Il 28 marzo 2019 il Parlamento italiano ha definitivamente approvato la proposta di legge volta a modificare la disciplina della legittima difesa. Va precisato che, ad oggi, 15 aprile, a diciotto giorni di distanza dalla sua approvazione, la legge non è stata ancora promulgata dal Presidente della Repubblica, di conseguenza non è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Dunque non è ancora in vigore. Una singolarità che denuncia probabilmente la particolare attenzione riservata dal Capo dello Stato a una legge che presenta innegabili profili di incostituzionalità, oltre che riflessi su diritti fondamentali dell’uomo, quali il diritto alla vita e la sua doverosa tutela nei confronti di tutti i cittadini, criminali compresi.
Per comodità di esposizione si userà comunque il termine legge, nonostante che il suo iter non si sia ancora perfezionato e al momento non può ricevere applicazione alcuna. Trae il suo fondamento dal contratto stipulato con scrittura privata con firma autenticata, redatta dai dirigenti di due formazioni politiche (associazioni di diritto privato a tutti gli effetti) oggi al governo, che, di fatto, vincola l’operato non solo delle formazioni politiche che lo hanno prodotto (e sin qui nulla di illegittimo), ma anche di organi costituzionali, e delle loro funzioni; il Parlamento, titolare della potestà legislativa (art. 70 Cost.) e il Capo del Governo, al quale la Costituzione affida la direzione politica generale del Governo e della quale è responsabile (art. 95 Cost.). Per effetto del contratto le prerogative del Parlamento e del Capo del Governo risultano attenuate, formali, riducendosi alla mera esecuzione dei contenuti fissati in sede contrattuale, ritenuti vincolanti e prioritari.
A pag. 22 del contratto, sotto il titolo Area penale, procedura penale e difesa sempre legittima (sic!), si legge: “In considerazione del principio dell’inviolabilità della proprietà privata, si prevede la riforma ed estensione della legittima difesa domiciliare, eliminando gli elementi di incertezza interpretativa (con riferimento in particolare alla valutazione della proporzionalità tra difesa e offesa) che pregiudicano la piena tutela della persona che ha subito un’intrusione nella propria abitazione e nel proprio luogo di lavoro”.
Colpisce il richiamo alla inviolabilità della proprietà privata, già sanzionata autonomamente con il reato di violazione di domicilio e da quello di furto in abitazione, sui quali la nuova norma interviene solo per aumentare i minimi e i massimi delle pene previste, considerata offesa sufficiente per giustificare a priori e senza eccezione alcuna il ricorso alla legittima difesa, anche armata. In secondo luogo non si comprende quali fossero “gli elementi di incertezza interpretativa” se non nella necessariamente diversa valutazione dei fatti sottoposti all’esame del giudice, in relazione alla specificità di ciascuna fattispecie di legittima difesa esercitata con uso di armi con conseguente morte o ferimento dell’autore dell’intrusione.
Gli articoli del codice penale interessati dalla riforma sono il 52 e il 55 del codice penale. A rischio di appesantire la lettura ne riportiamo il testo, quale oggi vigente, e quale quello “riformato”, (le innovazioni sono quelle inserite tra parentesi, in grassetto).
Art. 52: Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che difesa sia proporzionata all’offesa.
Nei casi previsti dall'articolo 614, primo e secondo comma, sussiste (sempre) il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un'arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) la propria o la altrui incolumità;
b) i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d'aggressione.
La disposizione di cui al secondo comma si applica (Le disposizioni di cui al secondo e al quarto comma si applicano) anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all'interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un'attività commerciale, professionale o imprenditoriale.
(Nei casi di cui al secondo e al terzo comma agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l'intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, da parte di una o più persone).
È utile precisare che il secondo e terzo comma erano stati a loro volta aggiunti dall’art. 1 della legge 13 febbraio 2006, n. 59, proprio per ampliare la previsione della legittima difesa ai casi di irruzione di ladri o rapinatori in casa o negli esercizi commerciali e professionali.
Art. 55: Quando nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53 e 54, si eccedono colposamente, i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
(Nei casi di cui ai commi secondo, terzo e quarto dell'articolo 52, la punibilità è esclusa se chi ha commesso il fatto per la salvaguardia della propria o altrui incolumità ha agito nelle condizioni di cui all'articolo 61, primo comma, n. 5, ovvero in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto).
Non si farà cenno ad altri aspetti meno rilevanti della riforma, meglio cercare di comprendere il contesto nel quale essa si inserisce. Il disegno di legge di iniziativa popolare sul quale si è incardinato al Senato l’iter legislativo della legge aveva come titolo Misure urgenti per la massima tutela del domicilio e per la difesa legittima, tanto da determinare la inconsueta rapidità con la quale venne esaminato dai due rami del Parlamento (da fine ottobre 2018 a fine marzo 2019). Verrebbe da pensare che il fenomeno delle rapine in abitazioni ed esercizi commerciali sia in costante aumento e che il paese stia attraversando una fase di recrudescenza dei reati “predatori” e di generale turbamento dell’ordine pubblico.
