Ci troviamo a Fiano Romano nel 1528 e Bellezza Orsini è accusata pubblicamente di maleficio, stregoneria e avvelenamento. Nonostante la seducente suggestione del suo nome, Bellezza è una donna di sessant’anni, provata da un’esistenza di duro lavoro: rimasta vedova ancora giovanissima e con due bambini piccoli, priva della protezione di altri parenti, da sempre lotta per sopravvivere alla miseria. La sua è una storia simile a quella di molte altre, come lei condannate all’isolamento sociale perché sole, non soggette alla potestà di un uomo, autonome e per questo fragili.
Il giudice, Marco Calisto da Todi, avvia l’istruttoria raccogliendo testimonianze e accuse di alcuni compaesani di Bellezza, i quali concordano nel definirla “mala femina” e “strea”, guardata con sospetto all’interno della comunità in quanto sa “guastare” e “acconciare”. La donna è immediatamente arrestata: sotto interrogatorio, stimolata a descrivere la sua attività, dichiara di operare come curatrice, ma nega con grande decisione l’imputazione di stregoneria.
Sempre ho facto bene, non feci mai male. Curo e medico ogni male, ogni firmità; so guarire doglia francese, ossa rotte, chi fosse adombrato da qualche ombra cattiva e multe altre infirmità. O dio, quanto bene ho facto io, quanto ne ho guariti con certo olio che io ho: olio fiorito!
Bellezza guarisce facendo il segno della croce e riconosce le malattie a un semplice sguardo; inoltre, è in grado di togliere il malocchio recitando formule e preghiere. Il gesto sapiente e la parola, insieme alle erbe medicinali, sono i farmaci di cui dispone. Svela poi di possedere un misterioso ricettario, e sostiene di attingere da esso ogni conoscenza, ricavandone la sua farmacopea.
Io ho un libro di 180 carte, dove stanno tucti li secreti del mondo, boni et captivi: con quello ho imparato e insegnato ad altri, ed imprestatolo a grandi maistri e signori.
L’esistenza di questo volume aggiunge un fascino insolito alla figura di Bellezza, che si rivela alfabetizzata e risulta addirittura depositaria di “secreti” che le vengano richiesti da personaggi dotti e autorevoli. La fermezza nel respingere l’accusa di stregoneria è, invece, accompagnata da vivissime proteste: in realtà, Bellezza prova un cieco terrore all’idea di essere sottoposta al supplizio della corda, che intuisce profilarsi nelle intenzioni del suo aguzzino. Eppure, nel corso delle udienze che si susseguono, di fronte alle domande incalzanti del giudice la donna finisce sempre più spesso per cadere in contraddizione, dilungandosi nell’enumerare pratiche di natura superstiziosa, descrivendo gli incantesimi di magia erotica, le pozioni e le modalità con cui altera cibi, provoca malori o causa sventure e malattie. Il giudice, che vuole ricavare maggiore soddisfazione dall’interrogatorio, la conduce nella stanza delle torture, ma Bellezza si agita moltissimo, tanto sopraffatta alla vista degli strumenti che, una volta riportata in cella, tenta il suicidio.
A questo punto il processo prende una piega del tutto inaspettata, perché l’imputata è ormai preda di un terrore che la rende fragile e incoerente. Piegata nelle energie e nella volontà, finisce per abbandonarsi a una lunga confessione, durante la quale ripercorre la propria biografia fin dagli anni in cui, ancora molto giovane ma già vedova e madre, per sfuggire alla miseria prese servizio presso i conti Orsini nella tenuta di Monterotondo, per lavorare nelle cucine.
Tra le varie mansioni, le viene affidata quella di occuparsi di una certa Lucia di Ponzano, detenuta nelle prigioni del castello con l’accusa di essere strega: le due donne entrano in confidenza e la prigioniera si impegna a trasmettere alla custode le sue conoscenze, soprattutto quelle relative ai segreti per “guastare” e guarire. Da quel bagaglio di saperi acquisiti oralmente, secondo le modalità ataviche della trasmissione sapienziale femminile, prende avvio il percorso della Bellezza strega e curatrice.
Per dare sollievo alle infermità, impara a preparare l’olio fiorito, che diventa la sua personale panacea: un concentrato di tutti gli elisir vegetali di cui la natura dispone, con il quale la medichessa agisce quasi investita di un potere soprannaturale e con cui sostiene di “aver curato più persone di quanti peli abbia addosso”.
Ben presto, però, il terrore del supplizio della corda, al quale viene a più riprese sottoposta, produce un corto circuito nelle modalità del suo racconto; quasi trascinata nel paradosso di un crescente autolesionismo, forse addirittura liberatorio, Bellezza compromette sempre più gravemente la propria posizione, spingendosi verso un’indiscutibile quanto tragica confessione.
Io so e so stata strea e non lo ho voluto mai dire. So strea, cusì non fosse!
Prende dunque a descrivere con dovizia di dettagli le partecipazioni ai voli notturni, ai sabba, ai raduni diabolici, assecondando tutte le aspettative del suo tormentatore, nella speranza illusoria di essere sollevata da successive torture. I resoconti si trasformano in una farneticante relazione su tutti gli stereotipi tipici dell’immaginario stregonico: luoghi e tempi dei convegni, unzioni magiche, formule, rinunce ai crismi della religione cristiana, sottomissione al demonio, gerarchie di streghe; non ultime, le modalità apprese per “guastare” gli infanti e ricavarne ingredienti per i malefici. Ogni rivelazione concorre a dare forma a un affresco di colorita e popolare fantasia stregonesca, ma il carnefice, infierendo con indicibile sadismo, sembra non trovare mai completa soddisfazione nelle deliranti confessioni della vecchia e procede per successivi giri di vite.
Ormai preda della più cieca disperazione, nell’imminenza di una condanna che intuisce inevitabile, Bellezza durante la notte cerca la morte nella solitudine della cella, trafiggendosi la gola con un chiodo. Con crudele accanimento, il giudice si riserverà di sottoporla, agonizzante, a un ulteriore drammatico interrogatorio, durante il quale con freddezza le chiederà conto delle ragioni del gesto estremo. Bellezza, già quasi dissanguata, rivelerà in un’ultima emissione di fiato il suo unico e ultimo desiderio: abbandonare questo mondo.