Da tempo avevo sentito parlare della Tullia e della sua trattoria. L’aveva scovata per caso il mio amico Francesco durante i suoi vagabondaggi e ne era rimasto così colpito da volerla tenere per sé, rifiutandosi di dirmi dov’era.
Ciò aveva chiaramente alimentato la mia curiosità anche perché lui non aveva mai perso occasione per stuzzicarmi, creando una vera e propria leggenda attorno a quel nome e a quel luogo.
Dalla Tullia ci sono poi arrivato da solo, per caso.
Un giorno transitavo in auto nella periferia est di Milano e mi sono imbattuto in un cartello con una scritta inequivocabile: “DA TULLIA”.
Quasi non ci credevo! Mi sono preso così anche il gusto di chiamare il mio amico invitandolo a pranzo. Una soddisfazione non da poco!
“Dai che mangiamo qualcosa dalla Tullia, io sono già qui”, gli avevo detto con indifferenza e lui aveva incassato in silenzio accettando l’invito con un filo di voce. Mentre lo aspettavo cercavo di metabolizzare il fatto che fosse tutto vero. Perché era tutto vero: la casa dimessa e smarrita nella periferia, la strada sterrata brutalizzata da uno svincolo autostradale, da capannoni industriali e da cantieri di anonime case a schiera.
Là in mezzo, un tempo aperta campagna, sopravviveva la trattoria così tante volte descritta dal mio amico.
Entrammo: due locali ampi e austeri, una visione di figure maschili curve sui tavoli a gomiti larghi, un vociare rimbombante mescolato al tintinnare scomposto di posate su piatti di ceramica pesante, l’aria satura di cucina e umanità.
Eccola lì, la Tullia, nel suo regno.
Sì, quella donna anziana tutta vestita di nero, magra, con il viso scavato e cereo e i capelli argentei raccolti sulla nuca in una cipolla, era la mitica Tullia.
Si muoveva con indiscussa autorità tra i tavoli, portava le pietanze, decideva chi e dove si poteva sedere, annotava frettolosamente qualcosa sopra a un blocchetto che teneva stretto tra mani pallide e venose e poi scompariva in cucina.
La Tullia non prendeva le ordinazioni, no, era lei a ordinare quello che le persone avrebbero mangiato. Era questa la peculiarità del locale.
I piatti erano sempre gli stessi, riso giallo al salto, spaghetti al pomodoro, pollo arrosto con patate e insalata mista. Niente dolci. Si passava direttamente al caffè - se richiesto - o alle grappe che lei personalmente spillava da grossi bottiglioni senza etichetta.
Nessuno si lamentava o aveva da obiettare a proposito di quel brusco trattamento anzi, sembrava che esistesse un tacito accordo tra le parti, che gli uomini presenti in fondo gradissero quell’atmosfera da collegio che li faceva in qualche modo tornare bambini. Vedendola impegnata a tenere a bada un gruppo di operai seduti al tavolo accanto al nostro, con la scusa di cercare un bagno, decisi di andare a curiosare in fondo alla sala, scoprendo una stanza ancora più grande e altri tavoli quasi tutti occupati da uomini, pronti a farsi maltrattare.
Alla mia destra una grande porta-finestra dava su di un giardino con un glicine secolare che si sviluppava a cascata sopra a un campo di bocce in disuso.
In giro non c’era traccia di altro personale: la Tullia, come mi aveva raccontato Francesco, aveva sempre fatto tutto da sola, almeno per ciò che riguardava il servizio ai tavoli, perché in cucina sembrava che lavorasse la madre ultracentenaria.
Volli accertarmene di persona gettando lo sguardo oltre l’oblò fissato a due porte fluttuanti e riuscii a vederla, la madre, minuta e curva che si muoveva tra pentoloni fumanti più grandi di lei. Stava tagliando del prezzemolo con la mezzaluna, china sopra a un asse che avrebbe potuto avere la sua età con al centro uno scavo liscio, largo almeno quattro dita. Assorto nei miei pensieri non mi ero accorto che la Tullia stava arrivando alle mie spalle facendosi spazio tra i tavoli e tenendo in precario equilibrio una pila di piatti sporchi. Entrata in cucina, dopo avermi fulminato con uno sguardo, aveva afferrato un vassoio con dei bicchieri ed era tornata fuori senza dire una parola.
Ricomparsa in sala avevo sentito distintamente un calo improvviso del rumore, il vociare incontrollato aveva lasciato spazio a un brusio sommesso.
Io nel frattempo ero riuscito a raggiungere il nostro tavolo e avevo confidato subito al mio amico la mia preoccupazione in vista dell’arrivo del nostro turno.
Francesco aveva riso di gusto percependo la mia agitazione e aveva ripreso a raccontarmi la storia di quella trattoria.
Esisteva da tempo immemorabile, era stata la madre da giovane insieme al marito a cominciare e poi, rimasta vedova, era stata costretta a educare precocemente la figlia alla pratica dei fornelli: una storia di donne insomma.
Gli uomini non avevano mai avuto vita facile con le donne di quella famiglia. Sembra che la Tullia, solo lei, di mariti ne avesse seppelliti tre.
E che parecchi aspiranti camerieri, dopo brevi periodi di prova, fossero scappati.
Le storie intorno a questa donna si sprecavano.
I maligni l’avevano sempre dipinta come multimilionaria, avara, impegnata negli unici dieci giorni di chiusura estiva a contare le banconote incassate durante l’anno e tenute nascoste sotto il materasso.
Ma non c'era più tempo per ulteriori congetture ormai lei stava arrivando. Dopo averci fissati da lontano con i suoi occhi di ghiaccio ci aveva raggiunti trascinando le ciabatte indossate con il calzerotto basso a mezzo polpaccio. Portava un vassoio con due piatti di spaghetti fumanti e ancora prima di lasciarci pronunciare una parola ce li aveva piazzati sul tavolo.
Io ero insorto dicendo “No!” con forza, non avevo ordinato spaghetti e volevo del riso o al limite il pollo!
Per qualche interminabile secondo in sala ci fu silenzio. Notai gli sguardi increduli, alcuni spiavano la scena da lontano, molti non osarono neppure alzare la testa. La Tullia mi guardò sprezzante, accennò un sorrisetto beffardo e poi facendosi seria disse: “Riso non ce n'è e per il pollo c'è da aspettare più di un’ora. Se non volete i miei spaghetti quella è la porta, andate a mangiare da un’altra parte!”.
Oggi la Tullia non c’è più. Già da qualche anno tutto quel mondo è scomparso, hanno costruito uno svincolo della tangenziale ancora più grande con sopraelevata su piloni di cemento armato proprio lì dove si trovava la casa con la trattoria.
Ci sono passato con Francesco l’altro giorno: nessuna traccia dello stabile, del glicine secolare, del campo di bocce. Nessun eco delle urlate della Tullia, nulla.
Tutto finito.
Francesco ha accelerato e siamo passati oltre, in silenzio.