Le statistiche ufficiali offrono un quadro del tutto opposto alla “narrazione” di governo, che, così come è avvenuto per il fenomeno degli sbarchi dei migranti, mira a conquistare il consenso popolare ed elettorale sulla base delle paure suscitate ad arte con i continui allarmi lanciati con particolare enfasi mediatica per ogni episodio criminale che avviene nel paese.
Gli omicidi sono in forte calo rispetto agli anni Novanta (da 1.916 omicidi volontari nel 1991 a 368 nel 2017). In particolare, sono in forte diminuzione gli omicidi compiuti dalla criminalità organizzata (da 342 a 55) e quelli commessi dalla criminalità comune (da 879 a 144). Sia consentita una testimonianza diretta di chi scrive: nella seconda metà degli anni ’80 ero giudice istruttore del Tribunale di Reggio Calabria. In città imperversava la guerra di mafia, durata da ottobre del 1985 alla metà del 1991. I morti ammazzati furono oltre settecento. Ricordo che in un solo anno raggiunsero il numero di duecento. La media nazionale di omicidi era all’epoca del 3 per centomila abitanti, quella della Regione Calabria del 10, quella della provincia di Reggio Calabria di poco meno del 30. Oggi la media nazionale è dello 0,3 per centomila abitanti.
Le rapine negli esercizi commerciali nell’ultimo decennio sono in consistente calo (da 8.149 nel 2007 a 4.517 nel 2017) e anche quelle nelle abitazioni sono meno di dieci anni fa (erano 2.529 nel 2007, sono state 2.301 nel 2017). Più che dimezzati gli omicidi per furti o rapine: si passa da una media annuale di oltre 80 omicidi a inizi anni Novanta a circa 30 nell’ultimo quinquennio. Nel 2017 gli omicidi per furti o rapine nelle case degli italiani sono stati 16: è il numero più basso da 30 anni ad oggi. Parlare di emergenza sarebbe fuori luogo, se non per chi è alla continua ricerca di consenso con l’uso di dati alterati e ingannevoli.
Ma non è solo la strumentalità della riforma che deve preoccupare, assai più lo sono le ragioni effettive che l’hanno determinata e gli effetti che ne potrebbero conseguire. Sotto il primo profilo, si evidenzia il paradosso di un governo che si autodefinisce sovranista e preoccupato per la sicurezza dei cittadini, ma rinuncia al monopolio della violenza riservato alle forze dell’ordine e alle forze armate, che deve caratterizzare ogni stato di diritto, e affida la difesa della vita e della proprietà ai singoli cittadini, autorizzandoli e anzi incoraggiandoli a dotarsi di armi da fuoco per provvedervi singolarmente.
Il rapporto con i fabbricanti di armi, siglato con un patto d’onore “con i detentori legali di armi” da Salvini a febbraio dello scorso anno a Hit Show, la Fiera delle Armi di Vicenza, è segno evidente di come la lobby delle armi (Comitato Direttiva 477, dal 2019 Unarmi) si attenda, da questa riforma, un consistente aumento della richiesta di armi (e non solo di armi da fuoco corte, ma anche di fucili a pompa, e pericolosi fucili semiautomatici tipo Ak-47 e Ar15, d’ora in poi possibile grazie al decreto legislativo n. 104 del 10 agosto 2018, e in vigore dallo scorso 14 settembre, con il quale l’Italia ha recepito la direttiva europea 853/2017 relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, la prima nazione a farlo, e nella maniera più estesa possibile.). La corsa alle armi viene confermata dall’aumento del 41,63% delle licenze di porto d’armi a uso sportivo nel triennio 2014/2017.
Come l’esperienza degli Stati Uniti insegna, l’aumento del numero delle armi detenute da singoli cittadini (la nuova legge consente di detenere sino a dodici armi da fuoco in casa), piuttosto che assicurare sicurezza, genera insicurezza, sia tra le mura domestiche, viste le percentuali di omicidi in famiglia, sia all’esterno. Ed è singolare che, così come abbiamo segnalato con l’articolo sul decreto sicurezza, anche questa legge sia destinata a produrre l’effetto contrario, quello di creare insicurezza. Un classico caso di eterogenesi dei fini. Si dice di volere un risultato (maggiore sicurezza) e si ottiene l’opposto, così come per le misure economiche inserite nella legge di bilancio; si voleva sviluppo, si è ottenuta recessione.
Nel primo rapporto sulla filiera della Sicurezza in Italia, presentato il 27 giugno 2018 e redatto dal CENSIS e FederSicurezza, si legge a pag. 27: “Se immaginassimo di avere le stesse regole e la stessa facilità degli statunitensi di entrare in possesso di un’arma, in Italia le famiglie con armi in casa potrebbero lievitare fino a 10,9 milioni e i cittadini complessivamente esposti al rischio di uccidere o di rimanere vittima di un omicidio sarebbero 25 milioni. Con il cambio delle regole e un allentamento delle prescrizioni, ci dovremmo abituare ad avere tassi di omicidi volontari con l’utilizzo di armi da fuoco più alti e simili a quelli che si verificano oltre Oceano. Le vittime da arma da fuoco potrebbero salire fino a 2.700 ogni anno, contro le 150 attuali, per un totale di 2.550 morti in più”.
