Non toccarmi, non trattenermi, rinuncia a qualunque contatto, non pensare a una qualche familiarità o sicurezza. Non credere che ci sia alcuna assicurazione, come quella che vorrà Tommaso. Non credere, in nessun modo. Ma resta salda in questa non-credenza. Restale fedele. Resta fedele alla mia partenza.
(Jean-Luc Nancy, Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo)
“Noli me tangere” è la frase che, secondo il Vangelo di Giovanni, il Cristo rivolge a Maria di Magdala quando, recatasi al sepolcro di Gesù morto, lo trova scoperchiato e vuoto. Il Cristo risorto la chiama per nome e Maria, riconoscendo la sua voce, capisce che l’uomo che le parla - e da lei scambiato per il custode del giardino - è in verità il Maestro da lei tanto amato. Il possibile gesto di Maria Maddalena verso di lui viene fermato dalle parole che Gesù le rivolge: “Noli me tangere”, traducibile dal latino con “non voler toccarmi”, seguito dall’esortazione di andare e di lasciarlo a sua volta andar via, per dire agli altri ciò che ha visto e sentito.
Questo avvertimento è come se sospendesse la realizzazione del gesto del toccare, negandone anche il solo pensare, desiderare, volere che potrebbe affacciarsi nella mente di colei che lo ha riconosciuto. Questa frase sancisce una distanza pur nella vicinanza dei due corpi, sottolineando così la loro appartenenza a due sfere diverse ma contemporanee: il sacro e il profano, la morte e la vita.
Molti pittori hanno rappresentato questa scena del Vangelo come uno sfiorarsi delle dita, quasi un tocco che tuttavia non si compie, un avvicinarsi e un ritrarsi quasi pudico. Non c’è offesa o separazione, quanto piuttosto l’evidenza di uno spazio tra i due corpi: lo spazio tra le punte delle dita delle mani diventa il centro magnetico della scena, là dove qualcosa non si compie pienamente, non trovando così la propria realizzazione.
Il testo greco, dal quale è stata fatta la trasposizione in latino, suona come “Mê mou haptou”, traducibile con “non toccarmi” – perdendo l’appoggio della negazione del verbo volere – ma anche con “non mi trattenere”, “non mi fermare”.
E questo è il punto: è necessario riconoscere la distanza come elemento fondante ed essenziale per realizzare il toccare il corpo dell’altro, rendendo questa distanza lo spazio liminale dove termina l’uno e inizia l’altro, dove non sono più io e non sei ancora tu. Uno spazio sacro dove il toccare è sfiorare, accarezzare lievemente, senza prendere alcunché.
L’afferrare l’altro trasforma invece il gesto del toccare in una presa, bloccandone i movimenti e fermandolo. Da persona, l’altro si trasforma in oggetto di cui appropriarsi. Con la presa, io rimango io, tu sei sempre tu: immodificabili, diveniamo la negazione di noi stessi nell’eccesso del sé che si conferma nel possesso.
La scena rappresentata dal Vangelo è ciò che, ritualmente, i cattolici ricordano nel giorno di Pasqua: è una festa sacra, ancor più di quanto possa esserlo il Natale. Si celebra la resurrezione del corpo, il suo sorgere dinnanzi alla morte e alla sofferenza inflittagli, dando speranza e conforto a ogni credente che questo possa accadere anche a lui, dopo la propria morte.
Laicamente, per tutti noi, la Pasqua può essere considerata la celebrazione della sacralità del contatto con il corpo dell’altro: non toccare per offendere, non toccare per violentare, non toccare per possedere. Non toccare le donne, non toccare i bambini, non toccare gli anziani, non toccare i malati, non toccare i migranti, non toccare gli animali, non toccare gli alberi, non toccare la Terra con l’intento di possedere, fermare, afferrare.
Ma un toccare e un ritrarsi per rispettare l’altro, per lasciarlo andare, affinché possa rialzarsi dinnanzi alla sofferenza, alla morte, alla separazione necessaria.
Basta esserci, essere presenti con tutto il nostro corpo, per testimoniare ad altri l’esistenza dell’altro, della sua straordinaria singolarità.
Il messaggio contenuto in “Noli me tangere” non riguarda solo la cristianità, ma tutti noi come esseri umani; nella sua laicità, parla di amore e di separazione, di inizio e di fine, di partenza e di arrivo, di vita e di morte e del loro sfiorarsi senza afferrarsi, senza che l’uno possa mai possedere o governare l’altro. Ci dice di ‘lasciare spazio’ affinché i miracoli possano avvenire. Perché quando l’inizio e la fine si toccano appena, quando la morte e la vita si sfiorano, quando l’amarsi e il separarsi si accarezzano, allora avvengono i miracoli. Nei momenti in cui non è più notte e non è ancora giorno, si rivela l’appartenenza reciproca senza tuttavia confondersi né mescolarsi.