Virgilio, nella sua Eneide (Libro I, versi 365-369), da notizia che Didone, ossia la mitica regina fenicia innamorata di Enea, per racchiudere la maggior parte di territorio su cui poter dar vita alla “sua” urbe, escogita a scapito di Iarba, re africano, un espediente raffinato: tagliare in sottili listarelle un manto di pelle taurina al fine di ottenere una corda più lunga possibile. La fune in discorso sarebbe diventata utile a demarcare un esteso perimetro semicircolare: si erano appena delineati i precisi confini della futura città di Cartagine.
Quanto emerge dalla narrazione virgiliana è, forte, il riferimento a quei primordiali riti di fondazione, sacri e sacralizzanti, che governavano la costituzione delle varie città approntate dalla poderosa civiltà di Roma Antica. Più precisamente a officiare il rito del tracciamento del sulcus primigenius (Varrone, De lingua latina, 5.143) troviamo un sacerdote, l’augure, ammantato da un velo che gli ricopre il capo trattenuto in vita dal cinctus gabinus: l’abbigliamento era in uso presso Gabi, primigenia colonia latina degli Albani tra Roma e Preneste abitata ininterrottamente dal X sec. a.C. al II-III sec. d.C., dove Romolo e Remo furono educati, specifico appunto dei riti capite velato di importanza sacrale. L’augure, dunque, mediante la lama di un aratro trainato da un toro e una giovenca traccia un solco circolare.
Il perimetro circolare ottenuto ha la precisa funzione di separare lo spazio sacro della fondazione che diventa ager romanus da quello non sacralizzato, profano (pro-fanum, ossia davanti al tempio, per estensione fuori dal luogo sacro) che si trova inevitabilmente all’esterno di esso ovvero l’ager peregrinus.
Da sempre, dunque, l’importante attività dell’agrimensura con i pertinenti rilievi geodetici degli spazi è legata a un’attività antropica particolarmente evocativa: la fondazione di un sito urbano. L’operazione, sacra, era legittimata da un potente e significativo atto sacralizzante volto a marcare indelebilmente nel tempo l’acquisizione, l’agnizione, di un nuovo spazio, di un nuovo territorio, ancorandolo a processi giuridici e amministrativi inequivocabili. Si tratta della struttura portante stessa che informa la polis romana.
Dall’azione di misurare uno spazio a quello di trascriverlo attraverso un grafismo su di un supporto di pelle o di tessuto, ovvero la mappa, il passo è immediato se non addirittura scontato. Meno scontata è la traduzione letterale del termine “mappa”, che in latino significa “tessuto”, ma anche “pellame”. Dunque, tessuto e mappa nell’antichità erano sinonimi, come lo era anche per la parola mappa mundi: con questa si intendeva il tessuto, la pelle, il manto, il rivestimento del Mondo.
Delimitazioni di confini, riti sacri e giuridici, realizzazioni di mappe catastali e mappae mundi: tutto era ordinato attraverso la narrazione ideologica dominante nell’orizzonte storico analizzato. Il fatto interessante è che il più delle volte in tutte queste azioni sacro-ordinatrici troviamo la presenza dell’elemento tissutale simbolico ma a volte anche pratico; un esempio è ammantatio di un Imperatore o di un Papa, del “mantello”. Il mantello è speciale. È indumento sovraccarico di significati sacri e per questo, dunque, metafisico. È lo strumento, il dispositivo mediatore tra divino e realtà terrena.
Secondo gli scriventi è proprio osservando documenti come le mappae mundi che si possono cogliere questi aspetti così difficili da intuire e recepire per noi figli del nostro tempo. Segnali a volte sorprendenti perché proprio celati da una patina, una stratificazione culturale accumulatasi nei secoli difficile ancor più oggi da asportare. L’idea di spolverarla ci è venuta quando nel 2003 si è presentata l’occasione di riflettere sui particolari e affascinanti contorni di una mappa mundi, che si ricorda significa tessuto, manto del mondo, tra le più significative della nostra storia occidentale. Quelli che delimitano e contengono i dati geografici della Universalis Cosmographia realizzata e pubblicata la Domenica 25 Aprile del 1507 a San Deodato in Lotharingia dal canonico tedesco Martin Waldseemuller, su cui compare per la prima volta in assoluto, sulla quarta parte di terra, scoperta nei suoi quattro viaggi dal fiorentino Americo Vespucci1, il geonimo “AMERICA.”
Quanto emerge inaspettatamente dalle nostre analisi ormai dimostrate ampiamente, è che i profili della grande mappa mundi del 1507 in discorso, seguono quelli del mantello indossato dalla Madonna dal capo velato, dipinta da Domenico Ghirlandaio, che protegge la famiglia dei Vespucci disposta in circolo ai suoi piedi. Quanti rimandi si affastellano in questo accostamento proposto per la prima volta dagli scriventi, e da qualche anno introdotto come materia di studio nelle università anglosassoni2. Limiti cartografici di una mappa che attraverso i contorni del mantello sacralizzano il mondo intero, ma soprattutto sacralizzano la scoperta di un nuovo quarto continente, giustificato dalla narrazione giuridica e religiosa del Vecchio Mondo impostato su canoni giudaico–cristiani. Un manto, un velo come quello indossato dagli antichi sacerdoti romani che celebrando un antico rito tracciavano il limen di nuovi spazi geografici.
Ad oggi, ad ampliamento e conferma di queste nostre ricerche, ci sono i notevoli studi di Franco Farinelli3, che rilevano come la simbologia religiosa e l’estetica delle mappae mundi medievali, sottolineata dalla figura circolare della perfezione divina, era un messaggio simbolico ben chiaro a tutti in quei lontani periodi storici. Era informazione tanto chiara, che la localizzazione del Paradiso Terrestre all’interno di esse ne caratterizzava la natura escatologica più pregnante. Ad un certo punto però l’immagine di questo paradisiaco luogo metafisico smette di apparire sulle mappe per finire, come su quella del camaldolese Fra Mauro, nella cornice circolare della mappa stessa.
Ora, da quel momento in poi sempre più di rado la rappresentazione del Paradiso Terrestre si viene a trovare rappresentato sulle terre delle mappe medievali, quasi fosse stato fagocitato da una dimensione cosmografica altra. Sì, ma quale, e soprattutto dove era la nuova collocazione?
L’indizio che cercavamo per capire dove fosse stato collocato il “concetto” di Paradiso Terrestre all’interno delle più aggiornate mappae mundi del XV secolo ci giunge proprio dalla rappresentazione cosmografica apparsa nel 1507. Pur se in questa mappa mundi l’immagine del Paradiso Terrestre non è esplicitata, anzi sembrerebbe proprio cancellata, l’autore con uno straordinario colpo di genio, che a ben vedere è tanto profondamente meditato quanto metaforicamente evoluto e, quindi, non più legato a un immagine vera e propria, riesuma in filigrana il concetto di Paradiso Terrestre proprio grazie all’elemento sacro e sacralizzante del manto, “quel” manto indossato dalla Vergine, che proprio per le sue sacre caratteristiche genitrici da sempre è stata intesa quale Eden in Terra.
1 Cfr. Patrizia Licini, Ed. Pancallo, 2011
2 Cfr. Veronica della Dora, Ed. Ashgate, 2015
3 Cfr. Franco Farinelli, Luoghi dell’infinito, febbraio 2019