prelevato da uno stabilimento balneare - la Venere portacenere viene sottratta alla sua funzione originaria per essere riportata a un immaginario simbolico primario, colmo di aura - l’artista procede poi a un’ulteriore operazione, oltre a quella di recupero, quella di copertura con un telo trasparente, anche qui, affinché la Venere-Oggetto possa, nella sua ambiguità, riacquistare plurimi significati.
Nel libro fotografico Assopimenti e Attese (2017), l’artista resta coerente alla sua ricerca e sviluppa anche qui la volontà di archiviare i luoghi della sua terra - i luoghi di una riviera intima - inedita - abbandonata - timida e a tratti dimenticata - postuma dagli eccessi dell’estate - una Romagna che si spoglia - e che la Brown spoglia a sua volta dagli oggetti; ed essi stessi - isolati e ricontestualizzati - ci forniscono una nuova luce, una nuova visione, una nuova identità.
Nella nebbia ritorna sempre l’immagine di una statua, una Venere, in attesa di differenti sguardi in grado di proiettarla su molteplici orizzonti. O forse siamo semplicemente noi che inconsapevolmente aspettiamo lei. Una metafora di ricerca costante.
Alessandra Brown (1992-) vive e lavora tra Bologna e Rimini; è laureata in Storia all’Università di Bologna, ha conseguito successivamente un Master in Storia e Filosofia dell’Arte all’University of Kent a Canterbury e la Laurea magistrale in Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Bologna. La sua ricerca, prettamente e trasversalmente fotografica, si focalizza sull’indagine della memoria degli effetti del tempo sulle cose. Di matrice semiotica, nei suoi lavori si concentra sul passaggio del significato al significante, come in un ciclo vitale, l’oggetto viene isolato, ricontestualizzato e inserito in un nuovo e plurimo orizzonte di sensi. È fondatrice e coordinatrice di “Sottosuolo” a Bologna - uno spazio indipendente dedicato alla ricerca e all’arte contemporanea.