La ricerca evidenzia inoltre come il maggior numero di armi da fuoco in circolazione faccia lievitare il numero di omicidi, come testimonia il fatto che in America nel 2016 sono avvenuti 14.415 omicidi volontari con arma da fuoco, pari a 4,5 ogni 100.000 abitanti, contro i 150 avvenuti in Italia, dove le leggi erano più restrittive, pari a 0,2 per 100.000 residenti.
Dopo le precedenti considerazioni relative alla politica della sicurezza, si può passare a quelle di tipo giuridico e costituzionale. Un primo rilievo è rappresentato dalla sottrazione alla giurisdizione di quello che è la sua principale prerogativa e funzione costituzionale, quello di accertare, caso per caso, se una determinata vicenda umana integra una fattispecie di reato, se l’autore è stato individuato con certezza al di là di ogni ragionevole dubbio, se sussistano circostanze attenuanti o aggravanti, circostanze esimenti della punibilità. Per restare in argomento, nel caso della legittima difesa, il compito del giudice era quello di valutare la proporzionalità della difesa rispetto all’offesa e non si tratta di una questione di poco conto. Sono in gioco valori costituzionali di primissimo rilievo, quali il diritto alla vita, propria e dei propri cari, all’inviolabilità del domicilio, alla tutela dei beni. Valori che non sono di pari livello essendo quello della vita preminente su tutti gli altri. Quando il legislatore si fa giudice del caso concreto invade il principio della separazione dei poteri, fa a meno della terzietà del giudice, inquina il confine tra la potestà legislativa che emana leggi generali e astratte e potere giurisdizionale che interpreta e applica le leggi al singolo caso concreto. Cumulare le funzioni di potere legislativo, esecutivo e giudiziario rientra forse nelle aspirazioni dei governi sovranisti (e Salvini lo fa, sia pure a parole, molto spesso), ma il diritto penale finisce con l’assumere in tal modo una inammissibile funzione politica, arbitraria e incontrollata.
Vi sono due espressioni lessicali che rendono evidente il problema: l’avverbio “sempre”, inserito al secondo e quarto comma dell’art. 52 c.p., che elimina con un colpo di scure ogni possibilità di intervento del giudice. In sostanza non si avrebbe mai un processo, ma un procedimento che dovrebbe accertare solo le condizioni di fatto in cui si è resa necessaria l’azione difensiva, e procedere quindi alla richiesta di archiviazione per l’esimente di punibilità della legittima difesa. Una vera e propria depenalizzazione, che potrebbe comprendere persino casi di omicidio volontario. Il rapporto di proporzionalità non ha bisogno di essere accertato, esiste “sempre”. A prescindere. Anche quando il rapinatore, vista l’arma in mano all’abitante della casa, fugge ma viene colpito alle spalle? Anche quando chi spara al torace poteva colpire alle gambe? Anche quando poteva rinchiudersi in una stanza con porta blindata e aspettare l’arrivo delle forze dell’ordine? O anche quando il gioielliere che uccide il rapinatore, aveva stipulato un’assicurazione contro furti e rapine, che avrebbe coperto per intero il danno patrimoniale subito?
Sono interrogativi che sinora sono stati risolti dai giudici penali, valutando le circostanze caso per caso, che non possono essere accorpate indistintamente dal legislatore. Nel quarto comma, poi, si va oltre la violazione di domicilio; la presunzione della proporzionalità che esiste “sempre” opera anche nei casi di “intrusione”, (non quella domiciliare già regolata nei commi 1 e 2) senza che sia chiarito quali sono i locali o gli spazi in cui essa è avvenuta. Si pensi al caso in cui l’intrusione avviene nel giardino o nel parco di una villa. Si può sparare dalla finestra agli intrusi, anche se armati?
La nuova versione dell’art. 55 presenta il problema della indeterminatezza della condizione di non punibilità, “l’avere agito in stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”. L’esistenza di un turbamento, più o meno grave, è una situazione psicologica, soggettiva, temporanea (se fosse permanente influirebbe sulla capacità di intendere e di volere), che non lascia tracce e che resta affidata al racconto dell’autore dell’azione difensiva. Essa peraltro è comune a tutti coloro che compiono un omicidio, tranne che non siano killer professionali. La mancanza di tassatività della previsione normativa, essenziale nella legge penale, la rende inapplicabile di fatto (art. 1 del codice penale). Stridente, infine, il contrasto con la norma dell’art. 90 del codice penale, secondo la quale “gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”.
Gli aspetti critici della legge non si esauriscono con quelli sinora commentati. Lo spazio è tiranno e non mancheranno le occasioni per tornare sull’argomento quando se ne vedranno i primi effetti o quando il giudice delle leggi sarà chiamato a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale di una o più delle previsioni esaminate.